lunedì 21 novembre 2016

Tommaso Romano, "Elogio della Distinzione" (Ed. Thule)

LA DISTINZIONE COME NOBILTÀ NEI CAVALIERI DELLO SPIRITO
di Giuseppe Bagnasco


  Dopo l’Elogio dell’ozio di Bertrand Russel e il più vetusto Elogio della pazzia di Erasmo da Rotterdam, tra i più rinomati e che si “distinguono” dai tanti, per gli argomenti similari trattati nel campo della disquisizione antroposociologica, ecco l’arrivo sul tavolo delle nostre “distrazioni”, quasi a completamento di una sorta di Trilogia, L’Elogio della Distinzione (Fondazione Thule Cultura – Palermo 2016) del filosofo Tommaso Romano. Non è un trattato ma un “manifesto”, una riflessione non confessionale, sullo stato e condizione contingente e spirituale a cui è pervenuta la società contemporanea del mondo che per semplificazione chiamiamo “occidentale”. Un manifesto, dicevamo, che si può leggere alla stregua di un manuale di regole educative, senza per questo assumere i connotati di una filippica sebbene a tratti appaia come significativa e volitiva “omelia”. Né poteva essere diversamente per l’argomento affrontato e che spazia per tutto l’arco della devianza nei comportamenti “tradizionali” dell’uomo odierno.

   Per potere scrutare a primo acchito il poderoso testo e carpirne le parti più salienti, visto che è composto da ben tre “corpi” relativi ad un saggio dell’Autore, un saggio dell’illustre Amadeo-Martin Rey y Cabieses e un ricco e unico Florilegio di Autori, ci viene in soccorso il sottotitolo: Aristocrazia, Cavalleria, Nobiltà, Stile in tempo di barbarie. Non c’è alcun dubbio nell’affermare che si tratti di una esplorazione storica e sociologica su ciò che questi “titoli” hanno rappresentato e che l’Autore  sottolinea con l’intercalare il testo di disegni riferiti a momenti d’azione della Cavalleria  d’un tempo con schiere cristiane affrontanti le saracene e la raffigurazione nell’antifrontespizio della sagoma idealizzata del Krak (fortezza crociata in Siria) dei Cavalieri Ospitalieri di Gerusalemme divenuti poi di Rodi, infine di Malta e oggi rappresentati dallo SMOM.
   Tommaso Romano, non nuovo nell’esposizione di “tesi teologali” sullo spirito, da buon cristiano di fede qual è, mette al servizio del dettato di Dio, la vestitura armata del distinto “Cavaliere dello Spirito”. E lo fa discettando sui temi sopraindicati, a cominciare dal concetto di Aristocrazia, distinguendo quella di spada da quella dello spirito.  L’aristocratico, nel composto della semantica greca di aristòs (eccellenza) e cratòs (potere di governo), delinea una persona che si governa da sé e per espansione, colui che si isola dalla folla. E per folla, come afferma l’Autore, s’intende quanti sono accomunati nella volgarità, rozzezza, dozzinalità e violenza del comportamento nelle parole come negli atti, fino ai modi. Tuttavia, sempre nel proseguo della ratio in Romano, l’isolarsi dalla realtà, l’eccessivo autocontrollo, compresa la mancanza di ironia, non consentono l’educazione alla nobiltà che, di contro, si consegue nella capacità del saper scegliere il confacente rapporto con il prossimo. L’aristocratico è pertanto la persona distinta, custode di quei valori che dovrebbero armare  i suddetti Cavalieri per conquistare “nelle steppe del nulla, la Gerusalemme Celeste. Il tutto”. Oggi che il “progressismo”, l’innaturale livellamento sessuale, l’omologazione alla massificazione, portano ai conseguenti disvalori, fra tutto questo declinare un posto privilegiato è riservato ad una virtù d’eccellenza: l’Onore.
   Ora, a prescindere dalle valutazioni sottolineate dallo storico Franco Cardini che lo conforma a dignità personale, reputazione e onorabilità  comportanti il diritto della persona al rispetto e alla stima, bisognerebbe qui aprire uno spaccato su questa virtù che, a parere non solo nostro, incardina tutte le qualità del “buon uomo”, del buon cristiano ma che non si riflette nel diverso homo bonus del poeta Marziale. Incominciamo, purtroppo, col dire che le culture della menzogna, dell’ipocrisia, hanno inferto una profonda e dolorosa ferita nel comportamento deontologico degli uomini e in particolare nel malinteso senso dell’onore soprattutto se riferito alla latina sacralità della parola data, pacta servanda sunt, come comprova, per mantenerla, il  sacrificio del console Marco Attilio Regolo. Pensiamo ad esempio a quanti giustificano un loro scomposto agire con un’alzata di spalle o con quel “Je m’en fous”, di recente pronunciato dal Presidente della Commissione Europea Juncker e che fa comprendere quale ingloriosa fine abbia fatto quel certo bon ton!. Ma la trasgressione del senso dell’onore ha antica data giacchè la ritroviamo, spulciando la mitologia greca o passi della Bibbia, nei racconti del “padre” Zeus che ricorreva al travestimento e finanche alla sostituzione di persona per sedurre con l’inganno le belle mortali o come nella vergognosa e subdola condotta di Re David quando mandò in guerra, in prima linea e quindi alla morte Uria, lo sposo della bella Betsabea che aveva sedotto e che comunque poi da vedova sposò. E ancora, non possiamo elencarli tutti, nel tradimento fatto da un certo Horatio Nelson nei confronti dell’Ammiraglio Caracciolo (la resa in cambio della vita) e che invece fece impiccare sulla murata della sua Victory contravvenendo come un volgare pirata alla parola data. Infine, ricorrendo alla Storia, ancora sull’onore tradito, quando Enrico IV di Francia pur di mantenere salda la sua corona abiurò alla sua fede protestante e abbracciò quella cattolica con un probabile e analogo “Je m’en fous” nel famoso “Parigi val bene una messa!”. Ma i dettati del codice d’onore hanno sempre governato, lungo il corso dei tempi, gli uomini giusti e probi e ciò sin dai codici cavallereschi del Medioevo giungendo per alcuni tratti, perfino a quelli non scritti dell’onorata società, uniformemente intesa in tutto il nostro Meridione e giunta, con l’emigrazione “imposta” dopo la sua piemontesizzazione, fino alla “frontiera” dell’Ovest americano. Erano codici che tutelavano l’onestà della donna, intoccabilità dei bambini, la parola data, con in aggiunta il divieto di sparare alle spalle o ad un uomo disarmato. Norme non scritte nella vita che, fino all’abolizione formale del feudalesimo, si conduceva nei feudi e che era regolata da un castaldo, un soprastante, un fattore che amministravano la giustizia “parallela” essendo i feudi luoghi spesso “inaccessibili” anche alle compagnie rurali dei governi del tempo. Nacque lì la vecchia “onorata società” da non confondere con la successiva malavita organizzata o coi “picciotti” di La Masa che furono, ma ancor prima in letteratura nei manzoniani “bravi” di Don Rodrigo o nei severi “tribunali” della setta panormita dei Beati Paoli di natoliana memoria, il loro capostipite. Era quest’ultima una “Confraternita” segreta, come afferma il Villabianca, di uomini valenti che perseguivano i valori della difesa dei deboli e della giustizia pur rimanendo nelle loro feroci sentenze ferventi religiosi e credenti in Dio e al Santo di Paola, a cui si richiamavano. A uomini di tal fatta, a questi “uomini d’onore”, si deve l’appellativo di “cristiano”. Ma torniamo all’Elogio della Distinzione e al tema della Ecosofia affrontato dal filosofo Romano nel riconsiderare il senso della abitazione in cui si vive.
   Al pari di Francesco Alberoni che nel novero della scienza della comunicazione include quella che avviene attraverso il vestire certi abiti dando a questi la facoltà di dare un messaggio su chi li indossa, così il Nostro attribuisce lo stesso significato all’arredamento e al gusto di disporlo in un certo modo nella dimora di una persona dalle qualità “aristocratiche”. E questo come proiezione della propria identità dedicando tra gli arredi anche uno spazio ai ritratti dei propri antenati a guisa dei Lari e dei Penati dei Latini. Completano, conclude Romano, la bellezza della dimora, non necessariamente un palazzo, il poter accudire l’eventuale giardino di casa o il curare il collezionismo al pari di un personale museo, considerando entrambi come manifestazioni secondarie del gusto del dimorante. Con questo fare si può contrastare, aggiunge l’Autore, il completamento dell’ecatombe che incalza e principalmente col formare, con persone che in ciò si riconoscono, una sorta di patriziato civico di pochi ma decisi “Cavalieri”. Titolo di nobiltà, ammonisce il Nostro, che non deve essere acquisito tramite sedicenti Istituti che l’elargiscono dietro compenso essendo insita la possibilità di poter incorrere così, in quel “Todos Caballeros” che l‘imperatore Carlo V concesse a certi postulanti sardi che lo reclamavano. Frase che oggi viene usata in tono dispregiativo annullando di fatto la distinzione o il prestigio dei pochi che lo meritano.
   Fatto salvo questo primo “tomo” che forma il “corpus iuris” principale dell’Elogio della Distinzione, essa incorpora altresì una poderosa antologia, un Florilegio di Autori che espongono le loro frasi, trattazioni, aforismi nel reticolo degli argomenti qui esposti, con particolare riguardo al significato di Aristocrazia. Pur tuttavia di questi Eccellenti non ci è possibile citare tutti i nomi dal momento che in dettaglio l’elenco supera le cento pagine. Fa da cornice a tanto disquisire, un prezioso saggio del nobile spagnolo Don Amadeo-Martin Rey y Cabieses, storico e critico nell’ambito araldico-cavalleresco della Classe aristocratica e della Tradizione iberica, che ne approfondisce lo studio, con un particolare riguardo a quello genealogico italiano. Il saggio dell’Illustre, Componente dell’Audizione Generale e Consigliere della Real Deputazione del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio nonché Membro Corrispondente del Collegio Araldico di Roma, risulta diviso in Nobleza, Aristocracia e Caballeria, speculari in qualche modo al sottotitolo dell’Elogio della Distinzione. Nella reflexion final l’Illustre raccomanda il rispetto della palabra dada, la bondad y la generosidad e la valentia y la humildada de corazòn perché solo la loro actuaciòn es la mejor aristocracia , cioè quella del poder de la bondad. 
   Alla termine di queste note, una riflessione, anche se non esaustiva, di quanto ci resta, speriamo in seguito non in briciole di memoria, della meritoria opera del “mosaicosmico” Magister. Senza scadere nella facile apologia di maniera, si resta “impressionati” da questo album di fotografie-commentario che, senza tema di supponenza, potremmo definire “De humanitate destructa”, giusto per parafrasare i commentari cesariani, nonchè coinvolti dall’afflato che traspare dalla malcelata angoscia con cui l’Autore esamina l’uomo sedotto e concupito dalla Tecnolatria dalla quale non si può distaccare senza il paventato pericolo di non apparire “politically correct”. Il richiamo risulta un accorato appello a quanti si avviano ciecamente verso l’abisso dell’anima trascinando con sé duemila anni di cammino e di acquisizione di una civiltà della quale restano testimoni ineguagliabili città uniche come Atene, Roma, Alessandria, Gerusalemme, Venezia, Pietroburgo. Un richiamo quindi per impedire a costoro di non finire aggrappati, in un rigurgito di ravvedimento, a quella “Zattera della Medusa” che tanto bene rappresenta la deriva di uomini disperati, il dipinto di Theodore Gèricault. A ben vedere, l’Elogio della Distinzione costituisce una sorta di testamento spirituale del Cavaliere dello Spirito Tommaso Romano, appartenente purtroppo all’esausto filone di un certo nuovo romanticismo, non letterario ma spirituale nel senso che si richiama al Passato vestendo la parola di “Redentore” di una certa cultura. Un testamento spirituale, dicevamo, che si coglie in questo Discepolo della Cultura che quale Pellegrino del Cosmo chiude questo pregevole lavoro, con fare quasi colloquiale, con un congedo, certamente non occasionale. Egli infatti inserisce al confine dei “tomi” trattati, un testo dal significativo titolo “Congedo al cafè de Maistre”. E volutamente, prendendone a prestito il nome, sceglie per siffatto “eremo senza terra”, l’immaginario ricovero in un Caffè, posto di fronte il mare nel Foro Borbonico (oggi Italico), dove in una atmosfera pregnante di “art nouveau”, si ritrova a scrivere, tra un caffè e il centellinare di un Porto, avvolto nell’aria da una coinvolgente musica mozartiana, una lettera, quasi una immaginaria “epistola apostolica” rivolta ad una civiltà al tramonto. In questa, da buon Anacoreta occulto, chiama alla resistenza con quel pudore, riserbo, dignità,  sensi comuni ai pochi frequentatori di quel Caffè, anche se ritiene che tutto è perduto, riprendendo in ciò la frase di Francesco Primo di Francia nell’infausto giorno di Pavia, nel messaggio alla propria madre, “Tutto è perduto fuorchè l’onore”. Ed è nel nome di queste virtù e dell’onore che il Romano, come in un battesimo liturgico, rinuncia al satana della egemonia tecnologica e alla dittatura del pensiero unico nello stesso modo in cui rinuncia agli applausi dei falsi adulatori, esprimendo come unica aspirazione quella di essere lasciato in pace dentro un immaginario Chiostro. E’ nel contesto di queste note che il Filosofo appare nelle vesti più dimesse dell’ordinario umano, svelando una sorta di stanchezza per l’impari lotta contro questo mondo destinato al declino, riponendo però l’ultima speranza nel salvataggio ad opera della divina Provvidenza. Si chiude così questa antologia, questo breviario-manuale di concetti, richiami, esortazioni che, iniziati con la Distinzione, anima della nobiltà del cuore e dello spirito, giungono al termine di questo excursus, alla malinconia nel corpo senza tuttavia coinvolgerne l’anima.

martedì 15 novembre 2016

La Riforma protestante culla del razionalismo e dell’esoterismo moderni

di Corrado Gnerre

Pochi sanno che la Riforma protestante ha dato un contributo notevole alla nascita tanto del razionalismo quanto dell’esoterismo moderni. Vediamo come. Una premessa: le notizie contenute in questo articolo sono principalmente tratte dalle ricerche di un grande studioso di Lutero, il tedesco Theobald Beer.
Partiamo, prima di tutto, dalle definizioni di razionalismo e di esoterismo.
Il razionalismo è una corrente filosofica con la quale si pretende ridurre la realtà alle possibilità conoscitive della ragione umana.
L’esoterismo è una concezione filosofico-religiosa secondo la quale i riti e gli insegnamenti più segreti di una dottrina sarebbero rivelati a pochi privilegiati, cioè ai cosiddetti “iniziati”. L’esoterismo è convinto che l’elemento della contraddizione, presente nella realtà, sia solo in superficie; se si va in fondo alla realtà stessa, queste contraddizioni si dissolverebbero. Insomma, un conto è la realtà così come essa appare; altra sarebbe l’essenza profonda della realtà stessa.
La Riforma e il razionalismo moderno
Il contributo del Protestantesimo allo sviluppo del razionalismo riguarda soprattutto due campi: l’antropologia e il pensiero politico.
Partiamo dall’antropologia. Qui la Riforma propone un vero e proprio antropocentrismo conoscitivo, ovvero una sorta di convinzione secondo cui il soggetto umano può creare la verità.
Questo antropocentrismo conoscitivo si esprime in tre convinzioni tipicamente protestanti: l’abolizione del Primato Petrino (negazione dell’autorità del Papa), l’abolizione del sacerdozio ministeriale e il libero esame delle Scritture (rifiuto del Magistero).
Riguardo, invece, l’altro punto, cioè il pensiero politico, va detto che il Protestantesimo apre la strada al laicismo che si esprime soprattutto attraverso due convinzioni luterane: la salvezza solo attraverso la Fede e il rifiuto della tradizionale dottrina cristologica.
La salvezza solo attraverso la fede apre la strada al laicismo, perché se è solo la fede a salvare e non le opere, allora le realtà del mondo o sono totalmente da rifiutare o da accettare così come sono, senza nessuna pretesa di cambiamento. Insomma, è questa una convinzione che paralizza qualsiasi agire cristiano nel mondo, per cui il mondo stesso o va totalmente rifiutato (da qui il settarismo di alcune comunità protestanti) o accettato senza problemi (da qui il laicismo di altre comunità protestanti).
Ma anche il rifiuto della tradizionale dottrina cristologica apre la strada al laicismo. Secondo il già citato Theobald Beer ci sarebbe un lato oscuro di Lutero che solitamente non viene evidenziato, ovvero il suo rifiuto della tradizionale dottrina cristologica dell’unione ipostatica (duplice natura, umana e divina, in un unico soggetto, divino). Lutero – sempre secondo Beer – afferma che Cristo sarebbe composto ma non costituito di natura umana e di natura divina. Cioè natura umana e divina si sarebbero unite accidentalmente in Cristo. Una tale affermazione significa una negazione dell’unità personale di Cristo, l’ammissione di due persone in Cristo e la sottomissione al diavolo della persona umana di Cristo stesso. L’umanità e le cose umane, pertanto, non sarebbero mai totalmente sanabili. Lutero, infatti, scrive che Cristo opera per la nostra salvezza: “Sine humanitate cooperante”. E in un commento alla lettera ai Galati, del 1531, sempre Lutero scrive: “(…) altro è l’Abramo che crede, altro l’Abramo che opera, altro il Cristo che opera (…) distingui queste cose come il Cielo e la Terra. (…) Che l’umanità di Cristo sia sottomessa al diavolo è testimoniata dal fatto che l’umanità di Cristo finisce con la morte”.

La Riforma e l’esoterismo moderno
Theobald Beer ci dice che su molti punti del suo pensiero Lutero ricorre allo Pseudo-Ermete Trismegisto. Di chi si tratta? Sotto il nome di Hermes Trismegisto comincia a circolare in epoca ellenistica (III secolo a.C.) un insieme di scritti a sfondo occultistico-astrologico che si ritenevano rivelati dal dio Hermes (Mercurio) “tre volte grandissimo”, appunto “trismegisto”.
E’ verosimile che Lutero possa aver avuto un’attrazione per lo Pseudo-Ermete. Non dimentichiamo che siamo nel secolo XVI, cioè il secolo in cui si “ritorna” alla cultura pagana e in cui si riscopre la prisca philosophia; e non è improbabile che anche Lutero ne abbia avvertito l’attrazione.
Ma vediamo adesso dov’è il contributo del Protestantesimo allo sviluppo dell’esoterismo moderno. Si possono a riguardo individuare almeno cinque tracce: di gnosi (la salvezza attraverso la conoscenza), di prometeismo (la possibile autosufficienza dell’uomo), di impersonalità del divino, di elitarismo (la salvezza è per pochi iniziati), di tensione palingenetica (la realtà deve essere radicalmente trasformata).
Iniziamo con le prime tracce: quelle di gnosi. Nel Luteranesimo queste sono evidenti nell’intellettualismo teologico (la verità divina può essere conosciuta solo da chi studia) e nell’intellettualismo etico (la morale s’identifica con la conoscenza). L’intellettualismo teologico è l’esito inevitabile del rifiuto del Magistero. Venendo meno l’adesione all’autorità magisteriale come mezzo di conoscenza della verità, tutto si riduce a conoscenza individuale; ma ciò favorisce chi sa, e così l’intellettuale ha più opportunità rispetto all’analfabeta. E’ una sorta di deriva gnostica. L’intellettualismo etico è invece effetto della salvezza solo attraverso la fede. Una simile convinzione favorisce la conoscenza sulla pratica della virtù. Insomma, la salvezza solo attraverso la fede somiglia molto alla salvezza solo attraverso la conoscenza, facendo a meno della pratica della virtù. Questo rapporto con Dio solo attraverso la fede è espresso da Lutero con una frase desunta da Ermete Trismegisto. All’obiezione cattolica che propone la frase di san Paolo “Fides charitate formata” (“La fede informata dalla carità”), Lutero risponde che “la relazione fra Dio e l’uomo è come una linea toccata da una sfera. La sfera incontra la linea sempre in un sol punto”. Questo punto è la fede.
Veniamo alle seconde tracce: quelle di prometeismo. Queste, nel Luteranesimo, sono evidenti soprattutto nel rifiuto dell’autorità religiosa, che è poi ravvisabile nel rifiuto del Magistero, che consequenzialmente segna il rifiuto del concetto di autorità in campo conoscitivo.
Terze tracce: di impersonalità del divino. Queste sono ravvisabili soprattutto nella convinzione luterana secondo cui il peccato non compromette la salvezza. Tale convinzione richiama la teoria nominalistica del bene e del male e quindi la possibilità che in Dio possa esserci anche il male. Questa tendenziale (perciò parliamo di “tracce”) concezione impersonale del divino che aveva Lutero è confermata dalla ripresa di alcune espressioni sempre di Ermete Trismegisto. Nella II tesi luterana, per esempio, si legge: “Dio è una sfera infinita il cui centro è ovunque…”. Così come è evidente in una tendenziale negazione del concetto di “persona” (negazione che costituisce una contraddizione rispetto all’antropocentrismo conoscitivo tipico della Riforma). Lutero, riprendendo lo Pseudo-Ermete, scrive: “Non è in noi l’immagine della sostanza di Dio, ma solo in Dio stesso, poiché solo Dio conosce la propria forma”. Ciò di fatto è la negazione dell’anima individuale.
Quarte tracce: di elitarismo. Queste sono evidenti soprattutto nella tensione settaria, che a sua volta è esito della salvezza solo attraverso la fede, che, a sua volta ancora, fa ritenere il mondo come qualcosa da cui separarsi. Qui va richiamato quello che abbiamo già detto a proposito del laicismo. Se è solo la fede a salvare e non le opere, allora il mondo o è totalmente da rifiutare o è da accettare così com’è, senza nessuna pretesa di cambiamento. Si sviluppa, pertanto, uno spirito settario, cioè di segregazione dal mondo.
Quinte e ultime tracce: di tensione palingenetica. Anche queste sono evidenti nella convinzione luterana della salvezza solo attraverso la fede, che fa ritenere il mondo come qualcosa che deve essere totalmente rivoluzionato. L’esoterismo, in quanto monismo gnostico (il mondo è un’espressione del divino), non può non sfociare in una sorta di spirito palingenetico per far sì che ritorni ad essere una sola cosa con l’origine divina. Anche il Protestantesimo ha in sé una palese tendenza apocalittica, ciò perché, rifiutando il rapporto ragione-fede, è costretto o ad accettare la realtà così com’è o a rifiutarla totalmente; insomma la realtà non è soggetta ad un criterio di giudizio della fede. Dunque, la contraddizione del reale si risolverà con la sua trasformazione che dovrà necessariamente avvenire nei tempi ultimi.

da: www.riscossacristiana.it

lunedì 14 novembre 2016

“The Young Pope”: impressioni a caldo su Pio XIII

di Luca Fumagalli

Al termine della visione dei primi due episodi della nuova mini-serie “The Young Pope”, targata Paolo Sorrentino e in onda ogni venerdì su Sky Atlantic, lo spettatore è colto dalla strana sensazione di essere reduce da un viaggio al centro del cuore umano, dove le contraddizioni convivono nella più serena accettazione.
Chi si aspettava di assistere a qualcosa di paragonabile ad Habemus Papam di Moretti è rimasto deluso. Sorrentino è distante dalla fastidiosa orizzontalità morettiana, quella tendenza perniciosa per cui tutto è riportato sempre e comunque al mero livello umano. Il suo “realismo magico” di marca felliniana, in cui ogni cosa è segno di un mistero che la trascende, ben si adatta a trattare un tema, come quello del Papa e della Chiesa, che per sua natura non può essere volgarmente ridotto al solo aspetto materiale. Il risultato è convincente anche quando il regista napoletano è costretto dalla serialità a non allontanarsi troppo dagli stilemi del genere.
C’è qualcosa di affascinante e di inquietante nel carisma di Lenny Belardo (Jude Law), giovane cardinale americano eletto Sommo Pontefice con il nome di Pio XIII. Uomo del mistero, che non ama essere fotografato, abbandonato dai genitori quando era ancora un bambino, è una creatura che fa della sua debolezza, del non avere un passato, la sua arma più potente. Il suo unico peccato, stando a quello che dichiara al confessore, è che la sua coscienza non lo accusa di niente. Freddo, cinico e disincantato, ogni gesto è sapientemente ponderato, meditato affinché ottenga il massimo effetto con il minimo sforzo.
Le sue scelte imprevedibili – che culminano con il terribile discorso in Piazza San Pietro, pieno di odio per l’umanità e di sbraitanti inviti a occuparsi solo di Dio («Senza Dio si diventa morti») – sembrano orientate a dare nuovo lustro alla Chiesa, ristabilendo un potere del tutto simile a quello rivendicato da Gregorio VII o Bonifacio VIII. In tal senso la decisione di ripristinare l’uso della Tiara è emblematico, così come la battuta per cui «Roma è una frazione della Città del Vaticano» suona più come un programma politico. Per raggiungere l’obiettivo ogni cosa è lecita, compreso violare il segreto confessionale, allontanare da incarichi di prestigio un cardinale solo perché omosessuale o nominare segretario particolare una donna, suor Mary (Diane Keaton), che ha allevato il piccolo Lenny come una madre.
Eppure, in tutto questo, c’è un fondo di autentica umanità che è ineludibile. Esempio ne sono la lettera del bambino americano che il Pontefice piega con cura e porta con sé – utilizzandola anche come “falsariga” per il suo discorso d’esordio – o lo strano potere con cui sembra in grado di addomesticare anche gli animali più selvaggi (come il canguro che adesso corre libero per i giardini vaticani).
A rendere ancora più pepata la trama, intorno a Pio XIII non mancano intrighi e antagonisti. Oltre al cardinal Spencer, che si è visto soffiare il soglio petrino dal suo protetto, nell’ombra si muove anche Voiello (un brillante Silvio Orlando), il potentissimo e chiacchierato segretario di stato, volgarmente attaccato al potere, eppure capace di misericordiosa tenerezza verso i più deboli.
A caldo, quando mancano ancora otto puntate al termine della serie, è impossibile, naturalmente, dare un giudizio definitivo. Come si è detto, e come ricorda lo stesso Pontefice all’inizio del primo episodio, The Young Pope, al pari di ogni uomo, è un grumo di spunti contraddittori, in cui convivono intuizioni interessanti e caricature un po’ troppo spigolose. Difficile intuire poi a cosa miri veramente Pio XIII, se tutto quello che fa, compreso ciò che sembra sulle prime ruvido o viscido, non sia invece finalizzato a un bene superiore (lo stesso Belardo, del resto, ha un passato immacolato, senza vizi o lati oscuri).
Sorrentino, almeno per il momento, riesce a smarcarsi dall’opposizione tradizionalismo-progressismo, ponendo lo scontro di idee su un piano superiore, quando si parla delle tormentate coscienze dei protagonisti, e inferiore, quando la politica vaticana si riduce a prebende e scelte di merchandising. Se Pio XIII, nel suo virulento appello a Dio pare allontanarsi da un certo umanitarismo ecclesiastico attuale, allo stesso tempo, però, la sua impassibile lucidità lo rende detestabile, quasi disturbante.
Tra tutti i papi immaginati dalla letteratura, dal cinema o dal teatro, Belardo assomiglia molto, soprattutto per questi ultimi aspetti, a Lando II, protagonista dell’oscuro The Translation of Father Torturo di Brendan Connel, un uomo senza difetti, attraente e fisicamente prestante, ma disposto a tutto per diventare Sommo Pontefice (l’accanito tabagismo, invece, accomuna Pio XIII all’Adriano VII di Frederick Rolfe “Baron Corvo”).
Dopo i primi due episodi, The Young Pope conserva il fascino di un intreccio ancora tutto da sciogliere e, non c’è da dubitarne, le sorprese non si faranno attendere.

da: www.radiospada.org

sabato 12 novembre 2016

Pubblichiamo una poesia di Vittorio Riera

HOMMAGE À HAMMAMET

Hammamet qui pleure et rit
qui danse qui chante
sous la lune étonnante
sur les dunes qui plongent
au vent frais des jasmins.

Couleurs d’Hammamet
parfums du soir
parmi le noir des hirondelles
et les chameaux au loin
courant lents lents
sur les sables dorés.

Musiques d’Hammamet
musique de la mer
mêlée au soleil
couchant dans l’azur
chaud des palmiers. Musiques
rares de rares instruments
dans l’air tiède de la nuit.

Visages d’Hammamet villages
couleurs parfums chansons.

Écoutons Hammamet écoutons...


Trad.: Hammamet che piange e ride / che danza e canta / sotto la luna stupita / sulle dune che si tuffano / nel vento fresco dei gelsomini // Colori d’ Hammamet / profumi della sera / fra il nero delle rondini / e i cammelli che lontano / corrono lenti lenti / sulle sabbie dorate. // Musiche d’Hammamet / musica del mare / che s’innalza al sole / morente nell’azzurro / caldo dei palmeti. Musiche / rare di rari strumenti / nell’aria tiepida della notte. // Volti d’Hammamet villaggi / colori profumi canzoni. // Ascoltiamo Hammamet ascoltiamo.


venerdì 4 novembre 2016

13 regole per educarsi all’«intelligenza»

di Emanuele Samek Lodovici

Dal volume curato da Gabriele De Anna, L’Origine e la Meta. Studi in memoria di Emanuele Samek Lodovici (Edizioni Ares, pp. 280, euro 16), pubblichiamo l’inedito dello stesso Samek Lodovici sulle regole per «educarsi all’intelligenza». Si tratta della trascrizione della registrazione dell’ultima conferenza pubblica di Emanuele Samek Lodovici, tenuta tre settimane prima dell’incidente stradale del 17 aprile 1981 in cui rimase coinvolto e che richiese un intervento chirurgico, svoltosi il 5 maggio 1981, durante il quale Samek morì. La trascrizione è integrata con aggiunte tratte dalla registrazione di un’altra conferenza, tenuta in precedenza da Samek, sullo stesso tema.
L’educazione all’Intelligenza è da lui intesa come educazione alla vita riuscita, piena e feconda. Una conferenza che, dunque, è quasi un testamento spirituale e che tocca talvolta, sia pur brevemente, anche il tema dell’altra dimensione (che Samek coltivò profondamente) della vita riuscita: quella religiosa. Le espressioni colloquiali e del parlato di questa sua conversazione (divulgativa e non accademica: lo si noti), sono state lasciate: anch’esse aiuteranno il lettore a comprendere lo stile brillante e insieme lo spessore sapienziale di questo grande uomo, prima ancora che grande pensatore.
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Mi sono detto: perché non indicare delle regole in grado di propiziare l’intelligenza? Tali regole, che possono essere ristrette o allargate a piacere, valgono sia per l’uomo sia per la donna, ma, a mio avviso, servono di più alle donne nella misura in cui esse sono purtroppo fruitrici di un’immagine che non le aiuta a interpretarsi come esseri intelligenti, come invece esse sono assolutamente: lo sono quanto gli uomini se non qualche volta di più.
C’è però un paradosso iniziale di cui voglio parlarvi: per apprezzare il valore delle regole dell’intelligenza (o regulae ad directionem intelligen-tiae, come direbbe Cartesio) bisogna essere intelligenti. Solo chi è intelligente dovrebbe essere in grado di capire perché l’intelligenza è importante e perché sarebbe molto importante educarsi a essere intelligenti.
Quali sono queste regole? Ecco le prime tredici.
1 La prima regola che ci possa permettere di cominciare a educarci all’intelligenza è sapere che l’intelligenza è un dovere, non è dunque facoltativa: dobbiamo essere intelligenti, ricordati che devi essere intelligente, che devi esercitare l’arte del sospetto, ricordati che non devi farti ingannare. Meglio un infelice intelligente che un uomo felice ma idiota, ingannato. Dunque un primo criterio è che l’educazione all’intelligenza è un nostro compito, un qualcosa che dobbiamo fare e che non possiamo demandare ad altri.
2 La seconda regola di questo educarci all’intelligenza è che ci educhiamo all’intelligenza quando capiamo che non è indifferente il linguaggio che usiamo: non è lo stesso usare il turpiloquio piuttosto che il non turpiloquio. Il turpiloquio non va rifiutato per delle ragioni che io ritengo moralistiche (le brutte parole), ma perché rappresenta il mondo attraverso pochi segni: gli organi sessuali sono pochi. Le possibilità semantiche degli stessi saranno venti o trenta, massimo venticinque. Ora, una persona, un giovane che ha a disposizione solo venticinque possibilità semantiche, vale a dire venticinque possibilità di conoscere il mondo, non potrà cogliere una cosa meravigliosa come il movimento di un gatto che salta da un mobile su una poltrona e graffia la poltrona, o semplicemente lo svariare di un colore durante un’aurora o un tramonto, o ancora l’enorme differenziazione psicologica della persona che abbiamo innanzi.
Se fossimo come degli entomologi e riuscissimo a studiare l’uomo come gli insetti e a farci battezzare dalla stupidità linguistica, ascoltando per esempio il colloquio dei ragazzi sui mezzi pubblici al rientro da scuola, ci renderemmo conto che il dramma non sta nella brutta parola, ma nel fatto che queste persone non parlano e chi non ha le parole non ha le cose, non ha mondo: se vogliamo strappare a una persona il mondo, basta strapparle le parole con cui capisce quel mondo. Le parole saranno sempre più impoverite di significato e crederà che il mondo corrisponda alla povertà di significato delle sue parole.
La perdita della nostra capacità di significare attraverso il nostro linguaggio nel mondo è una perdita del mondo. E un’educazione al’intelligenza comporta decisamente l’esclusione del turpiloquio inutile, il turpiloquio va usato quando è differenziato e personalizzato. Che sia detta effimeramente l’ingiuria quando c’è l’arte dell’ingiuria, ma che sia detta in quel momento e mai più. Una lancia a favore del turpiloquio può essere spezzata quando viene usato in media ogni venti giorni per avere la possibilità di lanciare un’ingiuria che è diversa da un’altra di venti giorni prima. Ritengo che in questo caso il turpiloquio possa essere usato, ma non deve essere usato come strumento per parlare, se vogliamo (come dobbiamo) avere dello stile.
Perché dobbiamo educare i nostri figli a non usare il turpiloquio? Perché se li educhiamo piuttosto a un linguaggio significativo moltiplichiamo il mondo: se non abbiamo linguaggio non abbiamo mondo. Questo è un fatto estremamente importante e non è un caso che in una strategia totalitaria si tenda a privare l’uomo del linguaggio e a fare in modo che l’uomo tenda a interpretare le parole al loro livello più basso. Per esempio, quando l’uomo parla di fortezza, si vuole far sì che egli la intenda solo come forza fisica e non come la capacità di resistere al dolore e alla sofferenza, e quando egli parla di sapienza si vuole far sì che essa venga intesa solo come erudizione e non come sapore dell’esistenza.
3 La terza regola fondamentale, legata intrinsecamente a quanto ho detto precedentemente (sapere che l’intelligenza è un dovere, sapere che il turpiloquio deve essere espunto perché non è significativo) è che ci si può educare all’intelligenza se sappiamo che dobbiamo avere uno stile. Questo punto dell’educazione all’intelligenza si capisce da sé quando viene detto delle donne. Esse infatti sono naturalmente portate ad avere uno stile. Drammaticamente, come dicevano i classici, «corruptio optimi pessima», anche perché attraverso la donna, come attraverso un collo di bottiglia, passano le generazioni future. Educazione allo stile vuol dire allora educazione del carattere: conoscersi per governarsi.
Non guardare ai frutti dell’azione, ma educarsi alla modalità dell’azione stessa e, poi, se ci saranno risultati, tanto meglio. Il risultato, che pur è importante, è irrilevante rispetto all’altra cosa più importante: il modo in cui arriviamo al risultato. Lo status che conseguiamo vivendo (ingegnere, avvocato ecc.) sarà comunque azzerato con la nostra uscita da questo mondo. Allora quello che rimane di noi è il modo in cui abbiamo vissuto. Che cosa vuol dire allora avere uno stile? La grande educazione cristiana esprimeva questo concetto con un’immagine molto bella: l’esistenza è un teatro dove è indifferente la parte che abbiamo (la parte del cameriere oppure la parte del principe), perché quello che è essenziale è come recitiamo la parte. Bisogna sapere, cosa fondamentale, che nella nostra vita non conta ciò che facciamo, ma come lo facciamo, conta se lo facciamo bene, se lo facciamo come Dio vuole che lo facciamo.
Plotino, autore a me molto caro, scrive in uno dei suoi meravigliosi trattati sulla Provvidenza che quello che conta non è il ruolo che stiamo recitando (docente, ingegnere, uomo, donna, bambino ecc.), ma come recitiamo quel ruolo. È assolutamente importante sapere che non valiamo in base a quello che raggiungiamo, ai risultati che otteniamo, ma in base a come otteniamo quei risultati. Questa è una cosa che ci rende molto meno nevrotici di fronte alla competitività perché quello che conta è come siamo. Allora ecco l’essenza profonda di questa regola dell’intelligenza: educarsi ad avere uno stile, una forma, un carattere, sapendo in fondo che questa vita è un gioco: in essa non conta tanto il risultato del gioco, ma come l’uomo gioca. Dal nostro punto di vista, dobbiamo passare dal giocar male al giocar bene, uscire da questa vita come giocatori migliori di quando vi siamo arrivati, imparare a giocare meglio.
Il controllo della fantasia & della volontà
4 La quarta regola utile per l’intelligenza è educarsi al controllo della fantasia. Per quanto possa apparire sorprendente, educazione alla fantasia, quale forma di educazione all’intelligenza, non vuol dire che non bisogna avere fantasia, perché, anzi, la fantasia incentiva la risoluzione di problemi di ogni natura. Educazione della fantasia significa il controllo della parte negativa della fantasia, cioè il fantasticare, l’uscire dal proprio ruolo e dalla propria vita, pensare che se fossimo in un altro posto sarebbe meglio che nel posto in cui siamo, che sarebbe meglio se fossimo in altra famiglia, scuola, ambiente di lavoro, eccetera. È importante sapere che è proprio nell’ambiente in cui sono che si gioca il mio destino, lì mi sto giocando la mia esistenza, lì devo acquisire un carattere.
Le riviste femminili spingono la donna a fantasticare in questo senso: a uscire da sé, a ritenere di non avere una natura e ritenere di poter essere tutto. È quello che ha espresso magnificamente Flaubert nel romanzo Madame Bovary. Madame Bovary è una disgraziata perché non sente la responsabilità dell’esistenza, responsabilità nel senso etimologico del termine: l’essere sposata alla realtà, non sente cioè la propria esistenza come un destino, non sente il fatto di avere un marito come qualcosa che le è destinato, bensì vuole evadere da questa realtà. La nostra infelicità non dipende dal fatto che il mondo non continua a darci cose meravigliose, ma dal fatto che in noi viene a mancare la capacità di apprezzarle.
Questa cosa un autore spirituale la chiama la «mistica del magari», che è una delle cose peggiori sul piano spirituale perché, nel momento in cui siamo tentati di pensare un’altra situazione per noi («ah, se fossi missionario in Africa, ah se fossi principe, se fossi uomo e non fossi donna, ecc.»), evitiamo di rispondere alle domande che ogni giorno la nostra vita ci pone. Tutti i giorni ci viene posto un compito, forse noi non accogliamo questa domanda, la domanda posta da un amico silenziosamente, quando senza dirci nulla ci chiede di aiutarlo. Con la «mistica del magari» noi non rispondiamo all’unica domanda importante che in quel giorno ci è stata rivolta. Non dobbiamo credere infatti che le domande ci vengano poste soltanto esplicitamente. La maggioranza delle cose che importano e che ci vengono chieste, non ci viene chiesta direttamente.
Allora, per crearsi uno stile, è assolutamente importante, a mio avviso, escludere il fantasticare, accettare la nostra esistenza come un destino, accettare le opere da compiere, le persone che amiamo, quelle che ci stanno intorno, perché a loro dobbiamo rendere la nostra esistenza. Il controllo della fantasia ci dà il senso della realtà che viviamo tutti i giorni, perché è andando contro l’ostacolo che divento grande, perché faccio lo sforzo di superarlo. E anche se non dovessi riuscire a superarlo, è assoluta-mente importante che io mi sia sforzato: per esempio, nello studio, se mi sono sforzato di capire, ho vinto lo stesso anche se non ho capito. Lo sforzo di capire, infatti, mi fa diventare enormemente intelligente: voglio assolutamente capire, voglio sapere e non voglio farmi ingannare.
5 Si capisce allora quella che io chiamo quinta regola: l’educazione alla volontà di verità, voler sapere come stanno le cose, non accontentarsi di qualche pagina di giornale, o dei rimasugli eruttati dall’ultimo mediocre, fare il possibile per capire, assolutamente non essere superficiali, capire la solo apparente superiorità della stupidità nei confronti dell’intelligenza. Come dice Aristotele, ciò che caratterizza la filosofia e l’uomo in quanto filosofo – e ogni uomo è filosofo – è la volontà di verità, voler sapere come stanno le cose.
Mi permetto allora di indicare le cinque regole che, secondo me, permettono di individuare «lo stupido». In primo luogo «lo stupido» ci infligge un danno senza esserne consapevole. La seconda regola è che lo stupido è più pericoloso del malvagio perché questi ogni tanto si riposa, mentre lo stupido è sempre in esercizio. La terza regola è che lo stupido non sa mai di essere stupido. La quarta regola è che l’essere stupido è indipendente dalla posizione che uno occupa e dalle sue proprietà: stupido può essere chiunque, dunque non supponiamo che certe caratteristiche esterne ci permettano di dire: «Quell’uomo senz’altro non è uno stupido». La quinta regola è che l’intelligente, grazie alla propria intelligenza, capisce perché lo stupido «fa carriera». Tra le cinque regole, le prime due sono quelle fondamentali.
La capacità di rettificare & di stare soli
6 Tornando alle regole dell’educazione all’intelligenza, la sesta regola comporta che si sappia che una delle sue regole fondamentali è la capacità di rettificarci: noi non siamo non intelligenti quando sbagliamo, ma siamo intelligenti quando rettifichiamo. Si educa un figlio all’intelligenza se lo si educa a rettificare, se gli si insegna che non è intelligente chi non sbaglia mai, ma chi sa rettificare. È meraviglioso se, per esempio come genitori, sappiamo dire ai nostri figli: «Guarda, io ho sbagliato, avevi ragione tu». In questo modo noi li educhiamo alla rettifica.
7 La settima regola dell’intelligenza è la regola della solitudine, non nel senso di fare l’individualista, ma capire che una delle cose fondamentali nella scoperta delle cose che mi interessano è avere dei momenti di solitudine, dei momenti in cui sono solo con me stesso. L’amicizia è fondamentale, riempie il cuore delle cose più belle, è bello stare in compagnia, ma le decisioni per l’esistenza le facciamo da soli. È importante anche stare soli perché è nella solitudine che si fanno le vere scoperte, quelle che facciamo soltanto noi e che nessuno ci riesce a far fare: qualcuno ci può indicare la direzione ma, per esempio, capire davvero che cosa vuol dire la grandezza d’animo, la non invidia, possiamo comprenderlo solo noi, quando abbiamo cominciato a praticarla e l’abbiamo sentita dentro di noi. Pascal dice che il problema dell’uomo è questo: che non riesce a stare da solo in una stanza. Dobbiamo far capire ai nostri figli che è essenziale anche stare da soli in una stanza, perché in questa si fanno più scoperte che insieme a tutti gli amici.
Autoironia, non far soffrire, supporre che intelligenti siano gli altri
8 Altra regola dell’intelligenza, l’ottava, è l’educazione all’autoironia: non prendersi troppo sul serio, sapere che stiamo giocando, che questa vita è un gioco. «Non essere così seri come un tedesco morto il giorno prima», come diceva Heine. È assolutamente importante avere una distanza da sé stessi, cominciare a non prendersi sul serio. Mi sono sempre piaciuti quei medici che non credono troppo nella medicina. O quei filosofi che sanno che, come diceva Pascal, l’unico modo per fare filosofia è prendersi gioco della filosofia; o quei professori di latino e di storia che si rendono conto che, oltre al latino e alla storia, infinite altre cose sono presenti nell’universo.
9 La nona regola, molto sottile, ma importante, è quella che ci dice di stare molto attenti alle sofferenze che possiamo infliggere agli altri senza saperlo. Un grande moralista del Seicento, La Rochefoucauld, diceva questa frase a me molto cara: «Non c’è uomo tanto intelligente da conoscere tutto il male che fa». Proviamo a rovesciare in positivo questa affermazione: solo l’uomo veramente intelligente dispiega tutti suoi sforzi per poter conoscere e prevedere tutto il male che fa. Provate per un attimo a pensare se quella tal parola a un amico o a un’amica, alla madre, al figlio, all’insegnante, ha una conseguenza che noi non sospettiamo in quel momento, ma che potrebbe avere.
Questo atteggiamento ci mette in confronto con gli altri attraverso la virtù più fantastica che è la carità: il fuoco della carità, il guardare gli altri tenendo conto delle conseguenze di ciò che si dice. Provate per un attimo a rispettare la personalità dei figli, a volere che siano come sono, a volere la loro personalità: nessuno è mai tanto intelligente da conoscere tutto il male che fa senza saperlo! Una regola davvero raffinata, che ci rende e può renderci estremamente delicati nel rapporto con gli altri. Certamente, se siamo dissipati sul piano della nostra attenzione, allora passiamo questa vita pensando che gli altri siano soltanto dei gradini per la nostra personale conquista. Attenzione dunque alle sofferenze che potremmo infliggere agli altri senza saperlo!
10 Un’altra regola importante, la decima, è quella regola che ci permette di capire che l’intelligenza da sola non basta. Un autore molto raffinato, scrittore di romanzi gialli, che in realtà non sono solo dei romanzi gialli bensì tendono sempre alla ricerca della verità, cioè Chesterton, in Ortodossia, formula questa regola per individuare l’intelligente stupido: «Il pazzo non è colui che ha perso la ragione, ma è colui che ha perso tutto, eccetto la ragione», cioè che ha perso tutta la necessaria dotazione di qualità umane, di virtù. Pensiamo allora a un soggetto che vuole essere soltanto intelligente e ha perso il senso dell’umanità, ha perso la cortesia, l’allegria, la capacità di stare con gli altri, che non è leale né semplice, che insomma ha perso tutto, tranne la ragione: costui è «l’intelligente stupido», colui cioè che non capisce che l’intelligenza da sola non basta.
11 La regola successiva, l’undicesima, è quella che ci permette di supporre che a essere intelligenti siano gli altri e non noi. Non è detto che di fronte a un problema io abbia la soluzione. Solo gli uomini intelligenti sanno trovare l’intelligenza negli altri e cominciamo a essere intelligenti quando ammiriamo l’intelligenza degli altri, e diventiamo veramente intelligenti quando non la invidiamo. È tipico delle persone meschine non godere del fatto che gli altri abbiano delle doti. Una regola del carattere, che era tipica del mondo medievale, era di coltivare questa magnanimità. Proviamo a pensare a coloro che costruivano le cattedrali, che le costruivano sapendo che la conclusione dell’opera sarebbe avvenuta dopo di loro e che il prestigio per averla costruita sarebbe andato ad altri, eppure avevano questa magnanimità: fare le cose senza vedere i frutti.
Spirito di meraviglia & contemplazione della morte
12 Una dodicesima regola richiede di educare sé stessi allo spirito di meraviglia, a non dare per scontato il mondo che abbiamo, ad apprezzare il mondo che abbiamo e tutto ciò che ogni giorno esso ci porta: dalle opere da compiere agli amici che abbiamo, al dolore, alla felicità, all’affetto. È l’educazione a tornare bambini, allo spirito di meraviglia che è tipico dei bambini, quello di chi entra nella stanza la mattina di Natale e vede nell’angelo di cartone un angelo vero. Non vuol dire che settantenni o ottantenni dobbiamo (per esempio) innamorarci della balia, non vuol dire questo; bensì significa tornare ad avere quello spirito di semplicità che è tipico dei bambini. Vuol dire meravigliarsi per il fatto che ci siamo ancora, perché domani un ictus cerebrale ci potrebbe portare via… Significa ringraziare per il fatto che ci siamo ed educare al ringraziamento.
Ciò comporta l’educazione ad avere un rapporto con la realtà che non sia artificiale. Bisogna cioè togliere di mezzo tutte le mediazioni artificiali di fronte alla realtà, abituarsi a vedere colori che non siano dipinti o riprodotti su pagina, e saper vedere (per esempio) il colore di un autunno e di un’estate, di un oggetto, di una foglia. Educare a sentire il suono del vento, di una campana, di un ruscello ecc. Vuol dire educazione della vista a vedere immagini che non siano filmate o fotografate: è tipico della atrofizzazione della nostra intelligenza il fatto che andiamo in vacanza a vedere immagini di cui abbiamo visto la diapositiva o la fotografia nell’agenzia di viaggio. Vuol dire che non siamo capaci di vedere immagini che non siano già state viste e quindi che siamo tendenzialmente portati alla regressione della vista, dell’udito, eccetera. Questo spirito di meraviglia da coltivare è quello tipico del bambino, che sa stupirsi uscendo di casa, guardando una sfumatura di un colore. Se noi proviamo per un attimo a pensare che questo teatro del mondo che noi stiamo recitando potrebbe, per quanto ci riguarda, essere sbaraccato da un momento all’altro, allora la meraviglia la proveremmo, ringrazieremmo certamente di più.
13 L’ultima regola dell’intelligenza, la tredicesima, dice che diventiamo intelligenti se ci esercitiamo a contemplare la morte, una delle cose che, più di tutte, può insegnarci a capire la vita che abbiamo e che stiamo vivendo.
Se al centro della nostra intelligenza ci fosse questa regola, cioè che esiste la fine, improvvisamente comprenderemmo quali sono le cose che contano e quali invece quelle che non contano, che sono risibili e stupide, che durano lo spazio di un mattino. La regola fondamentale è: abituati a pensare che c’è la fine e che questa non riguarda gli altri ma anche te, che anche tu hai questo destino ed è estremamente importante esserne consapevoli. La morte va vista con serenità, ma va saputo che essa c’è, che io ho un mutamento cellulare, che la mia esistenza va verso qualche cosa, che la mia intelligenza si disperde.

giovedì 3 novembre 2016

George Orwell e il fascino discreto della (piccola) borghesia

di Luca Fumagalli

Lo squattrinato poeta Gordon Comstock sta sfogliando alcuni manuali di ginecologia nella sala lettura di una libreria. La sua fidanzata, la buona e dolce Rosemary, gli ha appena annunciato di essere incinta. Sperando di trovare in quei polverosi volumi la risposta a ogni dubbio, incerto se tenere o meno il bambino, Gordon si imbatte nel disegno di un feto. L’immagine è disgustosa. Ma proprio in quel momento, contro ogni calcolo, fa la sua scelta. Per un istante sveste i panni dell’egoista e capisce che quello che ha davanti a sé, più che un odioso imprevisto, può tramutarsi in una straordinaria opportunità di redenzione personale.
George Orwell – nom de plume di Eric Arthur Blair – noto in Italia per capolavori narrativi di contestazione politica come La fattoria degli animali (1945) e l’insuperato 1984 (1949), fu in vita uno strano ircocervo di socialista conservatore, quasi una creatura mitologica che vagava senza pace facendo la spola tra le sponde del progressismo e del tradizionale buon senso britannico. Trotzkista, volontario nelle file repubblicane durante la Guerra di Spagna, al contempo seppe cogliere, forse meglio e prima di chiunque altro, i gravi limiti del totalitarismo stalinista e la minaccia che avrebbe potuto costituire per l’Europa tutta. La falsificazione, la perdita della memoria storica indotta dai mezzi d’informazione, la corruzione del linguaggio e l’annullamento dell’identità individuale furono le bestie nere che tentò di contrastare in ogni modo, sia con la penna che con l’azione.
Così come il suo Gordon Comstock, protagonista di Fiorirà l’aspidistra (1936), anche Orwell era alla disperata ricerca di un’umanità autentica, di uno scacco esistenziale che potesse rompere l’ingranaggio di una vita che per lui era ribellione senza possibilità di successo. I personaggi dei suoi romanzi – anche e soprattutto dei “minori” – sono uomini che tentano in ogni modo di smarcarsi dalle logiche perverse del capitalismo e del dio denaro. Comstock, per esempio, rinuncia a tutto ciò che abbia anche solo il vago odore di rispettabilità, come il buon posto di lavoro, lo stipendio garantito e la famigliola felice, lo stesso odore che emana l’aspidistra, la pianta più diffusa in Inghilterra. La rivolta, però, ha un prezzo carissimo, ed è presto ridotto ad arrangiarsi alla meglio, trascinando la sua squallida esistenza in un abisso senza fine.
La notizia di un figlio in arrivo è un terremoto che spazza via in un sol colpo, con la forza del dolce pensiero della paternità, ogni convinzione pregressa. Gordon riscopre il gusto della diversità proprio nel momento in cui si rende conto che il suo destino è segnato, che diventerà come tutti gli altri, ma che, nel medesimo tempo, solo come marito e come padre potrà davvero fare la differenza,potrà tentare con fatica, giorno dopo giorno, di dare un senso a una realtà apparentemente gretta e meschina: «i piccolo-borghesi avevano le loro norme, i loro inviolabili punti d’onore. Si “mantenevano rispettabili” e poi erano vivi. Erano avvolti nell’involto della vita. Generavano figli, cosa che i santi e i salvatori di anime non hanno mai avuto il modo di fare».
Dopo essersi sposato e aver trovato un nuovo lavoro, mentre si gode la prima tazza di caffè in compagnia della moglie, nella loro nuova casa, Gordon desidera improvvisamente che sul tavolo compaia un’aspidistra, un ritorno a quella decency che è l’unico e vero rassicurante patrimonio di dignità che rimane all’uomo.

mercoledì 2 novembre 2016

Dan Brown: un ignorante che scrive di Dante

di Luciano Pranzetti

Pubblichiamo questa lettera che il Prof. Luciano Pranzetti ha inviato alDirettore di Riscossa Cristiana, per segnalare una particolarità di tanti “piedi-lavori” moderni che, illudendosi di poter danneggiare il Cattolicesimo, finiscono col rivelare la loro reale valenza: l'impotenza; figlia di quell'hybris superuomistica che naufraga inevitabilmente nel pantano dell'autoillusionismo, sguazzando tra cervellotiche invenzioni, inavvertite falsità, approssimazioni pseudo-culturali e frustrati autocompiacimenti: tutti indizi certi di menti e cuori votati al cieco servilismo nei confronti del “principe della menzogna”.
Il dramma è che queste presunte imprese disinformative volte a sviare dalla Verità, in questi ultimi due secoli, con un crescendo da caduta vertiginosa, hanno intaccato la lucidità mentale e la coscienza di tanti cattolici, aiutandoli ad allontanarsi dalla realtà.
C'è da notare, in particolare, che, come dice Daniele Abbiati nel suo articolo del 2013, citato nella Lettera, “il Prof. Pranzetti è un lettore pressoché onnivoro, ma si dà il caso (malaugurato per il suddetto Brown) che il suo piatto preferito sia proprio l'Alighieri. A patto che venga cucinato rigorosamente secondo la ricetta originale. Se si sgarra, son dolori.”
E infatti è suo il saggio in tre volumi: Dante. La Divina Commedia tra Sacra Scrittura, Patristica e Scolastica, da noi a suo tempo segnalato: qui e qui e di cui abbiamo riprodotto, sopra, la copertina del volume Inferno.

Caro Direttore:
uscito, ai primi di maggio del 2013, il romanzo “Inferno” di Dan Brown, ne lessi con attenzione ogni pagina avvertendo subito che l’autore aveva, more solito, rifilato ai lettori sòle, balle e falsità guarnite da seriosa autorità storica.
E non mi sbagliavo perché, ultimata la lettura, mi fu facile stilare un catalogo degli errori riferiti all’opera dantiana, catalogo che ti invio perché, dopo la bella analisi di Pucci Cipriani [pubblicata su Riscossa Cristiana] sull’evento del film e, soprattutto, sulla cifra massonica di evidenza astrale, tu possa, se credi opportuno pubblicarlo, dare ulteriormente prova della protervia menzognera con cui talune opere, come questo libro e il relativo film, osano disseminare nella mente e nella coscienza delle persone, a danno specialmente della santa Chiesa Cattolica, la cui Gerarchìa pavidamente – o connivente? - tace e, nella fattispecie, di Dante.
Ecco il testo che, qualche giorno dopo, 25 maggio 2013, Il Giornale, a firma Daniele Abbiati, pubblicò, sintetizzandolo, nella pagina culturale:
Dopo le sesquipedali cappellate, disinvoltamente prese col suo “Codice da Vinci” ed. Mondadori 2003 – rimasticatura di quella brodaglia esoterica da bancarella che è il “Santo Graal” ed. 1982, di Baigent-Leight-Lincoln, dopo le menzogne, le fantasime e le leggende fatte passare per storia, ora Dan Brown, il cocco della massoneria azzurra angloamericana, si produce in altro attacco alla Chiesa cattolica così come si legge nell’ultimo suo aborto, “Inferno”, ed. Mondadori 2013, dove, a sostegno dei propri labirintici vaneggiamenti, entra nella struttura letteraria dantiana.
E qui, il prode illuminato cade nella più fitta sequenza di smarronate che nemmeno uno studente di terza liceo.
Noi, attenti studiosi del maggior universale poeta-teologo, Dante Alighieri, abbiamo sottolineato, e trasmesso all’editrice, 16 errori ascrivibili alla saccenza e all’ ignoranza dell’autore affibbiandogli, perciò, uno zero in letteratura, storia e verità.
Siamo lieti di rendere pubblici, se la cortesìa di qualche rivista ci premierà, gli sfondoni del suddetto Dan perché taluni incauti lettori possano essere messi in guardia dal trangugiare il beverone e la poltiglia di bugìe e, soprattutto, possano valutare di cotale scrittore “già la lega e ‘l peso” (Par. XXIV, 85).
Ne diamo conto ordinato per pagine successive:
14 – I lussuriosi non si contorcono sotto la pioggia ma sono trasportati da “una bufera infernal che mai non resta” (Inf. V, 31). L’autore li confonde con i golosi;
44 – Il “David” non misura, in altezza, m. 5,20 bensì m. 4,10 (cfr.: Michelangelo scultore – I Classici
dell’Arte Rizzoli n. 68, 1973);
55 - Non furono gli uomini della Chiesa cattolica a chiedere la morte di Copernico, ma Lutero e 
Calvino;
78 - Quello di Botticelli sull’inferno non è “un quadro” ma una serie di disegni riportati a stampa da 
Niccolò di Lorenzo della Magna nel 1481;
79 - Nella decima fossa di Malebolge non c’è folla di peccatori sepolti nel terreno e confitti capovolti questi sono i simoniaci della terza bolgia – ma vi stanno i falsarî;
165 - La morte di Buondelmonte de’ Buondelmonti non dette origine alle lotte tra guelfi e ghibellini
ma tra le due fazioni guelfe distinte in Bianchi e Neri:
174 - È chiacchiera gratuita, offensiva e smentita dai più seri studiosi, che Michelangelo avesse per
amante Tommaso de’ Cavalieri;
179 - I teschi, come scrive Brown, non sono una costante nella Divina Commedia o nell’inferno. Ve ne appare uno solo – un cranio peraltro vivo – quello dell’arcivescovo Ruggieri, róso da Ugolino 
(XXXIII);
187 - Coloro che si mantennero “neutrali” – vale a dire, gli ignavi – non stanno “nei luoghi più caldi”
ma semplicemente fuori dell’Inferno (III), rifiutati da Dio e da Satana;
274 - Dante non saltò nella vasca del Battistero, ma ne ruppe le pareti a far defluire le acque onde
salvare un bambino – o uomo che sia – che vi stava affogando (XIX, 19/21);
283- Le anime degli invidiosi – cucite le palpebre col fil di ferro - non debbono “salire”, ma starsene
ferme, addossate une alle altre in accosto alla ripa rocciosa, in attesa di scontare il peccato (cornice
II);
284- L’angelo portiere del Purgatorio incide le 7 P soltanto a Dante che deve fare esperienza di tutte le balze e le anime purganti non debbono necessariamente passare o sostare per ciascuna. Stazio
(cornice V), scontato infatti il peccato di prodigalità, potrebbe salire subito al Paradiso ma preferisce accompagnare Dante e Virgilio (XXI);
288 - Le balze del Purgatorio non sono a spirale tale che si tratterebbe di una sola cornice, ma sono
gradoni raccordati tra loro da scalee intagliate nella roccia;
309 - La “Mappa” citata non è del Vasari ma di Botticelli,
347 - Nell’inferno dantiano non ci sono fiumi di pece ma solo un pantano, bollente e viscoso, sito nella V bolgia, ove sono a cuocere i barattieri;
425 - Enrico Dandolo, doge veneziano, espugnò la cittadella di Bisanzio il 17 luglio 1203 e non, come scrive Brown, nel 102;
425 - La prima chiesa di Santa Sofìa fu inaugurata nel 360 e distrutta, poi, completamente da un 
incendio. La seconda, eretta da Teodosio II nel 415, finì anch’essa preda di un rogo durante la
rivolta di Nika nel 532. Giustiniano, allora, fece erigere la terza, quella attuale di cui si parla nel
romanzo, inaugurata nel 537, affidandone il progetto e la direzione a Isidoro di Mileto e Antemio
da Tralle. Brown fa confusione attribuendo alla terza basilica l’età della prima. Il quale Brown,
nel descrivere la cisterna colonnata, in cui si svolge l’ultima azione del romanzo, potrebbe – mera 
ipotesi – aver saccheggiato Umberto Eco che, in “Baudolino” – ed. Bompiani 2000, pag. 26/32 –
descrive questa cisterna, che si estende sotto la basilica di Santa Sofìa, come “selva di colonne… 
di una foresta lacustre”, teatro di una complicata avventura.