martedì 5 febbraio 2013

Nino Agnello cantore della Vita in “Per sopravvivere al silenzio”


L’ultima opera di Nino Agnello –autore estremamente prolifico e di ormai consolidata posizione nel panorama letterario – pare una perfetta summa della sua produzione: Per sopravvivere al silenzio – questo il nome scelto dall’autore per la sua ultima creazione – porta davanti ai nostro occhi temi e percorsi, letterari e di vita al contempo, che hanno accompagnato lo scrittore agrigentino durante i suoi anni. Nel testo edito da Thule nel 2012 si vedono trascinati sulla scena quelli che dell’opera di Agnello sono stati i cavalli di battaglia, come l’amore per la classicità greca e latina, l’ideale greco della metriòtes, la capacità e la forza dell’intraprendenza, quest’ultima che riprende un romanzo molto riuscito dello stesso autore, La casa con gli archi, dove il protagonista sfida uomini e cose per raggiungere il suo scopo di aprire un grande negozio di alta moda.
Il libro in questione, Per sopravvivere al silenzio, appunto, è un continuo ricordo, un riportare alla mente fatti e persone che nella vita del protagonista-scrittore hanno avuto un peso sostanziale: ma, e qui sta la forza del testo, non si tratta di semplici aneddoti biografici che si racchiudono in se stessi e che dentro il piccolo cerchio del racconto si esauriscono, ma si tratta di esperienze di vita, semplici, quotidiane, comuni, in cui il lettore può leggervi le proprie. Il punto a cui certamente Agnello vuole tendere è far capire che un autore, anche se nella scrittura immerso in una realtà, forse, sublimata e astratta, per arrivare a quell’atto dello scrivere ha dovuto vivere momenti come quelli di ogni uomo, ha dovuto “sporcarsi le mani”, ha dovuto toccare con mano la vita.
Ora, perché questa presenza del silenzio (concetto chiave, a dire il vero, nell’opera di Nino Agnello) e perché sopravvivere ad esso? A questa domanda bene ci rispondono Tommaso Romano che cura la prefazione, e l’autore stesso nella premessa al suo libro. Leggiamo quanto proprio l’autore ha da dirci: «Come disseppellire i ricordi? Come far vivere con noi persone care e conosciute, scomparse e forse da tutti dimenticate? Con la scrittura, io potevo farlo solo con la scrittura. E così vennero di getto i brevi racconti, diciamo così, familiari, e poi quelli che chiamerei profili. Ricordi di una vita vissuta, comunque, fatti e persone che sono stati e sono ancora legati alla mia attività letteraria e più in generale al mio amore per la cultura, per la conoscenza e per i buoni rapporti umani». L’amore per la cultura è poi uno snodo essenziale, perché la vita di Nino Agnello è stata una “Vita per Omero”, per parafrasare una sua raccolta di racconti, una intera esistenza dedita allo studio e contrassegnata dalla fede per l’arte, un valore assoluto, purché non sia quella che «ubbidisce a esigenze di mercato, ma quella che mira a nobilitare l’uomo nella sua interezza e qualità interiori, quella che non dimentica il passato mentre che si proietta nel futuro. L’arte del bello e del buono come pensavano i greci antichi, dello spirito e delle virtù. L’arte dell’amore, tutto sommato».
Così, ogni parola, in quest’opera, diventa segno e un segno «è una parola vera che durerà nel tempo», scrive Tommaso Romano nella prefazione: la parola è manifestazione del profondo, continua ancora il direttore di Thule: molto vicino, in ciò, ad Ungaretti, autore che Nino Agnello ama visceralmente. Ogni parola è mistero e ad esso ci apre, è cerniera tra passato e presente e sbalza al futuro, quel futuro che in quanto probabile, eventuale, può generare angoscia, ma che è bello scoprire passo dopo passo, vivere con tutta l’umanità che si ha in corpo, con tutto il bagaglio di paure e trepidanti attese che la nostra natura ci ha dato in dote. Questo è stato il viaggio di Nino Agnello, un assaporare passo dopo passo, senza mai cedere all’inerzia, con forza ed intraprendenza e ogni ricordo, ogni parola sono segno vivo di un’esperienza che è di uno, ma che schiude al lettore l’universale bellezza della vita.

Giuseppe La Russa

sabato 2 febbraio 2013

La figura della Dea Madre nelle pagine di Evy Hàland

Da un incontro casuale, come posso confermare per mia esperienza diretta, nascono spesso buoni frutti. E’ questo il caso del libro di Maria Adele Anselmo La figura della Dea Madre nelle pagine di Evy Johanne Hǻland, pubblicato dalla Fondazione Thule Cultura con una pregevole prefazione di Tommaso Romano.
Come ci narra nel libro la stessa Autrice, l’incontro con la Dea Madre nasce da un suo generico interesse per la saggistica in lingua inglese, che la porta ad imbattersi in un saggio di una autrice norvegese a lei sino allora sconosciuta, Evy Johanne Hǻland appunto, la quale affronta questo affascinante tema sotto un profilo che a prima vista la cattura.
Di qui il desiderio di approfondire la tematica, un desiderio che spinge la Anselmo a documentarsi in una duplice direzione: da un lato leggendo testi fondamentali sulla Dea Madre che importanti studiosi hanno prodotto nella prospettiva loro offerta da discipline diverse; dall’altro, ricercando notizie sulla figura della studiosa norvegese con la quale, grazie agli approfondimenti compiuti nella materia, si pone in grado di interloquire direttamente.
Di questa impostazione “bifronte” è frutto il libro che ora esce in elegante veste editoriale, nel quale le notizie sulla Hǻland - dalla biografia al suo curriculum accademico e alla bibliografia, completate da un’intervista fattale dalla Anselmo ad Atene - si alternano ad una esposizione delle linee fondamentali caratterizzanti la figura della Dea qali emergono dagli studi citati, ben assimilati dall’Autrice come sinteticamente può rilevarsi sin dalla Introduzione. Le teorie esposte nel capitolo secondo sono quelle di Mircea Eliade, Marija Gimbutas e Ignazio E. Buttitta: una scelta volutamente limitata in considerazione dell’esistenza di una imponente letteratura dei più diversi Autori sulla materia, che costringe comunque ad una selezione: tuttavia quella operata dalla Anselmo non è casuale, ma mirata a costituire un percorso virtuoso che, attraverso le acquisizioni conseguite da questi studiosi, sfocia nella impostazione che la Hǻland ha costruito su tali fondamenta.
Un siffatto percorso non poteva che partire dal grande storico delle religioni Mircea Eliade e dalla sua idea dell’esperienza del sacro quale chiave di lettura per la comprensione dell’essenza dell’uomo, sia come individuo che come gruppo sociale: un’idea che presso le culture arcaiche costituisce il fondamento di ogni realtà e dell’ordine cosmico con il quale l’uomo è compenetrato. Questo senso del sacro vive attraverso la ripetizione rituale di teofanie, tra le quali prima e fondamentale è la maternità: da essa deriva la Madre Terra, percepita nei primordi come divinità onnicomprensiva e trasformatasi in seguito, con l’avvento delle culture agricole e delle loro ritualità agrarie, in Madre dei cereali. In questa nuova fase, Eliade mette in luce la relazione tra agricoltura e mondo dei morti, ossia tra i culti della fertilità e i culti funebri, in una concezione ciclica del tempo simboleggiata dal seme che muore nella terra per rinascere.
Lo sviluppo di queste idee trova una nuova ed originale interpretazione nell’opera della studiosa lituana Marija Gimbutas, secondo passo di questo itinerario, la quale mediante un approccio multidisciplinare fondativo della nuova disciplina dell’Archeomitologia, attraverso i reperti archeologici della vasta area da lei denominata Europa Antica ricostruisce e dimostra l’esistenza nel periodo preistorico, già a partire dal Paleolitico, del culto di una divinità femminile, espressione della terra feconda che si rinnova ma anche signora della morte. Tale pur preponderante ruolo femminile in una società che si evolve nelle forme agricole stanziali, non configura tuttavia un matriarcato come ipotizzato da Bachofen, ma si inquadra piuttosto in una società policentrica ed equilibrata, pacifica e senz’armi, nella quale permane il ruolo dell’uomo mentre l’importanza basilare della donna è strettamente correlata alla sua capacità generativa ed alla conoscenza dei misteri della procreazione che le viene attribuita. Nella foga di fornire la più ampia dimostrazione possibile delle sue accettabilissime tesi, la Gimbutas peraltro - e questa è una mia considerazione personale - cade in un “eccesso di prova” con una insistenza sulla fisiologia femminile che va “ultra petitum” e sembra riecheggiare gli slogan di un datato femminismo di maniera, proprio della sua epoca.
La terza tappa di questo viaggio nel quale siamo condotti dalla Anselmo è costituita dall’opera dell’antropologo siciliano Ignazio Buttitta, senza dubbio fondamentale per quanto riguarda l’espressione mediterranea di questi culti con particolare riguardo alla Sicilia. In Buttitta la fase precedente alla civilità agraria non viene in esame se non in modo incidentale: la sua attenzione è infatti focalizzata sulle feste agrarie siciliane, in un panorama sacrale tipicamente mediterraneo nel quale la Dea Madre si è già trasformata nella Madre delle messi, impersonandosi in Demetra il cui mito, legato in un binomio inscindibile con quello della figlia Kore rapita da Ade e divenuta col nome di Persefone regina del mondo dei morti, evidenzia l’aspetto ctonio ed infero della coppia divina madre-figlia, legato tuttavia indissolubilmente al ritorno alla sulla terra della giovane sposa, nella stagione della rinascita della natura. Lo studioso siciliano sottolinea l’importanza del calendario delle festività come chiave di lettura della loro funzione legata ai tempi agricoli ed evidenzia la consonanza di tempi e di modi tra le antiche feste pagane e quelle dedicate, nella nuova cultura cristiana, ai Santi ed in particolare alla Vergine Maria, la figura nella quale è sfociata quella della Dea Madre, perdendo tuttavia i caratteri di terribilità quale Signora della morte e conservando soltanto quelli benevoli.
L’approdo al quale ci conduce la Anselmo attraverso questo itinerario è il saggio della Hǻland del 2005 (ne traduco il titolo): L’anno rituale come la vita della donna: le festività del ciclio agricolo, passaggi del ciclo vitale delle Dee Madri e culto della fertilità,da lei riprodotto nell’originale testo inglese corredato da una sua traduzione.
L’accento è qui spostato esclusivamente sulla cerimonialità demetrico-agraria e sulla persistenza nelle feste odierne delle sue radici, sia pure riplasmate nell’orizzonte della religiosità mariana. Con un approccio di tipo antropologico comparativo, la studiosa norvegese compie un parallelismo tra la Grecia antica e quella moderna, tra le festività demetriche e quelle della Panagìa, specialmente sotto il comune denominatore del culto della fertilità, di natura prettamente femminile, e dei rituali di morte-rinascita. Ricostruisce le antiche festività pagane legate al ciclo agricolo, a partire dai Misteri Eleusini, evidenziando l’esistenza di feste riservate alle sole donne ed instaurando, poi, un parallelo con le numerosissime feste mariane del calendario liturgico ortodosso, la cui messa in relazione con i momenti cruciali del ciclo agricolo non appare tuttavia, a mio avviso, altrettanto convincente quanto quella delle feste pagane, data la maggiore sproporzione tra feste mariane e fasi della coltivazione che causa un eccessivo affollamento delle prime intorno a date non sempre abbastanza vicine a fasi dell’agricoltura o riportabili a momenti particolarmente significativi del relativo ciclo. Molto interessante è peraltro, a formare il quadro della continuità nell’ambito della cerimonialità agricola tra il mondo pagano e quello cristiano, il rilevato “slittamento” della figura della Dea Madre da Demetra ad Atena, che con la Panagìa ha in comune il carattere di Párthenos.
In conclusione, l’opera di Maria Adele Anselmo ha una impostazione composita ed originale, essendo un saggio non soltanto sulla Dea Madre, ma anche su Evy Johanne Hǻland, come peraltro risulta esplicitamente dal titolo. Lineare e significativo, nonché ricco di notizie e di spunti, risulta il percorso scelto per un approccio alla conoscenza della Dea, anche se programmaticamente mirato alla configurazione che ella assume nelle società agricole: resta pertanto ai margini, anche se in quei limiti ben svolto, il discorso relativo alla Dea nella preistoria, ma ci sembra ragionevole auspicare che l’Autrice, sviluppando l’interesse in lei casualmente originato dal saggio della Hǻland e che ha prodotto buoni frutti, possa farne oggetto di una futura più ampia trattazione.
                                                                                       Gianfranco Romagnoli