martedì 20 dicembre 2016

Prepararsi al Natale rileggendo “Il padrone del mondo” di R. H. Benson

di Luca Fumagalli

«Questo libro produrrà senz’altro sensazioni di sconforto e sarà (per ciò e per altri motivi) oggetto di ogni tipo di critica; ma mi è sembrato che il mezzo migliore per esprimere valori e principi che mi stanno a cuore e che io credo veri e infallibili fosse quello di tradurli in avvenimenti che possono commuovere». Con questa premessa Benson introduce il lettore nel mondo futuristico de Il padrone del mondo.
Alla fine del XX secolo l’uomo ha raggiunto gli estremi confini del progresso materiale e intellettuale. La vittoria del socialismo, l’eliminazione della guerra, la legalizzazione dell’eutanasia, l’adozione di cibi artificiali e l’uso dell’esperanto come lingua internazionale sono solo alcuni degli elementi che caratterizzano la nuova realtà. Con il trionfo dell’umanitarismo laico le religioni sono ormai quasi completamente scomparse. Il cristianesimo ha ritrovato la sua unità nel cattolicesimo, ma il modernismo e il complesso di inferiorità rispetto alla cultura dominante – alimentato da alcuni intellettuali – hanno dato il via a un’apostasia di massa che ha ridotto gravemente il numero dei fedeli. Il Papa, pur avendo riacquistato il controllo della città di Roma, da cui è bandita ogni tecnologia, rimane isolato sul piano internazionale.
I due protagonisti del romanzo non potrebbero essere più diversi: Julian Felsenburgh, socialista e massone dall’oscuro passato, governa l’intero Occidente grazie alle brillanti doti di oratore e alla personalità magnetica, mentre Percy Franklin è uno degli ultimi sacerdoti rimasti fedeli alla Chiesa, recentemente colpito dalla defezione di tanti confratelli tra cui l’amico Francis. Il terzo polo narrativo è costituito dai coniugi Mabel e Oliver Brand, militanti politici e accaniti sostenitori del progresso; davanti alle prime persecuzioni dei cristiani mostrano però una disillusione crescente. Mabel, stanca di una vita che appare senza senso, opta addirittura per il suicidio assistito.
Quando a Westminster viene scoperto un complotto ordito dai cattolici per far esplodere la cattedrale durante la celebrazione delle nuove festività laiche, Felsenburgh getta la maschera e decide di distruggere Roma. Tocca a Percy, nel frattempo eletto papa, affrontare una situazione apparentemente senza scampo: il misterioso politico americano è infatti l’Anticristo profetizzato dalle Scritture.
Nonostante la pubblicazione risalga al 1907, Il padrone del mondo è uno strumento utilissimo per decifrare la contemporaneità. Il legame con il presente emerge nel momento in cui l’autore individua come male della modernità non tanto le ideologie storiche – nel testo il socialismo passa rapidamente in secondo piano – quanto l’umanitarismo, una sorta di religione spuria, senza Dio, che fa appello a istanze tipiche del cattolicesimo per svuotarle dall’interno, pervertendole nel significato: come la tolleranza religiosa si tramuta in laicismo, anche la carità diventa una solidarietà generica e senz’anima. É un sovvertimento progressivo, lento e silenzioso, teso a ridurre tutto a un livello meramente umano. Ben presto anche la patina pacifista si sgretola per lasciare posto all’intolleranza e alla violenza.
L’essenza dell’umanitarismo, il nuovo pensiero unico dominante, è la sostituzione di Cristo con l’uomo. È lo stesso orribile sofisma che è a fondamento del grande rifiuto di Satana e del peccato d’Adamo. Il «Non servirò» del demonio è il motto del mondo distopico immaginato da Benson. Come ricorda il filosofo Augusto Del Noce, che ebbe a lodare la forza profetica del romanzo, «la secolarizzazione cerca la propria giustificazione ultima col porsi come strumento, unico strumento, di liberazione e di emancipazione umana da ogni forma di alienazione e di servitù».
Anche il riferimento alla massoneria, un’istituzione iniziatica sorta nell’Inghilterra del XVIII secolo, si inserisce nel medesimo tracciato. Il mondo pronosticato dallo scrittore inglese obbedisce alla logica agnostica della filosofia massonica per cui l’inconoscibilità del divino è presupposto all’impossibilità di una legge morale condivisa. Il nuovo e corrotto umanesimo è quindi l’esaltazione luciferina dell’egoismo, dell’elevazione dell’uomo a re e giudice di se stesso. La massoneria detiene il ruolo di fucina delle idee, una sorta di contro-Chiesa il cui compito è quello di spargere i germi della rivoluzione anticristiana. Dietro l’aspetto innocuo si nasconde il lato oscuro di una malattia spirituale che contamina il globo. La pace globale non è l’esito della cristianizzazione, come avveniva ne L’alba di tutto, ma il frutto di un’obnubilazione collettiva, di un diffuso disinteresse verso qualsiasi ricerca di senso e significato: quando Mabel si confronta seriamente con le aspirazioni del suo cuore, scopre un vuoto così incolmabile da spingerla al suicidio. L’annientamento di ogni residuo di umanità anticipa di poco la distruzione della terra.
La venuta di Cristo, al contrario di quella di Felsenburgh – il cui nome suggerisce una sinistra ambiguità –  provoca una profonda frattura tra uomo e mondo: «Non crediate che io sia venuto a portare la pace sulla terra. Non sono venuto a portare la pace, ma la spada» (Mt. 10, 34-38). Una separazione che, se da una parte genera il dramma, dall’altra restituisce il sapore della vita, fatta di quegli imprevisti che avvicinano alla consapevolezza di dipendere da altro. Al contrario, nel libro si assiste alla negazione di sé e dei propri desideri con il risultato che i protagonisti diventano rarefatti, fantasmi simili agli abitanti della Terra desolata di T. S. Eliot.
Il padrone del mondo, l’appellativo biblico dell’Anticristo, è un titolo così evocativo da assommare in sé il senso dell’opera narrativa di Benson. Felsenburgh rappresenta al massimo grado la tentazione del male e dell’autocompiacimento tipica di un’anima ferita dal peccato originale, la stessa tentazione che fu dei sovrani inglesi ai tempi della Riforma o degli uomini e delle donne dell’Inghilterra vittoriana.
In egual misura il romanzo nasconde dietro i colori della finzione letteraria una cristallina fotografia del XXI secolo. La nuova religione, con feste e riti codificati celebrati da sacerdoti apostati, come tante mode contemporanee è un pallido tentativo di corrispondere alle aspirazioni spirituali dell’umanità. L’opulente società del futuro, al pari di quanto scritto nel libro del profeta Daniele – a cui Il padrone del mondo ammicca in più punti – «sarà la desolazione dell’abominazione» (Daniele 9, 27).
Quando fa la sua comparsa l’affascinante politico americano, si è toccato il fondo della malvagità. Alimentato dai peccati delle nazioni, l’Anticristo può finalmente incarnarsi per condurre l’attacco finale al cristianesimo. Con sarcastica inversione, tutti lo acclamano come il salvatore e qualcuno già lo considera un dio, il «dominus et deus noster».
L’unica residua opposizione è costituita da Percy Franklin, nascosto a Nazareth con i pochi cattolici sopravvissuti alle persecuzioni, dove tutta la storia della salvezza ha avuto inizio. Felsenburgh organizza quindi un piano d’attacco per annientare i pochi superstiti; ma, esattamente come per Cristo agonizzante sulla croce, anche per la Chiesa il momento della sconfitta coincide con la più grande vittoria. Il male non può trionfare. Mentre le bombe sganciate dagli aerei radono al suolo il piccolo villaggio della Galilea, si compie ciò che era stato profetizzato: giunge la fine del mondo, la seconda venuta di Dio, la Vita eterna per tutti coloro che hanno sofferto in Suo Nome. Alla fine le porte dell’inferno non hanno prevalso.




sabato 17 dicembre 2016

L'antilingua modifica il nostro modo di pensare (senza che ce ne accorgiamo)

di Tommaso Scandroglio

Tra realtà e linguaggio c'è un legame profondo: il linguaggio ha la funzione di esprimere e comunicare il mondo, quindi di rivelarlo. La parola serve per designare la realtà ed è perciò strumento di verità. Prima c'è la verità e poi la parola che la esprime. Occorre quindi chiamare le cose con il loro nome.
Le ideologie di ogni tempo invece non vogliono riconoscere la realtà per quello che è (nel ventre della madre c'è un bambino, un maschio è per natura attratto da una femmina), ma vogliono creare una propria realtà, inventarla (nel ventre della madre c'è un grumo di cellule e un maschio per natura può essere attratto da un altro maschio): la realtà non è quella che è, ma è quella che vorrei che fosse. Chiamasi razionalismo: costruzione di una realtà esistente solo nella testa di chi l'ha ideata e che vuole sovrapporre, anzi imporre, alla vera ed unica realtà. 
Per creare una nuova realtà, occorre da una parte demolire quella vecchia e quindi i termini che la indicavano per impedire altre forme di pensiero. 

LA STERILIZZAZIONE LINGUISTICA
Sull'atro versante è necessario costruire un nuovo mondo anche con l'ausilio di nuovi termini, un nuovo vocabolario che indichi realtà prima inesistenti. Ecco quindi l'elaborazione di un'antilingua (termine inventato da Italo Calvino) o di una neolingua (neologismo di George Orwell).
Iniziamo dalla pars destruens. Occorre seppellire un mondo di valori, di visioni di vita (Weltanschauung), di prospettive filosofiche, di coordinate culturali. Per raggiungere lo scopo sul piano linguistico ci possono essere tre strade da percorrere. La prima: la semplice cancellazione del termine, senza sostituirlo con nulla. Oggi ci sono delle parole che sono dei veri e propri desaparecidos linguistici. Pensiamo a termini propri della filosofia metafisica come essenza o natura umana o lo stesso lemma metafisica; termini di carattere morale: virtù, castità, fortezza, mitezza, umiltà, verginità, nobiltà, lealtà; termini di carattere religioso: giudizio, inferno, paradiso, purgatorio. Da qui passa anche la sterilizzazione linguistica: togliere le armi linguistiche al nemico togliergli i concetti forti. Occorre candeggiare la lingua così da renderla debole, inefficace alla lotta dialettica. L'involuzione della lingua verso un suo impoverimento porta poi le persone a parlare male. E chi parla male pensa anche male, pensa in modo acritico. Lo ricordava Orwell: "Il depauperamento del linguaggio è un vantaggio, giacché più piccola è la scelta, minore è la tentazione di riflettere". 

LA SOSTITUZIONE LINGUISTICA
Altra modalità di carattere semantico per annientare un mondo vecchio al fine di costruirne uno nuovo: cancellare alcuni termini e sostituirli con altri. Cambio le parole che indicano la realtà, cambio il percepito della realtà stessa. Questo processo serve essenzialmente per due scopi. In primo luogo se la realtà è troppo ruvida e sgradevole è meglio edulcorarla. Il criminale nazista Adolf Eichmann al processo a Gerusalemme si difese dicendo che non si trattava di deportazioni di ebrei, ma di "emigrazione controllata" Analogamente il Parlamento italiano ha preferito usare l'espressione "unioni civili" e non "matrimonio omosessuale" perché il popolino non è ancora pronto per accettare quest'ultimo. Troppo indigesto per la sensibilità attuale. 

LA MUTAZIONE LINGUISTICA 
La mutazione linguistica è utile anche perché il possesso delle parole è possesso delle coscienze e della realtà. Se il nascituro è solo un "prodotto del concepimento" sarà impossibile difendere i diritti del nascituro dato che un prodotto non ha diritti. E così abbiamo non omicidio del consenziente o aiuto al suicidio ma eutanasia, dolce morte, biodignità, ecomorire, finecosciente (queste ultime espressioni sono state coniate da Piergiorgio Welby nel suo libro "Lasciatemi morire"); non sindrome a-relazionale ma stato vegetativo per suggerire che 1'uomo da persona è diventato vegetale e quindi lo possiamo uccidere come quando recidiamo un fiore con le forbici; non fecondazione artificiale ma procreazione medicalmente assistita, espressione che rappresenta in modo falso la realtà dato che il medico non aiuta le coppie a procreare ma si sostituisce ad essa in questo atto; non selezione eugenetica ma diagnosi genetica preimpianto; non marito e moglie ma semplicemente coniuge n. 1 e 2, termine che annulla in sé le differenze di sesso potendo essere i coniugi entrambi maschi o entrambe femmine; non marito e moglie ma compagno e partener usati in modo indistinto sia per i coniugi che per i conviventi perché matrimonio e convivenza pari sono; non pillola abortiva ma contraccezione di emergenza; non fidanzato, ma ragazzo, tipo, fino al "mi vedo con uno" per rendere i rapporti sempre più liquidi e meno responsabili. Sostituendo un termine con un altro le parole occultano la realtà, se ne allontanano sempre di più perdendosi in un mondo linguistico astratto e artefatto. E chi non conosce la realtà non può giudicarla rettamente. 

DEPOTENZIARE LE PAROLE
Terza modalità per seppellire un mondo vecchio: depotenziare i termini, uno dei tanti addentellati del cosiddetto pensiero debole. 
Natura, da termine di carattere prima di tutto metafisico, è diventato solo un sinonimo di ambiente; anima si è svilita in un termine tra il romantico e il New age e non indica più la forma razionale dell'uomo; amore non è più volere il bene dell'altro o non significa più donazione totale, ma solo un moto emozionale. Anche gli stessi termini di "bene" e "male" hanno perso di oggettività - e quindi di forza e vigore contenutistico - e indicano solo opinioni soggettive. Il filosofo Thomas Hobbes (1588-1679) lo spiegava con lucidità nel suo Leviatano: "Bene e male sono nomi che significano i nostri appetiti e le nostre avversioni". Contenitori semantici vuoti che ognuno riempie a piacere: per me l'aborto è male, per te è bene. Depotenziare significa svilire e quindi la parola porta con sé un'aura di stigma sociale che va al di la del suo significato e colpisce chi la usa. Parole come "autorità", "famiglia", "pudore" suscitano o repulsa o ilarità o scherno oppure riprovazione.

MONDO NUOVO, PAROLE NUOVE
Transitiamo alla pars costruens. Un mondo nuovo, ha bisogno di parole nuove per descriverlo. Tale processo può articolarsi attraverso le seguenti pratiche linguistiche. L'uso dei neologismi. Oggi viviamo in una selva di neologismi: "genitore sociale" (per indicare una persona, spesso omosessuale, che ha frequentato i figli di un'altra persona a cui è legata affettivamente); "donna- biologica" per indicare ii transessuale uomo che ha subito la rettificazione sessuale; "omofobia" termine inesistente in letteratura scientifica ma coniato ad hoc per sdoganare l'omosessualità ed attaccare la famiglia; "eco-morire" perché il termine "eutanasia" farebbe capire a tutti che si tratterebbe di un omicidio; "femminicidio" per far intendere che siamo di fronte ad un nuovo genere di omicidio di dimensioni spaventose quando invece la Relazione del Ministero dell'Intero al Parlamento ci informa che il numero di donne uccise decresce e invece il numero di vittime maschili è superiore a quelle femminili e in continua crescita; "animali non umani" per far intendere che le bestie sono persone e le persone bestie. Una seconda tecnica linguistica efficace per erigere un mondo nuovo è quella di mutare un termine da un ambito proprio ad uno improprio. Spieghiamoci con alcuni esempi. Le unioni civili vengono definite dalla legge 75/2016 come "formazioni sociali" ex art. 2 della Costituzione. Ma le formazioni sociali, minute alla mano dei lavori preparatori dei padri costituenti, sono invece i partiti politici, le confessioni religiose, i sindacati, etc. non certo le coppie omosessuali. La furbizia linguistica sta nel fatto che si mutua una espressione da un ambito e la si trasferisce in un altro ambito snaturandone però il senso. Caso poi paradigmatico è il lemma "genere". Questo termine è stato prelevato a forza dalla grammatica latina dove abbiamo appunto i generi maschile, femminile e neutro e introdotto in psicologia e sociologia per far credere che esiste anche il sesso/genere neutro. Operazione linguistica ideata dal prof. John Money che fonda nel 1965, all'interno dell'Università John Hopkins, la Clinica per l'identità di genere.

LA PERSUASIONE LINGUISTICA
Infine esiste una terza tecnica comunicativa utile agli ideologi: la persuasione linguistica. Non è sufficiente inventarsi parole nuove, importarle da altri contesti o sostituire quelle vecchie con altre, è indispensabile anche che tali nuovi lemmi siano accettati dal popolino. Per raggiungere lo scopo ci sono molte soluzioni. Qui ne esaminiamo solo due. La prima fa riferimento all'uso degli slogan. Questi ultimi servono per sintetizzare un pensiero complesso - e quindi per loro natura rappresentano una tecnica comunicativa valida - ma spesso dietro lo slogan c'è poco o nulla.
Lo slogan non di rado diffonde un modo di pensare senza fondamento e proprio perché è sintetico è necessariamente ambiguo, allusivo: dice tutto e niente, quindi di suo è difficile da attaccare perché devi spiegare molte cose per smontarlo. Lo slogan è invettiva e quindi è una freccia scoccata al lato emotivo della persona, al suo cuore, al suo immaginario, ai suoi sogni e desideri. È teso più ad eccitare gli animi, a persuadere che a descrivere e a provare la fondatezza di una tesi. 
Gli slogan servono per suggestionare, per persuadere e convincere, ma spesso dietro gli slogan c'è il vuoto, non ci sono argomentazioni valide. Ecco alcuni esempi di ieri e di oggi; Dio è morto, falce e spinello cambiano il cervello, siamo realisti esigiamo l'impossibile, l'utero è mio, love is love, diritto al figlio, vietato vietare, carpe diem, la morale cambia, l`amore può finire, va' dove ti porta il cuore, meglio divorziare che far soffrire i figli, essere se stessi, rispettare l'opinione degli altri.
Una seconda strategia per persuadere le folle è l'uso di termini talismano. Ve ne sono alcuni con accezione positiva, parole correlate "da un'aura di prestigio per cui quasi nessuno osa discuterli" (Lopez Quintas). È sufficiente accostarle a qualsiasi parola e questa diventa positiva. Sono il Re Mida linguistico, il passepartout per ribaltare il senso morale di alcune condotte. Oggi le più usate sono libertà e diritto. E così abbiamo il diritto di abortire, ad avere un figlio, di "sposarsi" per le persone omosessuali, i diritti degli animali, la liberta di morire, di cambiare sesso, di divorziare, etc. Per tacere di altri termini talismano molto in voga in casa cattolica come accoglienza, misericordia, inclusione, incontro, dialogo, etc. Ma esistono anche le parole talismano di senso negativo, termini la cui accezione è solo dispregiativa e che condannano socialmente la realtà o i soggetti a cui sono riferiti: "reazionario", "conservatore, "moderato", "revisionista" (ma la storia può essere oggetto di revisione), "fideista", "integralista cattolico" (è un complimento, perché il cattolico deve accettare la dottrina integralmente e viverla integralmente). O anche semplicemente "cattolico".

Nota di BastaBugie: nel romanzo "La fattoria degli animali" veniva descritta in maniera simbolica l'avvento del comunismo in Russia. Ma tale vicenda diventa paradigmatica di ogni totalitarismo, di cui il controllo del linguaggio diventa passaggio obbligato per imporre al popolo i velenosi frutti della rivoluzione.
Ecco il link all'articolo e al video del cartone animato tratto dal romanzo:

LA FATTORIA DEGLI ANIMALI, UN ROMANZO IMPERDIBILE
Ogni rivoluzione propone un obiettivo ingannevole: la libertà, ma sganciata dalla verità... e quindi finisce nel totalitarismo (VIDEO: La fattoria degli animali)
di Maria Vittoria Pinna

venerdì 16 dicembre 2016

umani o animali?

di Enzo Pennetta
Nell’elaborazione di un nuovo progetto editoriale per Il Timone mi sono trovato nella necessità di consultare un libro del filosofo bioeticista Peter Singer, uno dei più influenti a livello mondiale. Un libro pubblicato in lingua originale nel 1994 e in Italia nel 1996 dal titolo Ripensare la vita, con grande fortuna sono riuscito a trovarne una delle due copie disponibili tra Roma e provincia in una biblioteca in zona S. Giovanni e l’ho presa per cercare un passaggio di cui avevo solo letto una citazione.
Trovatolo sono poi passato a leggere altri capitoli scoprendo che c’erano molte altre cose interessanti nel libro, una in particolare riguarda il capitolo ottavo intitolato Verso il superamento della discontinuità che inizia con un esergo di Richard Dawkins:
“Per chi ha una visione discontinua delle cose, quello di umanità è un concetto assoluto.
Di mezze misure non possono esservene.
E ciò è causa di molti guai.”
Dawkins si conferma il trait d’union tra scienza e uso ideologico della stessa, Singer è sul versante di chi afferra lo strumento offerto per tradurlo in ricadute sociali. Il capitolo in questione è tutto un ripercorrere la storia della visione dell’Uomo rispetto agli animali, percorso pieno di luoghi comuni e forzature, si va infatti dalla visione copernicana che avrebbe tolto l’Uomo dal centro dell’universo (peccato che nella concezione dantesca il centro era il punto più basso e della creazione e sede di ciò che è imperfetto), alle solite vicende di Giordano Bruno e Galilei, che ovviamente sono riportate come vulgata comanda, per approdare infine a Darwin che avrebbe portato a compimento la rivoluzione copernicana togliendo all’Uomo il suo posto tradizionale.
Una narrazione da fare invidia a Dan Brown, si potrebbe chiamare “Il codice Singer”, un segreto terribile: l’Uomo è uguale agli animali. Ma un segreto che si basa su falsità e quindi il vero segreto che deve essere mantenuto sono le sue fallacie.
Per Singer, dopo il compimento dell’equiparazione tra uomo e animale compiuto da Darwin (e Thomas Huxley), lo status speciale dell’Uomo ha ricevuto diversi “scossoni”:
La questione ambientalista che mette in discussione la signoria dell’Uomo sulla natura ereditata dal cristianesimo.
L’emergere negli anni ’70 del movimento di liberazione degli animali.
Alcuni primati, tra cui un gorilla, hanno imparato il linguaggio dei segni, quindi la parola non è una prerogativa umana.
L’emergere delle conoscenze sulle scimmie e la scoperta delle differenza del DNA umano e degli scimpanzè dell’1,6%.
Argomenti la cui fallacia può essere facilmente dimostrata:
La questione ambientalista potrebbe dimostrare la signoria dell’Uomo sulla natura, infatti solo la specie umana ha la possibilità di preservarla o distruggerla, cosa che nessun altro essere vivente può fare.
I movimenti di liberazione degli animali partono dal dogma che uomini e animali siano uguali, usarli per dimostrare che uomini e animali sono uguali è una banale tautologia.
La sicumera ostentata da Singer nel suo libro sull’analogia tra linguaggio animale e umano è stata impietosamente demolita dallo studio “The mystery of language evolution” del 2014.
La differenza percentuale tra DNA umano e di scimpanzè pari all’1,6%, una comunanza del 98,4% che diventa non significativa a fronte del 95% che ci unisce ai topi e al 50% che ci vede accomunati alle banane.
In definitiva nel suo libro Singer non solo non dimostra la sua tesi sul ripensare la vita umana, ma riesce benissimo a far capire come il darwinismo sia stato fin dal principio un puntello indispensabile per far passare un’antropologia riduzionista e riduttiva, una narrazione funzionale ad una visione sociale utilitaristica, quella che ho definito come “L’invenzione dell’antropologia capitalista”.



giovedì 15 dicembre 2016

Robert Hugh Benson e Thomas Becket

di Luca Fumagalli

Thomas Becket per mons. Benson non era un santo qualsiasi. Come Thomas More anch’egli incarnava uno degli elementi decisivi della poetica dello scrittore inglese: la perenne lotta tra le forze dello spirito e le tentazioni secolari, tra la Chiesa e il mondo, tra Cristo e Cesare. La storia del vescovo che sfidò il suo re e che per questo venne brutalmente martirizzato, anticipava di qualche secolo il dramma della Riforma che, a partire da Enrico VIII, avrebbe devastato per sempre il cattolicesimo britannico. Non stupisce quindi che, al di là dei numerosi romanzi storici ambientati nel XVI secolo, Benson abbia pensato nel 1908 di pubblicare un agile saggio, intitolato The Holy Blissful Martyr Saint Thomas of Canterbury, dedicato proprio alla parabola esistenziale di Becket, dall’infanzia fino alla morte gloriosa.
Il progetto, cominciato qualche anno prima con la collaborazione di Frederick Rolfe “Baron Corvo”, era stato proseguito in solitaria da Benson, dopo che il rapporto tra i due era naufragato a causa di litigi e incomprensioni. Il sacerdote stravolse totalmente l’impianto iniziale – che prevedeva la scrittura di un vero e proprio romanzo – per ripiegare su un lavoro meno pretenzioso, una plaquette dai toni didascalici, abbellita da vivaci digressioni e ampi squarci descrittivi.
Thomas Becket, nato nel 1118, era un giovane promettente, certamente destinato a una grande carriera nei ranghi della burocrazia inglese. In effetti, l’abile oratoria, la profonda scienza e le spiccate doti atletiche, lo rendevano un uomo prezioso per il sovrano di cui divenne presto intimo amico. Enrico II non rinunciava mai ai consigli di Thomas che sovente impiegava per le missioni diplomatiche più delicate. Nel 1154 lo nominò addirittura Lord Cancelliere, cioè primo ministro del regno. Seppur riluttante, nel 1162 Becket venne eletto infine Arcivescovo di Canterbury per volontà del re, che desiderava evitare i conflitti che avevano caratterizzato i suoi rapporti con il precedente arcivescovo.
Lo scontro tra Thomas ed Enrico, a questo punto, divenne inevitabile. Il Plantageneto, da sempre interessato a limitare i privilegi del clero inglese, emanò nel 1164 le famigerate “Costituzioni di Clarendon” credendo di trovare un alleato nel nuovo primate. Naturalmente si sbagliava. Becket non aveva mai dimostrato una grande predilezione per il sacerdozio, ma aveva coltivato una profonda fede sin dalla gioventù, comunicandosi regolarmente, pregando ogni giorno e conducendo un’esistenza moralmente integerrima. Enrico II si trovò quindi ad affrontare un uomo disposto a tutto pur di salvaguardare i diritti della Chiesa e del Papa in Inghilterra. Fu così che nel 1170 Thomas Becket testimoniò con il martirio la superiorità di Cristo rispetto a qualsiasi re di questa terra: quattro sgherri lo uccisero mentre era raccolto in preghiera presso l’altare della cattedrale di Canterbury.
Non si sa se i quattro, armati fino ai denti, agirono di loro iniziativa per guadagnare il favore del sovrano che spesso si lamentava del fastidio procurargli dall’ex amico, o se invece eseguirono un ordine di Enrico. Quel che è certo è che al Plantageneto fu levato dai piedi un fastidioso impiccio. 
The Holy Blissful Martyr Saint Thomas of Canterbury, purtroppo mai tradotto in italiano, resta uno dei libri più commoventi di Benson, impegnato in un lavoro di ricostruzione storica e ideologica, recuperando nelle pieghe del tempo le ragioni che mossero tanti inglesi, di cui Becket fu solo il primo, ad arrivare alla “follia” di morire per Cristo. L’aureola di sangue che circonda la testa del morto è la corona del vero vincitore, di colui che ha guadagnato un regno glorioso che il mondo non potrà mai offrire: il Paradiso.

Resistenza e fedeltà alla Chiesa nelle epoche di crisi

  1. Infallibilità e indefettibilità della Chiesa
La Chiesa nella sua storia è passata attraverso le più gravi difficoltà: persecuzioni esterne come quelle che hanno caratterizzato i primi tre secoli di vita e che da allora la hanno sempre accompagnata, e crisi interne, come l’arianesimo del IV secolo e il Grande Scisma d’Occidente. Ma il processo di “autodemolizione”della Chiesa,“colpita da chi ne fa parte”, di cui Paolo VI parlava fin dal 1968, appare come una crisi senza precedenti per la sua ampiezza e profondità.
Lo diciamo in spirito di profondo amore al Papato, rifiutando ogni forma di gallicanesimo, di conciliarismo, di anti-infallibilismo, in una parola ogni errore che voglia diminuire il ruolo e la missione del Papato. Professiamo, con tutta la Chiesa, che sulla terra non esiste autorità più alta di quella del Papa, perché non c’è missione né carica più elevata della sua. Gesù Cristo, nella persona di Pietro e dei suoi successori, ha conferito al Romano Pontefice la missione di capo visibile della Chiesa e di suo Vicario. La costituzione dogmatica Pastor aeternus del Concilio Vaticano I ha definito i dogmi del Primato Romano e dell’infallibilità pontificia. Il primo afferma che il Papa ha una potestà di giurisdizione suprema, ordinaria ed immediata, sia su tutte e singole le Chiese, sia su tutti e singoli i pastori e fedeli. Il secondo dogma insegna che il papa è infallibile quando parla “ex cathedra”, vale a dire quando nella sua funzione di supremo Pastore definisce che una dottrina in materia di fede e di morale debba essere tenuta da tutta la Chiesa.

venerdì 9 dicembre 2016

La dittatura giacobina

Francia – Aborto, approvata legge che vieta di difendere la vita su Internet

Con una votazione per alzata di mano, l’Assemblea nazionale francese ha approvato nella serata di giovedì 1° dicembre in prima lettura la norma che aggiunge agli «ostacoli all’interruzione di gravidanza» puniti dalla legge anche quello «digitale».
La riforma, attesa ora dall’esame del Senato, nasce da un’iniziativa del governo socialista che punta a spegnere la voce dei siti Internet curati da varie associazioni a difesa della vita per sopperire agli effetti di un’altra legge fatta approvare esattamente un anno fa dalla maggioranza che eliminava la settimana obbligatoria di riflessione per le donne che stanno pensando di abortire. L’eliminazione di quello spazio nasceva dall’idea secondo la quale la donna non deve rendere conto a nessuno della sua decisione di abortire, che dunque da facoltà depenalizzata a certe condizioni diventa “diritto”. La conseguenza della cancellazione di qualsiasi figura con la quale la donna possa confrontarsi prima di decidere ne era l’inevitabile conseguenza.
L’ulteriore intervento normativo – apertamente liberticida – introduce una vera e propria repressione di presenze online che si propongono semplicemente di ascoltare e, se richieste, consigliare le donne alle prese con una scelta drammatica. Una riforma lungamente annunciata, contro la quale sinora non si è alzata nessuna tra le voci che abitualmente difendono la libertà di parola su Internet.

lunedì 5 dicembre 2016

Tommaso d’Aquino l’immortale maestro dei cattolici

di Fabrizio Cannone

I cattivi maestri di novecentesca memoria, i cui scritti ancora nuocciono in pieno XXI secolo, non debbono farci dimenticare i veri e i grandi maestri del passato, i quali restano come dei fari nella notte buia che a tratti sembra invadere la scena della vita contemporanea.
La figura di san Tommaso d’Aquino (1225-1274) non ha davvero più bisogno di presentazioni tra i cattolici e gli italiani di cultura media.
Ha bisogno invece, l’Angelico Dottore, di essere conosciuto, di essere diffuso, di essere studiato come un immenso portatore di sicurezza, di pace e di vera gioia. La pace infatti è la “tranquillità dell’ordine” (Agostino), è l’armonia tra le parti di un unico corpo (come i cittadini di uno Stato), ed è la fraternità che lega o dovrebbe legare gli associati, a vario titolo, tra di loro (di un paese, città, quartiere, borgo, impresa, sodalizio, etc.). E la gioia è la fruizione di questa vera pax christiana in cui tutti esercitano i propri diritti e osservano i propri doveri, e dove ognuno vive più per il bene comune che per i propri pur legittimi interessi. Eppure…
La difficoltà dell’accesso al pensiero filosofico-teologico-etico di Tommaso deriva anzitutto da due cause materiali, diverse e convergenti. La prima è, tradizionalmente, l’alto prezzo delle sue opere disponibili in libreria, specialmente la più nota tra tutte, la Summa theologiae. Summa (da poco ripubblicata dalle edizioni ESD di Bologna in una nuova eccellente traduzione italiana) da considerarsi come un monumento di inarrivabile sapienza e come la sintesi organica di secoli e secoli di ricerca, di riflessione e di pietà cristiana. La seconda difficoltà sta nella scarsa conoscenza, a livello della cultura diffusa, della logica del pensiero medievale, pensiero che anche nei licei odierni è trattato in modo sommario e generico, quasi en passant tra l’antichità greco-romana (da Socrate a Platone, da Aristotile a Seneca) e le magnifiche sorti progressive iniziate con l’Umanesimo e il Rinascimento.
Se invece i nostri liceali, assai numerosi oggi in Italia, ricevessero le giuste chiavi di lettura per comprendere la filosofia medievale e la scolastica (da farsi in parallelo con la storia politica e militare, la storia dell’arte e la storia della scienza), allora sono certo che S. Tommaso tornerebbe presto in auge, come lo fu sempre, tra gli studiosi veramente profondi, negli ultimi 4-5 secoli.
Le Edizioni Studio Domenicano, che ci hanno da poco offerto una nuova edizione integrale e bilingue della Summa, da diversi anni stanno realizzando una bella collana di testi tomisti di facile accesso, sia per il prezzo che, tutto sommato, per il contenuto (cfr. La Legge dell’amore, La virtù della speranza, La giustizia forense, etc. Si auspica vivamente che molti trattati tomisti, per esempio alcune delle Quaestiones disputatae, vengano riprodotti in opuscoli di dimensioni congrue e con annotazioni di aiuto al lettore).
Da poco si è (ri)aggiunto un nuovo strumento per l’iniziazione al pensiero di Tommaso: il Compendio diteologia (Utet, 2016, € 15.90). Questo Compendio tratta in modo accessibile i grandi temi del pensiero tommasiano e medievale: Dio e la creazione, la fede, la speranza, la carità, la vita eterna, la legge morale, la giustizia, il peccato, il male, il retto ordinamento della società e così via. Insomma l’Autore interpreta da par suo la necessaria tendenza umana verso le cose spirituali, non materiali, ma pur sempre decisive nella vita di ognuno. Al Compendio sono poi aggiunti come appendice alcuni opuscoli dell’Angelico in difesa della vita religiosa e del lavoro dei monaci, sia manuale sia nell’insegnamento universitario.
La figura del frate domenicano Tommaso d’Aquino è tutto meno che banale. Nato da nobile famiglia dell’Italia meridionale, entrò giovane tra i religiosi biancovestiti fondati dallo spagnolo Domenico di Guzmán (1179-1221). Amante della scienza, della virtù e della sapienza, studiò a Colonia e insegnò in varie parti d’Italia, oltre che alla Sorbona di Parigi.
La sua opera complessiva è fatta da decine di testi filosofici, esegetici e teologici che lasciano stupefatti lo studioso e perfino lo studente che si imbatte in essi: la logica che presiede all’opera di san Tommaso sembra essere più una “matematica divinamente ispirata” che una semplice ricerca fatta di accumulo, revisione e sviluppo.
Tutti i Pontefici della storia (dal XIII secolo ad oggi), e senza alcuna soluzione di continuità, hanno indicato in san Tommaso d’Aquino il teologo cattolico per eccellenza e, se questo non stupisce per i papi medievali e rinascimentali (l’Angelico fu canonizzato nel 1323 e dichiarato Dottore della Chiesa nel 1567), potrebbe stupire per quelli più recenti. Giovanni Paolo II ad esempio, in un importante documento del 1998, in cui stigmatizzava la separazione tra fede e ragione (n. 45) e notava come “uno dei dati più rilevanti della nostra condizione attuale consiste nella crisi di senso” (n. 81), proponeva il ritorno al pensiero dell’Aquinate in questi termini: “san Tommaso amò in maniera disinteressata la verità. Egli la cercò dovunque essa si potesse manifestare, evidenziando al massimo la sua universalità (…). Il suo pensiero (…) raggiunse vette che l’intelligenza umana non avrebbe mai potuto pensare” (Fides et ratio, n. 44).
Siamo convinti che tutti i problemi politici e sociali odierni, dalla crisi economica all’invasione dei migranti, dalla diffusione della droga e della violenza giovanile sino all’auto-demolizione dell’istituto familiare, potrebbero essere meglio impostati e risolti, almeno in potenza e in nuce, grazie alla saggezza secolare e davvero mirabile, di quei Maestri di vita e di pensiero che l’Italia ha lasciato, come eredità perenne, al mondo intero.

da: www.libertaepersona.org

giovedì 1 dicembre 2016

E all’improvviso fu il linguaggio

di Arnaldo Benini

Per Noam Chomsky il linguaggio umano è un evento senza precedenti e analogie. Perché solo noi? La risposta di Chomsky è naturalisticamente fondata. Le scienze naturali del linguaggio, nonostante le critiche, in particolare a questo libro scritto con l’informatico Robert Berwick, sono ancora alle prese con le idee geniali di Chomsky. Nel 1959 egli ripudiò (Language (35, 26-58,1959) la teoria, molto condivisa, del filosofo empirista B. F. Skinner, secondo la quale comunicazione animale e linguaggio sarebbero aspetti del comportamento imposto dall’ambiente. Gesti, movimenti e grida degli animali sarebbero antecedenti del linguaggio. Il contributo di chi parla all’acquisizione della lingua sarebbe insignificante, tutto dipendendo da fattori ambientali.
Chomsky obiettò che il passaggio dei meccanismi cerebrali della comunicazione animale all’uomo avrebbe dovuto lasciare una traiettoria evolutiva di cui non c’è traccia. Non c’è animale, nemmeno lo scimpanzé col quale condividiamo il 97% del genoma, che metta insieme due parole. Nessuna lingua, neanche quella di popolazioni isolate, ha tratti in comune con la comunicazione animale. Le proprietà essenziali della facoltà umana, secondo Chomsky, sarebbero emerse quasi all’improvviso(rispetto ai consueti tempi evolutivi) grazie, «a un ricablaggio probabilmente leggero» del cervello, in concomitanza, forse, con un discreto aumento del suo volume, circa 80mila anni fa, in una popolazione dell’Africa orientale.
Negli scimpanzé le aree corrispondenti al linguaggio sono più strutturate di quelle delle altre scimmie, ma molto meno che nell’uomo. Chomsky porta ad esempio il grande giro arcuato fra le aree della produzione e della comprensione del linguaggio, negli scimpanzé appena accennato. Negli scimpanzé le aree avrebbero iniziato a svilupparsi, per rimanere poi allo stato di 2 milioni d’anni fa. Perché? La spiegazione più verosimile è che il linguaggio umano non è sorto come mezzo della comunicazione. 
Al suo sorgere, e ancora oggi, il linguaggio – per Chomsky e altri linguisti e biologi, fra cui Francois Jacob – era ed è principalmente lo strumento dell’autocoscienza. Col linguaggio interiore nacquero la mente e il pensiero, più tardi la comunicazione. Pensiero e autocoscienza sono eventi dei lobi cerebrali prefrontali, che presero ad evolvere circa 2 milioni e 200mila anni fa, nella linea evolutiva dell’Homo. Non bastano le aree motorie e sensorie per parlare, bisogna avere qualcosa da dire. Quando i meccanismi nervosi del pensiero interiore furono connessi al sistema sensomotorio, nacque il linguaggio parlato, più tardi quello scritto. Ventimila anni dopo quella popolazione avrebbe preso a emigrare, portando nel cervello e diffondendo la struttura cerebrale del linguaggio.
Per Chomsky essa è la base della grammatica universale, esternalizzazione del parenchima cerebrale delle aree del linguaggio e matrice innata di tutte le lingue, anche di quella gestuale. Essa consente a chi sa bene una lingua di capire senza difficoltà enunciati mai sentiti prima e di crearne infiniti nuovi, come avviene nei bambini a partire dai 5-6 anni. La spiegazione razionalista di Chomsky della creatività del pensiero e del linguaggio è la più verosimile. Sordomuti hanno sviluppato una comunicazione gestuale in cui la categoria grammaticale del soggetto è all’inizio di ogni frase (PNAS 27,19249-19253,2005).
Grazie all’universalità dei meccanismi nervosi della grammatica i bambini imparano senza difficoltà la lingua madre, e anche più di una, e il messaggio di ogni lingua è traducibile in qualunque altra. La facilità d’apprendimento delle lingue in cui si cresce è un’eredità biologica specificatamente umana. Negli ultimi 50mila anni non sembra esser cambiato nulla di biologico: le aree frontali del cervello hanno prodotto un’evoluzione culturale che, dice Tattersall, dal linguaggio interiore dopo pochi millenni ha portato l’uomo sulla luna, mentre fino ad allora l’evoluzione culturale era stata lentissima. Sull’origine del linguaggio le opinioni divergono fra neuroscienziati, di regola consenzienti con la grammatica universale, e antropologi: molti pensano che esso sia talmente connesso alla condizione umana da dover essersi sviluppato in un tempo lunghissimo, simultaneamente forse all’evoluzione dei lobi prefrontali.
Ciò lascia senza replica l’obiezione di Chomsky, ribadita e accentuata nel libro, che un’evoluzione lenta e graduale deve lasciare tracce di stadi intermedi. In un mare di critiche, anche molto aspre, sembra naufragare la nuova teoria con la quale Chomsky e Berwick, avventurandosi nel terreno infido della spiegazione degli eventi della coscienza, spiegano come dalla materia del cervello della grammatica universale sia sorto, quasi improvvisamente, il linguaggio. Esso sarebbe comparso in seguito alla fusione (“merge”) di elementi sintattici in un’espressione più ampia. La capacità di “fondere” due (ad esempio libro e leggere in leggere il libro), poi migliaia di parole dei meccanismi della grammatica universale sarebbe la levatrice di tutte le lingue.
Essa si sarebbe manifestata inizialmente in un solo membro, che Chomsky chiama Prometeo, della popolazione africana che per prima acquisì il linguaggio. La critica più demolitiva della teoria senza dati è riportata nell’Economist (26 marzo 2016): la biografia di Chomsky ha in comune con Einstein che entrambi i geni scrissero le opere fondamentali in gioventù.

da: www.radiospada.org

lunedì 21 novembre 2016

Tommaso Romano, "Elogio della Distinzione" (Ed. Thule)

LA DISTINZIONE COME NOBILTÀ NEI CAVALIERI DELLO SPIRITO
di Giuseppe Bagnasco


  Dopo l’Elogio dell’ozio di Bertrand Russel e il più vetusto Elogio della pazzia di Erasmo da Rotterdam, tra i più rinomati e che si “distinguono” dai tanti, per gli argomenti similari trattati nel campo della disquisizione antroposociologica, ecco l’arrivo sul tavolo delle nostre “distrazioni”, quasi a completamento di una sorta di Trilogia, L’Elogio della Distinzione (Fondazione Thule Cultura – Palermo 2016) del filosofo Tommaso Romano. Non è un trattato ma un “manifesto”, una riflessione non confessionale, sullo stato e condizione contingente e spirituale a cui è pervenuta la società contemporanea del mondo che per semplificazione chiamiamo “occidentale”. Un manifesto, dicevamo, che si può leggere alla stregua di un manuale di regole educative, senza per questo assumere i connotati di una filippica sebbene a tratti appaia come significativa e volitiva “omelia”. Né poteva essere diversamente per l’argomento affrontato e che spazia per tutto l’arco della devianza nei comportamenti “tradizionali” dell’uomo odierno.

   Per potere scrutare a primo acchito il poderoso testo e carpirne le parti più salienti, visto che è composto da ben tre “corpi” relativi ad un saggio dell’Autore, un saggio dell’illustre Amadeo-Martin Rey y Cabieses e un ricco e unico Florilegio di Autori, ci viene in soccorso il sottotitolo: Aristocrazia, Cavalleria, Nobiltà, Stile in tempo di barbarie. Non c’è alcun dubbio nell’affermare che si tratti di una esplorazione storica e sociologica su ciò che questi “titoli” hanno rappresentato e che l’Autore  sottolinea con l’intercalare il testo di disegni riferiti a momenti d’azione della Cavalleria  d’un tempo con schiere cristiane affrontanti le saracene e la raffigurazione nell’antifrontespizio della sagoma idealizzata del Krak (fortezza crociata in Siria) dei Cavalieri Ospitalieri di Gerusalemme divenuti poi di Rodi, infine di Malta e oggi rappresentati dallo SMOM.
   Tommaso Romano, non nuovo nell’esposizione di “tesi teologali” sullo spirito, da buon cristiano di fede qual è, mette al servizio del dettato di Dio, la vestitura armata del distinto “Cavaliere dello Spirito”. E lo fa discettando sui temi sopraindicati, a cominciare dal concetto di Aristocrazia, distinguendo quella di spada da quella dello spirito.  L’aristocratico, nel composto della semantica greca di aristòs (eccellenza) e cratòs (potere di governo), delinea una persona che si governa da sé e per espansione, colui che si isola dalla folla. E per folla, come afferma l’Autore, s’intende quanti sono accomunati nella volgarità, rozzezza, dozzinalità e violenza del comportamento nelle parole come negli atti, fino ai modi. Tuttavia, sempre nel proseguo della ratio in Romano, l’isolarsi dalla realtà, l’eccessivo autocontrollo, compresa la mancanza di ironia, non consentono l’educazione alla nobiltà che, di contro, si consegue nella capacità del saper scegliere il confacente rapporto con il prossimo. L’aristocratico è pertanto la persona distinta, custode di quei valori che dovrebbero armare  i suddetti Cavalieri per conquistare “nelle steppe del nulla, la Gerusalemme Celeste. Il tutto”. Oggi che il “progressismo”, l’innaturale livellamento sessuale, l’omologazione alla massificazione, portano ai conseguenti disvalori, fra tutto questo declinare un posto privilegiato è riservato ad una virtù d’eccellenza: l’Onore.
   Ora, a prescindere dalle valutazioni sottolineate dallo storico Franco Cardini che lo conforma a dignità personale, reputazione e onorabilità  comportanti il diritto della persona al rispetto e alla stima, bisognerebbe qui aprire uno spaccato su questa virtù che, a parere non solo nostro, incardina tutte le qualità del “buon uomo”, del buon cristiano ma che non si riflette nel diverso homo bonus del poeta Marziale. Incominciamo, purtroppo, col dire che le culture della menzogna, dell’ipocrisia, hanno inferto una profonda e dolorosa ferita nel comportamento deontologico degli uomini e in particolare nel malinteso senso dell’onore soprattutto se riferito alla latina sacralità della parola data, pacta servanda sunt, come comprova, per mantenerla, il  sacrificio del console Marco Attilio Regolo. Pensiamo ad esempio a quanti giustificano un loro scomposto agire con un’alzata di spalle o con quel “Je m’en fous”, di recente pronunciato dal Presidente della Commissione Europea Juncker e che fa comprendere quale ingloriosa fine abbia fatto quel certo bon ton!. Ma la trasgressione del senso dell’onore ha antica data giacchè la ritroviamo, spulciando la mitologia greca o passi della Bibbia, nei racconti del “padre” Zeus che ricorreva al travestimento e finanche alla sostituzione di persona per sedurre con l’inganno le belle mortali o come nella vergognosa e subdola condotta di Re David quando mandò in guerra, in prima linea e quindi alla morte Uria, lo sposo della bella Betsabea che aveva sedotto e che comunque poi da vedova sposò. E ancora, non possiamo elencarli tutti, nel tradimento fatto da un certo Horatio Nelson nei confronti dell’Ammiraglio Caracciolo (la resa in cambio della vita) e che invece fece impiccare sulla murata della sua Victory contravvenendo come un volgare pirata alla parola data. Infine, ricorrendo alla Storia, ancora sull’onore tradito, quando Enrico IV di Francia pur di mantenere salda la sua corona abiurò alla sua fede protestante e abbracciò quella cattolica con un probabile e analogo “Je m’en fous” nel famoso “Parigi val bene una messa!”. Ma i dettati del codice d’onore hanno sempre governato, lungo il corso dei tempi, gli uomini giusti e probi e ciò sin dai codici cavallereschi del Medioevo giungendo per alcuni tratti, perfino a quelli non scritti dell’onorata società, uniformemente intesa in tutto il nostro Meridione e giunta, con l’emigrazione “imposta” dopo la sua piemontesizzazione, fino alla “frontiera” dell’Ovest americano. Erano codici che tutelavano l’onestà della donna, intoccabilità dei bambini, la parola data, con in aggiunta il divieto di sparare alle spalle o ad un uomo disarmato. Norme non scritte nella vita che, fino all’abolizione formale del feudalesimo, si conduceva nei feudi e che era regolata da un castaldo, un soprastante, un fattore che amministravano la giustizia “parallela” essendo i feudi luoghi spesso “inaccessibili” anche alle compagnie rurali dei governi del tempo. Nacque lì la vecchia “onorata società” da non confondere con la successiva malavita organizzata o coi “picciotti” di La Masa che furono, ma ancor prima in letteratura nei manzoniani “bravi” di Don Rodrigo o nei severi “tribunali” della setta panormita dei Beati Paoli di natoliana memoria, il loro capostipite. Era quest’ultima una “Confraternita” segreta, come afferma il Villabianca, di uomini valenti che perseguivano i valori della difesa dei deboli e della giustizia pur rimanendo nelle loro feroci sentenze ferventi religiosi e credenti in Dio e al Santo di Paola, a cui si richiamavano. A uomini di tal fatta, a questi “uomini d’onore”, si deve l’appellativo di “cristiano”. Ma torniamo all’Elogio della Distinzione e al tema della Ecosofia affrontato dal filosofo Romano nel riconsiderare il senso della abitazione in cui si vive.
   Al pari di Francesco Alberoni che nel novero della scienza della comunicazione include quella che avviene attraverso il vestire certi abiti dando a questi la facoltà di dare un messaggio su chi li indossa, così il Nostro attribuisce lo stesso significato all’arredamento e al gusto di disporlo in un certo modo nella dimora di una persona dalle qualità “aristocratiche”. E questo come proiezione della propria identità dedicando tra gli arredi anche uno spazio ai ritratti dei propri antenati a guisa dei Lari e dei Penati dei Latini. Completano, conclude Romano, la bellezza della dimora, non necessariamente un palazzo, il poter accudire l’eventuale giardino di casa o il curare il collezionismo al pari di un personale museo, considerando entrambi come manifestazioni secondarie del gusto del dimorante. Con questo fare si può contrastare, aggiunge l’Autore, il completamento dell’ecatombe che incalza e principalmente col formare, con persone che in ciò si riconoscono, una sorta di patriziato civico di pochi ma decisi “Cavalieri”. Titolo di nobiltà, ammonisce il Nostro, che non deve essere acquisito tramite sedicenti Istituti che l’elargiscono dietro compenso essendo insita la possibilità di poter incorrere così, in quel “Todos Caballeros” che l‘imperatore Carlo V concesse a certi postulanti sardi che lo reclamavano. Frase che oggi viene usata in tono dispregiativo annullando di fatto la distinzione o il prestigio dei pochi che lo meritano.
   Fatto salvo questo primo “tomo” che forma il “corpus iuris” principale dell’Elogio della Distinzione, essa incorpora altresì una poderosa antologia, un Florilegio di Autori che espongono le loro frasi, trattazioni, aforismi nel reticolo degli argomenti qui esposti, con particolare riguardo al significato di Aristocrazia. Pur tuttavia di questi Eccellenti non ci è possibile citare tutti i nomi dal momento che in dettaglio l’elenco supera le cento pagine. Fa da cornice a tanto disquisire, un prezioso saggio del nobile spagnolo Don Amadeo-Martin Rey y Cabieses, storico e critico nell’ambito araldico-cavalleresco della Classe aristocratica e della Tradizione iberica, che ne approfondisce lo studio, con un particolare riguardo a quello genealogico italiano. Il saggio dell’Illustre, Componente dell’Audizione Generale e Consigliere della Real Deputazione del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio nonché Membro Corrispondente del Collegio Araldico di Roma, risulta diviso in Nobleza, Aristocracia e Caballeria, speculari in qualche modo al sottotitolo dell’Elogio della Distinzione. Nella reflexion final l’Illustre raccomanda il rispetto della palabra dada, la bondad y la generosidad e la valentia y la humildada de corazòn perché solo la loro actuaciòn es la mejor aristocracia , cioè quella del poder de la bondad. 
   Alla termine di queste note, una riflessione, anche se non esaustiva, di quanto ci resta, speriamo in seguito non in briciole di memoria, della meritoria opera del “mosaicosmico” Magister. Senza scadere nella facile apologia di maniera, si resta “impressionati” da questo album di fotografie-commentario che, senza tema di supponenza, potremmo definire “De humanitate destructa”, giusto per parafrasare i commentari cesariani, nonchè coinvolti dall’afflato che traspare dalla malcelata angoscia con cui l’Autore esamina l’uomo sedotto e concupito dalla Tecnolatria dalla quale non si può distaccare senza il paventato pericolo di non apparire “politically correct”. Il richiamo risulta un accorato appello a quanti si avviano ciecamente verso l’abisso dell’anima trascinando con sé duemila anni di cammino e di acquisizione di una civiltà della quale restano testimoni ineguagliabili città uniche come Atene, Roma, Alessandria, Gerusalemme, Venezia, Pietroburgo. Un richiamo quindi per impedire a costoro di non finire aggrappati, in un rigurgito di ravvedimento, a quella “Zattera della Medusa” che tanto bene rappresenta la deriva di uomini disperati, il dipinto di Theodore Gèricault. A ben vedere, l’Elogio della Distinzione costituisce una sorta di testamento spirituale del Cavaliere dello Spirito Tommaso Romano, appartenente purtroppo all’esausto filone di un certo nuovo romanticismo, non letterario ma spirituale nel senso che si richiama al Passato vestendo la parola di “Redentore” di una certa cultura. Un testamento spirituale, dicevamo, che si coglie in questo Discepolo della Cultura che quale Pellegrino del Cosmo chiude questo pregevole lavoro, con fare quasi colloquiale, con un congedo, certamente non occasionale. Egli infatti inserisce al confine dei “tomi” trattati, un testo dal significativo titolo “Congedo al cafè de Maistre”. E volutamente, prendendone a prestito il nome, sceglie per siffatto “eremo senza terra”, l’immaginario ricovero in un Caffè, posto di fronte il mare nel Foro Borbonico (oggi Italico), dove in una atmosfera pregnante di “art nouveau”, si ritrova a scrivere, tra un caffè e il centellinare di un Porto, avvolto nell’aria da una coinvolgente musica mozartiana, una lettera, quasi una immaginaria “epistola apostolica” rivolta ad una civiltà al tramonto. In questa, da buon Anacoreta occulto, chiama alla resistenza con quel pudore, riserbo, dignità,  sensi comuni ai pochi frequentatori di quel Caffè, anche se ritiene che tutto è perduto, riprendendo in ciò la frase di Francesco Primo di Francia nell’infausto giorno di Pavia, nel messaggio alla propria madre, “Tutto è perduto fuorchè l’onore”. Ed è nel nome di queste virtù e dell’onore che il Romano, come in un battesimo liturgico, rinuncia al satana della egemonia tecnologica e alla dittatura del pensiero unico nello stesso modo in cui rinuncia agli applausi dei falsi adulatori, esprimendo come unica aspirazione quella di essere lasciato in pace dentro un immaginario Chiostro. E’ nel contesto di queste note che il Filosofo appare nelle vesti più dimesse dell’ordinario umano, svelando una sorta di stanchezza per l’impari lotta contro questo mondo destinato al declino, riponendo però l’ultima speranza nel salvataggio ad opera della divina Provvidenza. Si chiude così questa antologia, questo breviario-manuale di concetti, richiami, esortazioni che, iniziati con la Distinzione, anima della nobiltà del cuore e dello spirito, giungono al termine di questo excursus, alla malinconia nel corpo senza tuttavia coinvolgerne l’anima.

martedì 15 novembre 2016

La Riforma protestante culla del razionalismo e dell’esoterismo moderni

di Corrado Gnerre

Pochi sanno che la Riforma protestante ha dato un contributo notevole alla nascita tanto del razionalismo quanto dell’esoterismo moderni. Vediamo come. Una premessa: le notizie contenute in questo articolo sono principalmente tratte dalle ricerche di un grande studioso di Lutero, il tedesco Theobald Beer.
Partiamo, prima di tutto, dalle definizioni di razionalismo e di esoterismo.
Il razionalismo è una corrente filosofica con la quale si pretende ridurre la realtà alle possibilità conoscitive della ragione umana.
L’esoterismo è una concezione filosofico-religiosa secondo la quale i riti e gli insegnamenti più segreti di una dottrina sarebbero rivelati a pochi privilegiati, cioè ai cosiddetti “iniziati”. L’esoterismo è convinto che l’elemento della contraddizione, presente nella realtà, sia solo in superficie; se si va in fondo alla realtà stessa, queste contraddizioni si dissolverebbero. Insomma, un conto è la realtà così come essa appare; altra sarebbe l’essenza profonda della realtà stessa.
La Riforma e il razionalismo moderno
Il contributo del Protestantesimo allo sviluppo del razionalismo riguarda soprattutto due campi: l’antropologia e il pensiero politico.
Partiamo dall’antropologia. Qui la Riforma propone un vero e proprio antropocentrismo conoscitivo, ovvero una sorta di convinzione secondo cui il soggetto umano può creare la verità.
Questo antropocentrismo conoscitivo si esprime in tre convinzioni tipicamente protestanti: l’abolizione del Primato Petrino (negazione dell’autorità del Papa), l’abolizione del sacerdozio ministeriale e il libero esame delle Scritture (rifiuto del Magistero).
Riguardo, invece, l’altro punto, cioè il pensiero politico, va detto che il Protestantesimo apre la strada al laicismo che si esprime soprattutto attraverso due convinzioni luterane: la salvezza solo attraverso la Fede e il rifiuto della tradizionale dottrina cristologica.
La salvezza solo attraverso la fede apre la strada al laicismo, perché se è solo la fede a salvare e non le opere, allora le realtà del mondo o sono totalmente da rifiutare o da accettare così come sono, senza nessuna pretesa di cambiamento. Insomma, è questa una convinzione che paralizza qualsiasi agire cristiano nel mondo, per cui il mondo stesso o va totalmente rifiutato (da qui il settarismo di alcune comunità protestanti) o accettato senza problemi (da qui il laicismo di altre comunità protestanti).
Ma anche il rifiuto della tradizionale dottrina cristologica apre la strada al laicismo. Secondo il già citato Theobald Beer ci sarebbe un lato oscuro di Lutero che solitamente non viene evidenziato, ovvero il suo rifiuto della tradizionale dottrina cristologica dell’unione ipostatica (duplice natura, umana e divina, in un unico soggetto, divino). Lutero – sempre secondo Beer – afferma che Cristo sarebbe composto ma non costituito di natura umana e di natura divina. Cioè natura umana e divina si sarebbero unite accidentalmente in Cristo. Una tale affermazione significa una negazione dell’unità personale di Cristo, l’ammissione di due persone in Cristo e la sottomissione al diavolo della persona umana di Cristo stesso. L’umanità e le cose umane, pertanto, non sarebbero mai totalmente sanabili. Lutero, infatti, scrive che Cristo opera per la nostra salvezza: “Sine humanitate cooperante”. E in un commento alla lettera ai Galati, del 1531, sempre Lutero scrive: “(…) altro è l’Abramo che crede, altro l’Abramo che opera, altro il Cristo che opera (…) distingui queste cose come il Cielo e la Terra. (…) Che l’umanità di Cristo sia sottomessa al diavolo è testimoniata dal fatto che l’umanità di Cristo finisce con la morte”.

La Riforma e l’esoterismo moderno
Theobald Beer ci dice che su molti punti del suo pensiero Lutero ricorre allo Pseudo-Ermete Trismegisto. Di chi si tratta? Sotto il nome di Hermes Trismegisto comincia a circolare in epoca ellenistica (III secolo a.C.) un insieme di scritti a sfondo occultistico-astrologico che si ritenevano rivelati dal dio Hermes (Mercurio) “tre volte grandissimo”, appunto “trismegisto”.
E’ verosimile che Lutero possa aver avuto un’attrazione per lo Pseudo-Ermete. Non dimentichiamo che siamo nel secolo XVI, cioè il secolo in cui si “ritorna” alla cultura pagana e in cui si riscopre la prisca philosophia; e non è improbabile che anche Lutero ne abbia avvertito l’attrazione.
Ma vediamo adesso dov’è il contributo del Protestantesimo allo sviluppo dell’esoterismo moderno. Si possono a riguardo individuare almeno cinque tracce: di gnosi (la salvezza attraverso la conoscenza), di prometeismo (la possibile autosufficienza dell’uomo), di impersonalità del divino, di elitarismo (la salvezza è per pochi iniziati), di tensione palingenetica (la realtà deve essere radicalmente trasformata).
Iniziamo con le prime tracce: quelle di gnosi. Nel Luteranesimo queste sono evidenti nell’intellettualismo teologico (la verità divina può essere conosciuta solo da chi studia) e nell’intellettualismo etico (la morale s’identifica con la conoscenza). L’intellettualismo teologico è l’esito inevitabile del rifiuto del Magistero. Venendo meno l’adesione all’autorità magisteriale come mezzo di conoscenza della verità, tutto si riduce a conoscenza individuale; ma ciò favorisce chi sa, e così l’intellettuale ha più opportunità rispetto all’analfabeta. E’ una sorta di deriva gnostica. L’intellettualismo etico è invece effetto della salvezza solo attraverso la fede. Una simile convinzione favorisce la conoscenza sulla pratica della virtù. Insomma, la salvezza solo attraverso la fede somiglia molto alla salvezza solo attraverso la conoscenza, facendo a meno della pratica della virtù. Questo rapporto con Dio solo attraverso la fede è espresso da Lutero con una frase desunta da Ermete Trismegisto. All’obiezione cattolica che propone la frase di san Paolo “Fides charitate formata” (“La fede informata dalla carità”), Lutero risponde che “la relazione fra Dio e l’uomo è come una linea toccata da una sfera. La sfera incontra la linea sempre in un sol punto”. Questo punto è la fede.
Veniamo alle seconde tracce: quelle di prometeismo. Queste, nel Luteranesimo, sono evidenti soprattutto nel rifiuto dell’autorità religiosa, che è poi ravvisabile nel rifiuto del Magistero, che consequenzialmente segna il rifiuto del concetto di autorità in campo conoscitivo.
Terze tracce: di impersonalità del divino. Queste sono ravvisabili soprattutto nella convinzione luterana secondo cui il peccato non compromette la salvezza. Tale convinzione richiama la teoria nominalistica del bene e del male e quindi la possibilità che in Dio possa esserci anche il male. Questa tendenziale (perciò parliamo di “tracce”) concezione impersonale del divino che aveva Lutero è confermata dalla ripresa di alcune espressioni sempre di Ermete Trismegisto. Nella II tesi luterana, per esempio, si legge: “Dio è una sfera infinita il cui centro è ovunque…”. Così come è evidente in una tendenziale negazione del concetto di “persona” (negazione che costituisce una contraddizione rispetto all’antropocentrismo conoscitivo tipico della Riforma). Lutero, riprendendo lo Pseudo-Ermete, scrive: “Non è in noi l’immagine della sostanza di Dio, ma solo in Dio stesso, poiché solo Dio conosce la propria forma”. Ciò di fatto è la negazione dell’anima individuale.
Quarte tracce: di elitarismo. Queste sono evidenti soprattutto nella tensione settaria, che a sua volta è esito della salvezza solo attraverso la fede, che, a sua volta ancora, fa ritenere il mondo come qualcosa da cui separarsi. Qui va richiamato quello che abbiamo già detto a proposito del laicismo. Se è solo la fede a salvare e non le opere, allora il mondo o è totalmente da rifiutare o è da accettare così com’è, senza nessuna pretesa di cambiamento. Si sviluppa, pertanto, uno spirito settario, cioè di segregazione dal mondo.
Quinte e ultime tracce: di tensione palingenetica. Anche queste sono evidenti nella convinzione luterana della salvezza solo attraverso la fede, che fa ritenere il mondo come qualcosa che deve essere totalmente rivoluzionato. L’esoterismo, in quanto monismo gnostico (il mondo è un’espressione del divino), non può non sfociare in una sorta di spirito palingenetico per far sì che ritorni ad essere una sola cosa con l’origine divina. Anche il Protestantesimo ha in sé una palese tendenza apocalittica, ciò perché, rifiutando il rapporto ragione-fede, è costretto o ad accettare la realtà così com’è o a rifiutarla totalmente; insomma la realtà non è soggetta ad un criterio di giudizio della fede. Dunque, la contraddizione del reale si risolverà con la sua trasformazione che dovrà necessariamente avvenire nei tempi ultimi.

da: www.riscossacristiana.it

lunedì 14 novembre 2016

“The Young Pope”: impressioni a caldo su Pio XIII

di Luca Fumagalli

Al termine della visione dei primi due episodi della nuova mini-serie “The Young Pope”, targata Paolo Sorrentino e in onda ogni venerdì su Sky Atlantic, lo spettatore è colto dalla strana sensazione di essere reduce da un viaggio al centro del cuore umano, dove le contraddizioni convivono nella più serena accettazione.
Chi si aspettava di assistere a qualcosa di paragonabile ad Habemus Papam di Moretti è rimasto deluso. Sorrentino è distante dalla fastidiosa orizzontalità morettiana, quella tendenza perniciosa per cui tutto è riportato sempre e comunque al mero livello umano. Il suo “realismo magico” di marca felliniana, in cui ogni cosa è segno di un mistero che la trascende, ben si adatta a trattare un tema, come quello del Papa e della Chiesa, che per sua natura non può essere volgarmente ridotto al solo aspetto materiale. Il risultato è convincente anche quando il regista napoletano è costretto dalla serialità a non allontanarsi troppo dagli stilemi del genere.
C’è qualcosa di affascinante e di inquietante nel carisma di Lenny Belardo (Jude Law), giovane cardinale americano eletto Sommo Pontefice con il nome di Pio XIII. Uomo del mistero, che non ama essere fotografato, abbandonato dai genitori quando era ancora un bambino, è una creatura che fa della sua debolezza, del non avere un passato, la sua arma più potente. Il suo unico peccato, stando a quello che dichiara al confessore, è che la sua coscienza non lo accusa di niente. Freddo, cinico e disincantato, ogni gesto è sapientemente ponderato, meditato affinché ottenga il massimo effetto con il minimo sforzo.
Le sue scelte imprevedibili – che culminano con il terribile discorso in Piazza San Pietro, pieno di odio per l’umanità e di sbraitanti inviti a occuparsi solo di Dio («Senza Dio si diventa morti») – sembrano orientate a dare nuovo lustro alla Chiesa, ristabilendo un potere del tutto simile a quello rivendicato da Gregorio VII o Bonifacio VIII. In tal senso la decisione di ripristinare l’uso della Tiara è emblematico, così come la battuta per cui «Roma è una frazione della Città del Vaticano» suona più come un programma politico. Per raggiungere l’obiettivo ogni cosa è lecita, compreso violare il segreto confessionale, allontanare da incarichi di prestigio un cardinale solo perché omosessuale o nominare segretario particolare una donna, suor Mary (Diane Keaton), che ha allevato il piccolo Lenny come una madre.
Eppure, in tutto questo, c’è un fondo di autentica umanità che è ineludibile. Esempio ne sono la lettera del bambino americano che il Pontefice piega con cura e porta con sé – utilizzandola anche come “falsariga” per il suo discorso d’esordio – o lo strano potere con cui sembra in grado di addomesticare anche gli animali più selvaggi (come il canguro che adesso corre libero per i giardini vaticani).
A rendere ancora più pepata la trama, intorno a Pio XIII non mancano intrighi e antagonisti. Oltre al cardinal Spencer, che si è visto soffiare il soglio petrino dal suo protetto, nell’ombra si muove anche Voiello (un brillante Silvio Orlando), il potentissimo e chiacchierato segretario di stato, volgarmente attaccato al potere, eppure capace di misericordiosa tenerezza verso i più deboli.
A caldo, quando mancano ancora otto puntate al termine della serie, è impossibile, naturalmente, dare un giudizio definitivo. Come si è detto, e come ricorda lo stesso Pontefice all’inizio del primo episodio, The Young Pope, al pari di ogni uomo, è un grumo di spunti contraddittori, in cui convivono intuizioni interessanti e caricature un po’ troppo spigolose. Difficile intuire poi a cosa miri veramente Pio XIII, se tutto quello che fa, compreso ciò che sembra sulle prime ruvido o viscido, non sia invece finalizzato a un bene superiore (lo stesso Belardo, del resto, ha un passato immacolato, senza vizi o lati oscuri).
Sorrentino, almeno per il momento, riesce a smarcarsi dall’opposizione tradizionalismo-progressismo, ponendo lo scontro di idee su un piano superiore, quando si parla delle tormentate coscienze dei protagonisti, e inferiore, quando la politica vaticana si riduce a prebende e scelte di merchandising. Se Pio XIII, nel suo virulento appello a Dio pare allontanarsi da un certo umanitarismo ecclesiastico attuale, allo stesso tempo, però, la sua impassibile lucidità lo rende detestabile, quasi disturbante.
Tra tutti i papi immaginati dalla letteratura, dal cinema o dal teatro, Belardo assomiglia molto, soprattutto per questi ultimi aspetti, a Lando II, protagonista dell’oscuro The Translation of Father Torturo di Brendan Connel, un uomo senza difetti, attraente e fisicamente prestante, ma disposto a tutto per diventare Sommo Pontefice (l’accanito tabagismo, invece, accomuna Pio XIII all’Adriano VII di Frederick Rolfe “Baron Corvo”).
Dopo i primi due episodi, The Young Pope conserva il fascino di un intreccio ancora tutto da sciogliere e, non c’è da dubitarne, le sorprese non si faranno attendere.

da: www.radiospada.org

sabato 12 novembre 2016

Pubblichiamo una poesia di Vittorio Riera

HOMMAGE À HAMMAMET

Hammamet qui pleure et rit
qui danse qui chante
sous la lune étonnante
sur les dunes qui plongent
au vent frais des jasmins.

Couleurs d’Hammamet
parfums du soir
parmi le noir des hirondelles
et les chameaux au loin
courant lents lents
sur les sables dorés.

Musiques d’Hammamet
musique de la mer
mêlée au soleil
couchant dans l’azur
chaud des palmiers. Musiques
rares de rares instruments
dans l’air tiède de la nuit.

Visages d’Hammamet villages
couleurs parfums chansons.

Écoutons Hammamet écoutons...


Trad.: Hammamet che piange e ride / che danza e canta / sotto la luna stupita / sulle dune che si tuffano / nel vento fresco dei gelsomini // Colori d’ Hammamet / profumi della sera / fra il nero delle rondini / e i cammelli che lontano / corrono lenti lenti / sulle sabbie dorate. // Musiche d’Hammamet / musica del mare / che s’innalza al sole / morente nell’azzurro / caldo dei palmeti. Musiche / rare di rari strumenti / nell’aria tiepida della notte. // Volti d’Hammamet villaggi / colori profumi canzoni. // Ascoltiamo Hammamet ascoltiamo.


venerdì 4 novembre 2016

13 regole per educarsi all’«intelligenza»

di Emanuele Samek Lodovici

Dal volume curato da Gabriele De Anna, L’Origine e la Meta. Studi in memoria di Emanuele Samek Lodovici (Edizioni Ares, pp. 280, euro 16), pubblichiamo l’inedito dello stesso Samek Lodovici sulle regole per «educarsi all’intelligenza». Si tratta della trascrizione della registrazione dell’ultima conferenza pubblica di Emanuele Samek Lodovici, tenuta tre settimane prima dell’incidente stradale del 17 aprile 1981 in cui rimase coinvolto e che richiese un intervento chirurgico, svoltosi il 5 maggio 1981, durante il quale Samek morì. La trascrizione è integrata con aggiunte tratte dalla registrazione di un’altra conferenza, tenuta in precedenza da Samek, sullo stesso tema.
L’educazione all’Intelligenza è da lui intesa come educazione alla vita riuscita, piena e feconda. Una conferenza che, dunque, è quasi un testamento spirituale e che tocca talvolta, sia pur brevemente, anche il tema dell’altra dimensione (che Samek coltivò profondamente) della vita riuscita: quella religiosa. Le espressioni colloquiali e del parlato di questa sua conversazione (divulgativa e non accademica: lo si noti), sono state lasciate: anch’esse aiuteranno il lettore a comprendere lo stile brillante e insieme lo spessore sapienziale di questo grande uomo, prima ancora che grande pensatore.
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Mi sono detto: perché non indicare delle regole in grado di propiziare l’intelligenza? Tali regole, che possono essere ristrette o allargate a piacere, valgono sia per l’uomo sia per la donna, ma, a mio avviso, servono di più alle donne nella misura in cui esse sono purtroppo fruitrici di un’immagine che non le aiuta a interpretarsi come esseri intelligenti, come invece esse sono assolutamente: lo sono quanto gli uomini se non qualche volta di più.
C’è però un paradosso iniziale di cui voglio parlarvi: per apprezzare il valore delle regole dell’intelligenza (o regulae ad directionem intelligen-tiae, come direbbe Cartesio) bisogna essere intelligenti. Solo chi è intelligente dovrebbe essere in grado di capire perché l’intelligenza è importante e perché sarebbe molto importante educarsi a essere intelligenti.
Quali sono queste regole? Ecco le prime tredici.
1 La prima regola che ci possa permettere di cominciare a educarci all’intelligenza è sapere che l’intelligenza è un dovere, non è dunque facoltativa: dobbiamo essere intelligenti, ricordati che devi essere intelligente, che devi esercitare l’arte del sospetto, ricordati che non devi farti ingannare. Meglio un infelice intelligente che un uomo felice ma idiota, ingannato. Dunque un primo criterio è che l’educazione all’intelligenza è un nostro compito, un qualcosa che dobbiamo fare e che non possiamo demandare ad altri.
2 La seconda regola di questo educarci all’intelligenza è che ci educhiamo all’intelligenza quando capiamo che non è indifferente il linguaggio che usiamo: non è lo stesso usare il turpiloquio piuttosto che il non turpiloquio. Il turpiloquio non va rifiutato per delle ragioni che io ritengo moralistiche (le brutte parole), ma perché rappresenta il mondo attraverso pochi segni: gli organi sessuali sono pochi. Le possibilità semantiche degli stessi saranno venti o trenta, massimo venticinque. Ora, una persona, un giovane che ha a disposizione solo venticinque possibilità semantiche, vale a dire venticinque possibilità di conoscere il mondo, non potrà cogliere una cosa meravigliosa come il movimento di un gatto che salta da un mobile su una poltrona e graffia la poltrona, o semplicemente lo svariare di un colore durante un’aurora o un tramonto, o ancora l’enorme differenziazione psicologica della persona che abbiamo innanzi.
Se fossimo come degli entomologi e riuscissimo a studiare l’uomo come gli insetti e a farci battezzare dalla stupidità linguistica, ascoltando per esempio il colloquio dei ragazzi sui mezzi pubblici al rientro da scuola, ci renderemmo conto che il dramma non sta nella brutta parola, ma nel fatto che queste persone non parlano e chi non ha le parole non ha le cose, non ha mondo: se vogliamo strappare a una persona il mondo, basta strapparle le parole con cui capisce quel mondo. Le parole saranno sempre più impoverite di significato e crederà che il mondo corrisponda alla povertà di significato delle sue parole.
La perdita della nostra capacità di significare attraverso il nostro linguaggio nel mondo è una perdita del mondo. E un’educazione al’intelligenza comporta decisamente l’esclusione del turpiloquio inutile, il turpiloquio va usato quando è differenziato e personalizzato. Che sia detta effimeramente l’ingiuria quando c’è l’arte dell’ingiuria, ma che sia detta in quel momento e mai più. Una lancia a favore del turpiloquio può essere spezzata quando viene usato in media ogni venti giorni per avere la possibilità di lanciare un’ingiuria che è diversa da un’altra di venti giorni prima. Ritengo che in questo caso il turpiloquio possa essere usato, ma non deve essere usato come strumento per parlare, se vogliamo (come dobbiamo) avere dello stile.
Perché dobbiamo educare i nostri figli a non usare il turpiloquio? Perché se li educhiamo piuttosto a un linguaggio significativo moltiplichiamo il mondo: se non abbiamo linguaggio non abbiamo mondo. Questo è un fatto estremamente importante e non è un caso che in una strategia totalitaria si tenda a privare l’uomo del linguaggio e a fare in modo che l’uomo tenda a interpretare le parole al loro livello più basso. Per esempio, quando l’uomo parla di fortezza, si vuole far sì che egli la intenda solo come forza fisica e non come la capacità di resistere al dolore e alla sofferenza, e quando egli parla di sapienza si vuole far sì che essa venga intesa solo come erudizione e non come sapore dell’esistenza.
3 La terza regola fondamentale, legata intrinsecamente a quanto ho detto precedentemente (sapere che l’intelligenza è un dovere, sapere che il turpiloquio deve essere espunto perché non è significativo) è che ci si può educare all’intelligenza se sappiamo che dobbiamo avere uno stile. Questo punto dell’educazione all’intelligenza si capisce da sé quando viene detto delle donne. Esse infatti sono naturalmente portate ad avere uno stile. Drammaticamente, come dicevano i classici, «corruptio optimi pessima», anche perché attraverso la donna, come attraverso un collo di bottiglia, passano le generazioni future. Educazione allo stile vuol dire allora educazione del carattere: conoscersi per governarsi.
Non guardare ai frutti dell’azione, ma educarsi alla modalità dell’azione stessa e, poi, se ci saranno risultati, tanto meglio. Il risultato, che pur è importante, è irrilevante rispetto all’altra cosa più importante: il modo in cui arriviamo al risultato. Lo status che conseguiamo vivendo (ingegnere, avvocato ecc.) sarà comunque azzerato con la nostra uscita da questo mondo. Allora quello che rimane di noi è il modo in cui abbiamo vissuto. Che cosa vuol dire allora avere uno stile? La grande educazione cristiana esprimeva questo concetto con un’immagine molto bella: l’esistenza è un teatro dove è indifferente la parte che abbiamo (la parte del cameriere oppure la parte del principe), perché quello che è essenziale è come recitiamo la parte. Bisogna sapere, cosa fondamentale, che nella nostra vita non conta ciò che facciamo, ma come lo facciamo, conta se lo facciamo bene, se lo facciamo come Dio vuole che lo facciamo.
Plotino, autore a me molto caro, scrive in uno dei suoi meravigliosi trattati sulla Provvidenza che quello che conta non è il ruolo che stiamo recitando (docente, ingegnere, uomo, donna, bambino ecc.), ma come recitiamo quel ruolo. È assolutamente importante sapere che non valiamo in base a quello che raggiungiamo, ai risultati che otteniamo, ma in base a come otteniamo quei risultati. Questa è una cosa che ci rende molto meno nevrotici di fronte alla competitività perché quello che conta è come siamo. Allora ecco l’essenza profonda di questa regola dell’intelligenza: educarsi ad avere uno stile, una forma, un carattere, sapendo in fondo che questa vita è un gioco: in essa non conta tanto il risultato del gioco, ma come l’uomo gioca. Dal nostro punto di vista, dobbiamo passare dal giocar male al giocar bene, uscire da questa vita come giocatori migliori di quando vi siamo arrivati, imparare a giocare meglio.
Il controllo della fantasia & della volontà
4 La quarta regola utile per l’intelligenza è educarsi al controllo della fantasia. Per quanto possa apparire sorprendente, educazione alla fantasia, quale forma di educazione all’intelligenza, non vuol dire che non bisogna avere fantasia, perché, anzi, la fantasia incentiva la risoluzione di problemi di ogni natura. Educazione della fantasia significa il controllo della parte negativa della fantasia, cioè il fantasticare, l’uscire dal proprio ruolo e dalla propria vita, pensare che se fossimo in un altro posto sarebbe meglio che nel posto in cui siamo, che sarebbe meglio se fossimo in altra famiglia, scuola, ambiente di lavoro, eccetera. È importante sapere che è proprio nell’ambiente in cui sono che si gioca il mio destino, lì mi sto giocando la mia esistenza, lì devo acquisire un carattere.
Le riviste femminili spingono la donna a fantasticare in questo senso: a uscire da sé, a ritenere di non avere una natura e ritenere di poter essere tutto. È quello che ha espresso magnificamente Flaubert nel romanzo Madame Bovary. Madame Bovary è una disgraziata perché non sente la responsabilità dell’esistenza, responsabilità nel senso etimologico del termine: l’essere sposata alla realtà, non sente cioè la propria esistenza come un destino, non sente il fatto di avere un marito come qualcosa che le è destinato, bensì vuole evadere da questa realtà. La nostra infelicità non dipende dal fatto che il mondo non continua a darci cose meravigliose, ma dal fatto che in noi viene a mancare la capacità di apprezzarle.
Questa cosa un autore spirituale la chiama la «mistica del magari», che è una delle cose peggiori sul piano spirituale perché, nel momento in cui siamo tentati di pensare un’altra situazione per noi («ah, se fossi missionario in Africa, ah se fossi principe, se fossi uomo e non fossi donna, ecc.»), evitiamo di rispondere alle domande che ogni giorno la nostra vita ci pone. Tutti i giorni ci viene posto un compito, forse noi non accogliamo questa domanda, la domanda posta da un amico silenziosamente, quando senza dirci nulla ci chiede di aiutarlo. Con la «mistica del magari» noi non rispondiamo all’unica domanda importante che in quel giorno ci è stata rivolta. Non dobbiamo credere infatti che le domande ci vengano poste soltanto esplicitamente. La maggioranza delle cose che importano e che ci vengono chieste, non ci viene chiesta direttamente.
Allora, per crearsi uno stile, è assolutamente importante, a mio avviso, escludere il fantasticare, accettare la nostra esistenza come un destino, accettare le opere da compiere, le persone che amiamo, quelle che ci stanno intorno, perché a loro dobbiamo rendere la nostra esistenza. Il controllo della fantasia ci dà il senso della realtà che viviamo tutti i giorni, perché è andando contro l’ostacolo che divento grande, perché faccio lo sforzo di superarlo. E anche se non dovessi riuscire a superarlo, è assoluta-mente importante che io mi sia sforzato: per esempio, nello studio, se mi sono sforzato di capire, ho vinto lo stesso anche se non ho capito. Lo sforzo di capire, infatti, mi fa diventare enormemente intelligente: voglio assolutamente capire, voglio sapere e non voglio farmi ingannare.
5 Si capisce allora quella che io chiamo quinta regola: l’educazione alla volontà di verità, voler sapere come stanno le cose, non accontentarsi di qualche pagina di giornale, o dei rimasugli eruttati dall’ultimo mediocre, fare il possibile per capire, assolutamente non essere superficiali, capire la solo apparente superiorità della stupidità nei confronti dell’intelligenza. Come dice Aristotele, ciò che caratterizza la filosofia e l’uomo in quanto filosofo – e ogni uomo è filosofo – è la volontà di verità, voler sapere come stanno le cose.
Mi permetto allora di indicare le cinque regole che, secondo me, permettono di individuare «lo stupido». In primo luogo «lo stupido» ci infligge un danno senza esserne consapevole. La seconda regola è che lo stupido è più pericoloso del malvagio perché questi ogni tanto si riposa, mentre lo stupido è sempre in esercizio. La terza regola è che lo stupido non sa mai di essere stupido. La quarta regola è che l’essere stupido è indipendente dalla posizione che uno occupa e dalle sue proprietà: stupido può essere chiunque, dunque non supponiamo che certe caratteristiche esterne ci permettano di dire: «Quell’uomo senz’altro non è uno stupido». La quinta regola è che l’intelligente, grazie alla propria intelligenza, capisce perché lo stupido «fa carriera». Tra le cinque regole, le prime due sono quelle fondamentali.
La capacità di rettificare & di stare soli
6 Tornando alle regole dell’educazione all’intelligenza, la sesta regola comporta che si sappia che una delle sue regole fondamentali è la capacità di rettificarci: noi non siamo non intelligenti quando sbagliamo, ma siamo intelligenti quando rettifichiamo. Si educa un figlio all’intelligenza se lo si educa a rettificare, se gli si insegna che non è intelligente chi non sbaglia mai, ma chi sa rettificare. È meraviglioso se, per esempio come genitori, sappiamo dire ai nostri figli: «Guarda, io ho sbagliato, avevi ragione tu». In questo modo noi li educhiamo alla rettifica.
7 La settima regola dell’intelligenza è la regola della solitudine, non nel senso di fare l’individualista, ma capire che una delle cose fondamentali nella scoperta delle cose che mi interessano è avere dei momenti di solitudine, dei momenti in cui sono solo con me stesso. L’amicizia è fondamentale, riempie il cuore delle cose più belle, è bello stare in compagnia, ma le decisioni per l’esistenza le facciamo da soli. È importante anche stare soli perché è nella solitudine che si fanno le vere scoperte, quelle che facciamo soltanto noi e che nessuno ci riesce a far fare: qualcuno ci può indicare la direzione ma, per esempio, capire davvero che cosa vuol dire la grandezza d’animo, la non invidia, possiamo comprenderlo solo noi, quando abbiamo cominciato a praticarla e l’abbiamo sentita dentro di noi. Pascal dice che il problema dell’uomo è questo: che non riesce a stare da solo in una stanza. Dobbiamo far capire ai nostri figli che è essenziale anche stare da soli in una stanza, perché in questa si fanno più scoperte che insieme a tutti gli amici.
Autoironia, non far soffrire, supporre che intelligenti siano gli altri
8 Altra regola dell’intelligenza, l’ottava, è l’educazione all’autoironia: non prendersi troppo sul serio, sapere che stiamo giocando, che questa vita è un gioco. «Non essere così seri come un tedesco morto il giorno prima», come diceva Heine. È assolutamente importante avere una distanza da sé stessi, cominciare a non prendersi sul serio. Mi sono sempre piaciuti quei medici che non credono troppo nella medicina. O quei filosofi che sanno che, come diceva Pascal, l’unico modo per fare filosofia è prendersi gioco della filosofia; o quei professori di latino e di storia che si rendono conto che, oltre al latino e alla storia, infinite altre cose sono presenti nell’universo.
9 La nona regola, molto sottile, ma importante, è quella che ci dice di stare molto attenti alle sofferenze che possiamo infliggere agli altri senza saperlo. Un grande moralista del Seicento, La Rochefoucauld, diceva questa frase a me molto cara: «Non c’è uomo tanto intelligente da conoscere tutto il male che fa». Proviamo a rovesciare in positivo questa affermazione: solo l’uomo veramente intelligente dispiega tutti suoi sforzi per poter conoscere e prevedere tutto il male che fa. Provate per un attimo a pensare se quella tal parola a un amico o a un’amica, alla madre, al figlio, all’insegnante, ha una conseguenza che noi non sospettiamo in quel momento, ma che potrebbe avere.
Questo atteggiamento ci mette in confronto con gli altri attraverso la virtù più fantastica che è la carità: il fuoco della carità, il guardare gli altri tenendo conto delle conseguenze di ciò che si dice. Provate per un attimo a rispettare la personalità dei figli, a volere che siano come sono, a volere la loro personalità: nessuno è mai tanto intelligente da conoscere tutto il male che fa senza saperlo! Una regola davvero raffinata, che ci rende e può renderci estremamente delicati nel rapporto con gli altri. Certamente, se siamo dissipati sul piano della nostra attenzione, allora passiamo questa vita pensando che gli altri siano soltanto dei gradini per la nostra personale conquista. Attenzione dunque alle sofferenze che potremmo infliggere agli altri senza saperlo!
10 Un’altra regola importante, la decima, è quella regola che ci permette di capire che l’intelligenza da sola non basta. Un autore molto raffinato, scrittore di romanzi gialli, che in realtà non sono solo dei romanzi gialli bensì tendono sempre alla ricerca della verità, cioè Chesterton, in Ortodossia, formula questa regola per individuare l’intelligente stupido: «Il pazzo non è colui che ha perso la ragione, ma è colui che ha perso tutto, eccetto la ragione», cioè che ha perso tutta la necessaria dotazione di qualità umane, di virtù. Pensiamo allora a un soggetto che vuole essere soltanto intelligente e ha perso il senso dell’umanità, ha perso la cortesia, l’allegria, la capacità di stare con gli altri, che non è leale né semplice, che insomma ha perso tutto, tranne la ragione: costui è «l’intelligente stupido», colui cioè che non capisce che l’intelligenza da sola non basta.
11 La regola successiva, l’undicesima, è quella che ci permette di supporre che a essere intelligenti siano gli altri e non noi. Non è detto che di fronte a un problema io abbia la soluzione. Solo gli uomini intelligenti sanno trovare l’intelligenza negli altri e cominciamo a essere intelligenti quando ammiriamo l’intelligenza degli altri, e diventiamo veramente intelligenti quando non la invidiamo. È tipico delle persone meschine non godere del fatto che gli altri abbiano delle doti. Una regola del carattere, che era tipica del mondo medievale, era di coltivare questa magnanimità. Proviamo a pensare a coloro che costruivano le cattedrali, che le costruivano sapendo che la conclusione dell’opera sarebbe avvenuta dopo di loro e che il prestigio per averla costruita sarebbe andato ad altri, eppure avevano questa magnanimità: fare le cose senza vedere i frutti.
Spirito di meraviglia & contemplazione della morte
12 Una dodicesima regola richiede di educare sé stessi allo spirito di meraviglia, a non dare per scontato il mondo che abbiamo, ad apprezzare il mondo che abbiamo e tutto ciò che ogni giorno esso ci porta: dalle opere da compiere agli amici che abbiamo, al dolore, alla felicità, all’affetto. È l’educazione a tornare bambini, allo spirito di meraviglia che è tipico dei bambini, quello di chi entra nella stanza la mattina di Natale e vede nell’angelo di cartone un angelo vero. Non vuol dire che settantenni o ottantenni dobbiamo (per esempio) innamorarci della balia, non vuol dire questo; bensì significa tornare ad avere quello spirito di semplicità che è tipico dei bambini. Vuol dire meravigliarsi per il fatto che ci siamo ancora, perché domani un ictus cerebrale ci potrebbe portare via… Significa ringraziare per il fatto che ci siamo ed educare al ringraziamento.
Ciò comporta l’educazione ad avere un rapporto con la realtà che non sia artificiale. Bisogna cioè togliere di mezzo tutte le mediazioni artificiali di fronte alla realtà, abituarsi a vedere colori che non siano dipinti o riprodotti su pagina, e saper vedere (per esempio) il colore di un autunno e di un’estate, di un oggetto, di una foglia. Educare a sentire il suono del vento, di una campana, di un ruscello ecc. Vuol dire educazione della vista a vedere immagini che non siano filmate o fotografate: è tipico della atrofizzazione della nostra intelligenza il fatto che andiamo in vacanza a vedere immagini di cui abbiamo visto la diapositiva o la fotografia nell’agenzia di viaggio. Vuol dire che non siamo capaci di vedere immagini che non siano già state viste e quindi che siamo tendenzialmente portati alla regressione della vista, dell’udito, eccetera. Questo spirito di meraviglia da coltivare è quello tipico del bambino, che sa stupirsi uscendo di casa, guardando una sfumatura di un colore. Se noi proviamo per un attimo a pensare che questo teatro del mondo che noi stiamo recitando potrebbe, per quanto ci riguarda, essere sbaraccato da un momento all’altro, allora la meraviglia la proveremmo, ringrazieremmo certamente di più.
13 L’ultima regola dell’intelligenza, la tredicesima, dice che diventiamo intelligenti se ci esercitiamo a contemplare la morte, una delle cose che, più di tutte, può insegnarci a capire la vita che abbiamo e che stiamo vivendo.
Se al centro della nostra intelligenza ci fosse questa regola, cioè che esiste la fine, improvvisamente comprenderemmo quali sono le cose che contano e quali invece quelle che non contano, che sono risibili e stupide, che durano lo spazio di un mattino. La regola fondamentale è: abituati a pensare che c’è la fine e che questa non riguarda gli altri ma anche te, che anche tu hai questo destino ed è estremamente importante esserne consapevoli. La morte va vista con serenità, ma va saputo che essa c’è, che io ho un mutamento cellulare, che la mia esistenza va verso qualche cosa, che la mia intelligenza si disperde.