sabato 30 dicembre 2017

Per il centenario della rivoluzione d'ottobre, alleanza cattolica racconta la storia del comunismo e dell'anticomunismo.

di Domenico Bonvegna

“Per non dimenticare che è esistita una ideologia e un movimento che hanno prodotto nella storia almeno cento milioni di morti e continuano a produrne dove sono al potere”, la rivista “Cristianità”, organo ufficiale Alleanza Cattolica, ha dedicato quasi totalmente l'ultimo numero (n.387, settembre-ottobre 2017) a temi che riguardano il comunismo in Russia e nel mondo.
Per Marco Invernizzi, che ha firmato il primo intervento (“Comunismo e anticomunismo nella storia della Rivoluzione”), la Rivoluzione d'Ottobre è iniziata il 7 novembre 1917. Il partito bolscevico subito incontra una forte resistenza, che nel 1918 darà corso a una guerra civile, “la più importante e cruenta del secolo XX”. Una guerra che verrà combattuta su un territorio, con “circa tre milioni di morti, che diventano undici se si tengono conto le carestie conseguenti: essa cambiò la vita di oltre mezzo miliardo di persone ridisegnando la geografia politica dell'Europa, dell'Estremo Oriente e dell'Asia Centrale”. Una storia poco studiata e poco raccontata per Invernizzi, che subito precisa:“il comunismo non è un'idea gentile che viene proposta ai popoli, ma una rivoluzione, cioè il tentativo di scardinare radicalmente, non di riformare, la società esistente e di creare un 'uomo nuovo', completamente altro rispetto al precedente. E di fare ciò con la violenza”.
La seconda precisazione è che la violenza comunista, genera una resistenza, una reazione anticomunista, dovuta a una necessità di sopravvivenza.
Il comunismo non nasce nel 1917 e neanche sul “treno piombato” che riporta in Russia i dirigenti del partito bolscevico. Il socialismo nasce molto tempo prima, come spiega Igor Rostislavovic Safarevic,“trova un ruolo nella Rivoluzione francese, dove annuncia che il futuro sarà comunista attraverso la Congiura degli uguali di Francois-Noel 'Gracchius' Babeuf, e dove si forma il primo rivoluzionario di professione italiano, Filippo Buonarroti”, e poi naturalmente con Karl Marx ed Friedrich Engels.
Invernizzi cerca di spiegare il “vero” anticomunismo: che non è quello delle motivazioni personali o quello ideologico. A questo punto fa riferimento al nazionalsocialismo tedesco e al fascismo italiano, “fenomeni che ancora comunemente si associano di preferenza all'anticomunismo”. Invece secondo Invernizzi,“sono concorrenti del comunismo perché perseguono anch'essi – con gradi diversi di malizia ideologica – una rivoluzione che vuol modificare quella stessa società che i comunisti vorrebbero abbattere”. .Tanto è vero che i comunisti sovietici e i nazionalsocialisti tedeschi furono alleati per due anni con il cosiddetto Patto Molotov-Ribbentrop.
“L'anticomunista che vorrei disegnare – scrive Invernizzi – è colui che reagisce a un'ingiustizia, che non riesce a sopportarla. Quando nelle scuole e nelle università italiane, dopo il 1968, tornò di moda il comunismo nella versione maoista e si scatenò quasi immediatamente la violenza intrinseca all'ideologia rossa, con l'esclusione degli anticomunisti da ogni agibilità politica e la minaccia della loro incolumità fisica, si capì abbastanza facilmente che dare del 'fascista' era un modo efficace per impedire la resistenza degli anticomunisti alla violenza che si stava instaurando come metodo. Così molti anticomunisti furono bollati come 'fascisti' senza che lo fossero”.
Invernizzi fa riferimento ad un anticomunismo quasi nobile, che doveva essere educato.“Bisognava far capire come il comunismo fosse la tappa di un processo e come fosse necessario spostare l'attenzione sul processo, anche perché la fase comunista della Rivoluzione in quel frangente era oggettivamente in difficoltà e stava concludendosi sotto il profilo ideale, anche se non ancora militarmente”.
Bisognava farlo capire ai tanti giovani che nel secondo dopoguerra avevano trovato in Italia, le forme espressive dell'anticomunismo in quei movimenti neofascisti e nella Chiesa cattolica. A questo proposito, Invernizzi cita il valoroso anticomunismo dei Comitati Civici di Luigi Gedda, che successivamente furono silenziati, dalla sinistra della DC e da una certa componente progressista all'interno del mondo cattolico. Infine i due partiti, la DC e il MSI, “entrambi dal carattere tecnicamente “fascistico”, ossia con diverse anime ideologiche e raggruppamenti al loro interno”.
Molti giovani preferirono“l'anticomunismo del MSI, più schietto e meno strumentale di quello democristiano”. E arriviamo agli anni 60, quando all'interno del mondo anticomunista comincia ad essere presente Alleanza Cattolica, nata attorno a giovani piacentini, guidati da Giovanni Cantoni. Chiaramente il gruppo cattolico non si occupò solo della “questione comunista”. “Il mondo occidentale allora era alla vigilia di una svolta culturale di proporzioni epocali, che avrebbero cambiato completamente il destino dell'Occidente ma anche della stessa Rivoluzione”. Si profilava la cosiddetta Rivoluzione culturale del 1968, che aveva come principale obiettivo“il mutamento dell'identità dell'uomo e dei suoi legami con Dio, con se stesso,, con gli altri uomini e con i beni materiali”. Sostanzialmente il 68 colpiva l'uomo nella sua interiorità.
Poi con la rivolta operaia di Solidarnocs in Polonia, la prospettiva “bolscevica” dovette battere in ritirata, grazie alla presidenza degli Stati Uniti di Ronald Wilson Reagan e soprattutto al grande magistero di san Giovanni Paolo II.
Peraltro la Chiesa aveva già intuito il clima culturale della rivoluzione antropologica del 68 con una Lettera dei vescovi italiani sul Laicismo, pubblicata nel 1960. I cristiani ignoravano i principi elementari della fede e proprio su questo punto intervenne il Concilio Vaticano II, avviando la nuova evangelizzazione del mondo occidentale con il discorso di apertura di san Giovanni XXIII, l'11 ottobre 1962.
“La Chiesa non aveva di fronte soltanto la questione comunista, - scrive Invernizzi – ma una radicale sfida culturale che minacciava la persona e i suoi fondamenti antropologici e sociali essenziali”.
Con il passare degli anni la maggioranza dei popoli occidentali hanno abbandonato la fede e quindi era importante, necessario “tornare ad annunciare Cristo a un mondo non più cristiano, nel quale i cristiani rimasti erano una minoranza che però stentava, e stenta ancora, ad assumere le caratteristiche missionarie tipiche delle minoranze”.
Tutto si è svolto in un ventennio (1968-1989). In Italia accanto alla rivoluzione antropologica, compresa quella sessuale, vi era quella del terrorismo comunista delle Brigate Rosse. Invernizzi fa riferimento a quelle minoranze di intellettuali cattoliche, compresi sacerdoti e vescovi, filo-modernisti e filo-comunisti, che sostennero il mantenimento della legge sul divorzio in occasione del referendum abrogativo del 1974.
E' importante ricostruire quel clima sociopolitico religioso di quel periodo per capire come si è mossa Alleanza Cattolica, che fece riferimento agli studi del pensatore brasiliano Plinio Correa de Oliveira e in particolare al suo saggio più importante, “Rivoluzione e Controrivoluzione”.
L'associazione cattolica, fondata da Giovanni Cantoni, cominciò ad operare su due fronti, quello dell'anticomunismo e quello della questione antropologica. Il primo fronte “era abbondantemente sguarnito, perché nella Dc era in corso un processo di spostamento a sinistra cominciato negli anni 1960 e culminato nella politica di 'compromesso storico', volta ad introdurre il Partito Comunista Italiano (PCI) nell'area di governo[...]mentre nella Chiesa era in corso una politica di 'dialogo' verso i Paesi comunisti, detta Ostpolitik vaticana, che mirava a dare maggiore protezione ai fedeli che vivevano oltre la Cortina di ferro[...]”. Su questa linea politica ancora si discute.
Poi arrivò il Papa venuto dal'Est, e ci fu il cambiamento sia ecclesiale che politico. “Papa Wojtyla cercò sempre di parlare ai popoli, invitandoli a scoprire le loro radici storiche e culturali e a non lasciarsi sopraffare da chi le voleva sradicare”. Gli anni 80 furono decisivi per la sconfitta del comunismo. Le vicende polacche, la sconfitta militare sovietica in Afghanistan, la presidenza Reagan negli Usa, e poi la glasnot e la perestrojka di Gorbacev, che in pratica cercavano di salvare il comunismo riformandolo in senso democratico. Alleanza Cattolica fu attenta a questi scenari politici, prese posizione pubblicamente con una serie di conferenze e di manifestazioni, dando voce in particolare alle resistenze anticomuniste “dimenticate” e appoggiando la Conferenza Internazionale delle Resistenze nei Paesi Occupati (CIRPO), fondata in Francia da Pierre Faillant de Villemarest.
Con la caduta del Muro di Berlino nel 1989, c'è il cambiamento epocale, anche se la Storia non è finita. Il cambiamento avviene anche nella politica italiana, il Pci di Occhetto è costretto a cambiare pelle, diventa PDS, una specie di partito socialista della Sinistra, assomigliando a un grande “partito radicale di massa”. Mentre la DC scompare, aggredita ed eliminata“in pochi anni da un attacco giudiziario chiamato Mani Pulite, partito dal Palazzo di Giustizia di Milano”. Stessa fine fa il partito socialista di Craxi.
Nel contempo l'ideologia marxista-leninista perdeva la capacità di seduzione in tutto l'Occidente e anche in Cina, dove si svolgeva proprio nel 1989 la rivolta dei giovani nella piazza Tienanmen, divenuta celebre per una foto che ritrae un giovane inerme che blocca la marcia di una fila di tank dell'esercito comunista cinese.
A questo punto Invernizzi si interroga: “fine del comunismo e dell'anticomunismo?”. Ogni cambiamento epocale, è sempre complesso. Certamente, occorre rivedere i presupposti dell'epoca della modernità, che é iniziata con il Rinascimento e con la Riforma protestante e poi continuata con l'epoca della Rivoluzione francese, e quindi con le successive ideologie, per giungere a una nuova stagione post-moderna, quella che stiamo vivendo e che Benedetto XVI, chiama la “dittatura del relativismo”. Un'epoca segnata dalla rivoluzione antropologica, il prof De Oliveira, la identifica come IV Rivoluzione, che attraverso le teorie del gender, mette in discussione l'identità sessuale della persona.
Pertanto in occasione del centenario della Rivoluzione sovietica e della successiva guerra civile, è indispensabile ripercorere quel periodo storico per comprendere quello che stiamo vivendo.“Perché la storia non conosce salti nel buio ma una continua metamorfosi, seppure segnata da passaggi epocali”.
Oggi siamo chiamati a una decisione personale importante, ognuno deve scegliere come rapportarsi con il mondo e con la storia. Sopratutto non dobbiamo perdere la speranza di costruire una società “a misura di uomo e secondo il piano di Dio”, come diceva san Giovanni Paolo II.
Per ricordare e non dimenticare i 100 milioni (ma per Eugenio Corti sono il doppio 200 milioni) di morti prodotti da un'ideologia sanguinaria come quella comunista, la casa editrice D'Ettoris di Crotone ha ripubblicato,“Il costo umano del comunismo”, Russia, Cina, Vietnam”, dello storico inglese Robert Conquest. La rivista “Cristianità”, ha intervistato Oscar Sanguinetti, che ha tradotto, curato e introdotto la nuova edizione.
Oggi nessuno può negare o “ignorare lo stretto legame fra comunismo- almeno quando è al potere – e crimini contro l'uomo e la donna”. Soltanto quelli che ancora sono accecati dall'ideologia, possono continuare ad avere nostalgia di queste idee assassine. Dalla Spagna al Nepal, ovunque vi è stato un movimento comunista, esso ha causato devastanti conflitti civili, con un numero indescrivibile di lutti e danni. Per Sanguinetti, il comunismo novecentesco , ha prodotto vittime in due momenti: quando cerca di conquistare il potere in uno Stato, e quando è al potere, attraverso una minoranza, cerca di “tradurre in realtà il suo progetto utopistico e anti-naturale di società aggredendo in maniera terroristica il corpo sociale”.
Attenzione Sanguinetti precisa, sulla questione del “terrorismo”, subito si pensa a quello islamista. Invece nel caso del totalitarismo comunista, il terrore, che mette bene in luce, Robert Conquest, è quello dello Stato.
Nell'intervista Sanguinetti ricorda l'opera meritevole di Aleksandr Solzenicyn e poi del Libro nero del comunismo, uscito in Francia nel 1997, una lodevole iniziativa ad opera di privati, cui manca ogni investitura pubblica e persino il “bollino blu” accademico. Ancora ricorda gli sforzi di studiosi indipendenti come Vladimir Kostantinovic Bukovskj, che ha pubblicato in Occidente migliaia di documenti di capitale importanza trafugati dagli archivi del KGB, i servizi segreti sovietici, durante la presidenza Eltsin. Ma anche Vasilij Nikitic Mitrokin, che ha passato migliaia di documenti sulle attività destabilizzanti svolte all'estero dai servizi segreti sovietici.
Tuttavia Sanguinetti, lamenta una mancanza di ricerca seria, infatti, sono pochi quelli che sono andati a cercare la documentazione più compromettente.
Il testo di Conquest è la traduzione di tre documenti statunitensi, peraltro negli anni 70, “sono stati per lungo tempo l'unico serio tentativo di contare le vittime del comunismo internazionale”. Sanguinetti precisa l'espressione “costo umano”, che non riguarda solo le vittime per le guerre, causati dalla rivoluzione, ma si intende un costo più allargato: un vero e proprio disegno d'ingegneria sociale, per “ripulire” intere regioni dai nemici e dagli oppositori: individui o intere classi di persone. Tra questi bisogna conteggiare tutti i condannati nell'”arcipelago GULag”, a costruire a mani nude canali a cinquanta gradi sotto zero[...]”. I condannati nei micidiali Laogai cinesi. I sepolti nelle foibe istriane o nelle fosse comuni come quelle di Katyn. La strage dell'Holodomor in Ucraina. Il comunismo è criminogeno per natura”, ed “ha come esito strutturale e fatale il classicidio e come cause primarie l'ateismo militante e il totalitarismo politico-sociale”.
Gli studi di Conquest purtroppo non hanno avuto nessun peso politico in quegli anni, in pochi lo hanno apprezzato in Italia, è stato pubblicato dal settimanale di destra liberal-nazionale il Borghese, fondato da Leopoldo Longanesi.
Ricordare è importante perché il comunismo e la morte sono stati stretti sodali per decenni e non hanno ancora 'divorziato' e, visto che il comunismo domina su quasi un miliardo e mezzo di nostri contemporanei, aiuta il nostro prossimo a tenerlo a mente”.
Vale anche per noi: “in Italia l'anti-comunismo non è morto. Non solo gli anti-comunisti ci sono ancora, ma ricordano tutto per filo e per segno”.
Sanguinetti ricorda “le montagne di cadaveri prodotte dall'”esperimento comunista”. Per questi morti ancora “nessuno, né grande, né piccolo, dei loro carnefici materiali o morali ha mai pagato in alcuna forma”.
“Gli anti-comunisti di oggi non credono affatto che il comunismo 'sia finito', ma ritengono che continui sotto altre spoglie”.
Infine la rivista riporta l'interessante convegno “1917-2017. Fatima, la Rivoluzione bolscevica e la conversione della Russia” del 14 ottobre scorso presso il Centro Francescano Culturale Artistico Rosetum di Milano, organizzato da Alleanza Cattolica e dal Centro ospitante.
Da segnalare gli interventi del professore Giovanni Codevilla, autore di “Storia della Russia e dei paesi limitrofi” (con un saggio di don Stefano caprio, 4 voll., Jaca Book, Milano 2016). E' intervenuto poi l'avvocato Mauro Ronco su “Il Novecento. Il secolo delle idee assassine”. Mentre don Stefano Caprio ha svolto la relazione su “La Russia oggi, tra conversione e nazionalismo”.

Ha concluso i lavori del convegno il reggente nazionale di Alleanza Cattolica, il dottor Marco Invernizzi, intervento su “La profezia di Fatima per la conversione del mondo”. Le apparizioni di Fatima sono un avvenimento importante che ha sempre accompagnato la vita dell'associazione. Invernizzi ci tiene a ricordare che il messaggio di Fatima non può essere assolutamente separato dal richiamo esplicito alla Russia e la diffusione del comunismo nel mondo, la persecuzione contro la Chiesa, ma anche la conversione della stessa Russia. Peraltro questa è l'interpretazione che dà il più grande mariologo italiano, il padre monfortano Stefano de Fiores.

lunedì 18 dicembre 2017

Gentile e la società trascendentale

di Lino Di Stefano

Metafisico di razza, come è a tutti noto – per la grande importanza dei problemi in seno alla filosofia attualistica – Giovanni Gentile (1875-1944) toccò, magistralmente, anche le questioni della deontologia e quelle riguardanti la pratica e la politica, inclusi gli argomenti dell’esistenza.
Per le quali egli dimostrò sempre una particolare sensibilità fino al punto di scrivere – nel saggio ‘Manzoni e Leopardi’ – che soltanto i valori, nella loro trascendenza, sono “in grado di farci capire la tremenda serietà della vita”.
Dopo i primi interessi per il marxismo, il filosofo siciliano raggiunse l’apice del suo sforzo speculativo con l’affascinante libro ‘Genesi e struttura della società’ (1946), ragion per cui si può affermare, senza dubbio, che l’opera di Gentile fu, è e resterà una vera ‘gigantomachìa’ intorno ai massimi problemi e, in particolare, intorno a quelli i quali rendono la vita degna di essere vissuta.
Se è vero, com’è vero, che essa deve essere intesa come un dovere e una missione, Gentile, con incrollabile coerenza, visse e morì metafisicamente per non smentire le parole che tante volte aveva scritte e cioè che l’uomo che impegna sé stesso deve essere tale “nella vita e nella morte”
La conferma che la vita e la morte sono, senza dubbio, una realtà metafisica è confermato da Hegel il quale paragonava, giustamente, la filosofia senza metafisica a un tempio senza santuario.
Ora, Gentile ha pensato, è vissuto ed è morto ‘more methaphysico’, con un coraggio ascrivibile solo a pochi martiri e questi martiri si chiamano Socrate, Bruno, e qualche altro pensatore che seppe combattere a favore delle proprie idee affinché esse trionfassero.
A proposito della morte, questa costituì, sempre una ragione dominante di meditazione per il filosofo il quale nel suo canto del cigno – costituito dall’opera ‘Genesi e struttura della società’ – si avvale di un capitolo in cui è scritto che “la immortalità dell’uomo vivo è quella dell’uomo che vive perché muore sempre a sé stesso: perché così vivendo, egli si muove nella eternità, si immortala”.
Non a caso, infatti, delineando, nel saggio citato, i princìpi basilari della cosiddetta ‘societas in interiore homine’, Giovanni Gentile faceva riferimento alla relazione dialettica ‘alter-ipse’ come elementi inscindibili della ‘sintesi a priori’ pratica.
Il nostro impegno consiste, di conseguenza, nella continua azione smaterializzatrice dell’’alter’, cioè, dell’’hostis’ che sta di fronte a noi mercé un processo dialettico proiettato in direzione di quella intesa spirituale che instaura la ‘società trascendentale’.
Gentile, quindi, durante la sua mortale esistenza, con il pensiero e con l’azione, postulò un messaggio di altissimo significato morale; la lezione del filosofo fu, ognora, limpida e cristallina perché egli morì degnamente dimostrando, col supremo sacrificio, che non esisteva nessuna differenza fra l’io empirico’ e l’Io trascendentale’,
Dopo la sua morte, si impone un riesame sereno della filosofia attualistica per il semplice motivo che, nel contesto dell’arido panorama della speculazione contemporanea, essa costituisce un preciso punto di riferimento visto – son parole del filosofo – non lascia “insoddisfatta nessuna reale esigenza dello spirito”.
da: www.riscossacristiana.it

venerdì 15 dicembre 2017

Seneca saepe noster: spunti di spiritualità senecana

di Francescoandrea Allegretti

E’ risaputo che Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65), retore e filosofo, massimo esponente dello stoicismo latino, fu un’anima (e un intelletto) pieno di inquietudine, sempre alla ricerca di quella autenticità dell’uomo che la Roma del tempo non riusciva a soddisfare. Questa sorta di “sana inquietudine” possiamo facilmente riscontrarla nei scuoi scritti e in particolar modo nei consigli rivolti all’amico Lucilio, in cui è viva l’intimazione a migliorarsi inseguendo le virtù che rendono l’uomo veramente tale. Dove ricercare dunque queste virtù? Dove rifugiarsi per scampare dal declino morale? E’ in questo contesto che Seneca dimostra una spiccata e profonda religiosità, il più delle volte messa da parte o addirittura taciuta, che rendono il filosofo di Cordova un personaggio affascinante come pochi agli occhi del cristianesimo:
«[…] Il dio ti è vicino, con te, è dentro di te. Secondo me, Lucilio, c’è in noi uno spirito sacro, che osserva e sorveglia le nostre azioni, buone e cattive; a seconda di come noi lo trattiamo, lui stesso ci tratta. Nessun uomo è virtuoso senza dio: oppure qualcuno può ergersi al di sopra della sorte senza il suo aiuto? Egli ci ispira principi nobili ed elevati. In ogni uomo virtuoso abita un dio (quale non si sa)» [1] .
L’inclinazione al pessimismo della filosofia stoica lascia qui spazio alla speranza e alla fiducia nel divino. Sebbene la concezione religiosa di Seneca sia plasmata sul modello pagano, le riflessioni da lui poste in essere trovano un chiaro riscontro nella concezione cristiana di Dio. Da tali parole non può che evincersi la profonda religiosità di Seneca e in particolar modo la convinzione secondo cui, partendo dal presupposto che dentro l’uomo risieda uno spirito sacro, venga sottolineato come nessuno è virtuoso senza dio e nessuno dunque può migliorarsi senza il suo ausilio. Secondo Seneca dunque, l’uomo è naturaliter religiosus e l’elemento spirituale è indispensabile per il pieno compimento dell’uomo stesso, delle sue virtù, della sua esistenza, del suo pensare e del suo agire.
«Se tu mi presti fede io ti rivelo i miei sentimenti più profondi: ebbene, di fronte a tutto ciò che mi si presenta avverso e doloroso, io sono giunto a formarmi questo stato d’animo, faccio atto non di obbedienza ma di consenso alla divinità, e la seguo per spontaneo atto di volere, non per la necessità» [2].
Quello che potremmo definire il “cammino spirituale” di Seneca, trova in quest’altro brano la massima espressione di contatto ed unione tra l’umano e il divino: è difficile infatti non notare la similitudine tra la pietas senecana del brano, con l’immagine cristiana dell’abbandono fiducioso a Dio ed alla Sua volontà.
Il pensiero del filosofo di Cordova dunque, non si discosta molto da quello cristiano: alcuni storici ipotizzarono anche – sebbene questa posizione sia stata ormai smentita – che egli fosse venuto a contatto diretto con il cristianesimo grazie al fratello governatore dell’Acaia, tappa dei viaggi di san Paolo (e da qui nacque il carteggio apocrifo tra i due). Alcuni apologisti considerarono Seneca un anticipatore del cristianesimo: tra di essi, Tertulliano ritenne che «Seneca è spesso della nostra opinione» [3]; altri invece, come sant’Agostino, trovarono nelle riflessioni senecane delle argomentazioni valide da usare contro il paganesimo (alcune parti del De superstizione ad esempio ci sono giunte in quanto citazioni dei Padri della Chiesa), sebbene il vescovo d’Ippona continuò a criticarlo poiché egli non si discostò mai dal culto pagano [4].
I punti in comune tra il pensiero cristiano e la filosofia stoica di Seneca sono dunque molteplici e grandi cose avrebbe potuto insegnare colui che forse sarebbe stato anche un buon cristiano. Scriveva Lattanzio (250-317), illustre retore e apologeta, che considerava Seneca “il più acuto tra gli stoici”: «Cosa potrebbe esprimere uno che conosca Dio, più veritieramente di quello che è stato detto da quest’uomo che non conosceva la vera religione? Egli avrebbe potuto essere un vero adoratore di Dio, se qualcuno gli avesse mostrato la strada» [5].


Note:
1 Epistolae ad Lucilium 41, 1-2.
2 Epistolae ad Lucilium 96, 2.
3 De anima XX, 1.
4 De Civitate Dei VI, 10; XX, 19.
5 Divinae Institutiones II, 8, 23; VI, 13, 24.
Bibliografia consigliata: A. Pantaleo Martina, Seneca e i cristiani, Vita e pensiero, 2001.

giovedì 14 dicembre 2017

Uno spettro si aggira per l'Italia: il rancore

di Domenico Bonvegna

Nell'ultima settimana i media italiani hanno scoperto che in Italia non si fanno più figli e che andando avanti così, il Paese-Italia è destinato a scomparire. Quindi bisogna trovare subito una soluzione, che poi è quello che la Chiesa da sempre ha raccomandato. Finalmente dopo decenni, lo hanno capito anche lorsignori, soltanto che ancora non si riesce a risalire alle vere cause che hanno condotto a questo disastro. La denatalità diffusa doveva essere la preoccupazione principale della politica, invece finora si è dormito a cuscini morbidi. A questo proposito c'è un bel intervento di Marco Invernizzi sul sito di Alleanza Cattolica che sintetizza le cause.“Oggi, pochi intellettuali e uomini politici credono ancora veramente nella centralità della famiglia - scrive Invernizzi - E così il declino demografico è andato inesorabilmente peggiorando di anno in anno, senza che venissero prese iniziative politiche ed economiche importanti a sostegno della natalità. In questo modo in Italia il tasso di natalità per ogni donna è l’1,27 quando il ricambio generazionale si raggiungerebbe a 2,1. Meglio di noi stanno facendo Paesi ben più laicisti, come la Francia e l’Europa Settentrionale”.(M. Invernizzi, Oltre l'inverno demografico, 1.12.17)
Certo la questione non è solo politica, è anche e forse soprattutto culturale. “Bisognerebbe infatti avere il coraggio di mettere in discussione la cultura dominante dal 1968 in poi, - scrive Invernizzi - che ha separato il sesso dalla trasmissione della vita, che concepisce la famiglia come la somma di individui singoli in competizione tra loro e non la capisce come comunione fra persone basata sull’amore oblativo, che disprezzando il principio d’autorità ha distrutto la figura del padre all’interno della famiglia”. (Ibidem)
L'altra scoperta dei media, ripresa dal Censis, è che gli italiani sono contrassegnati dal rancore sociale e questo naturalmente per i Media è un segnale negativo. Infatti sui giornali ripiegati sul governo, si scrive che gli italiani, nonostante l'economia ha ripreso, sono  “Incavolati neri e offesi, mortificati, incapaci di esprimere apertamente la propria rabbia ma anche di dimenticare e di perdonare, in una parola rancorosi. Pertanto, Altro che brava gente”. Gli italiani, sono “sfiduciati, impoveriti, impauriti, rancorosi, addirittura sono la bomba sociale pronta ad esplodere nel cuore di un'Europa”. Ma perché gli italiani sono rancorosi? I giornali di regime non lo dicono, non conviene, almeno non mi risulta che c'è stato qualche commento che risalga alle cause del malcontento.
A mio parere il rancore nasce dalla pesante situazione politica italiana. Da 5 anni ci  sono stati imposti governi non eletti da nessuno. C'è un'ondata di sfiducia che non perdona nessuno, Il Secolo d'Italia, del 1 dicembre scorso, fotografa bene la situazione:“’84% degli italiani non ha fiducia nei partiti politici, il 78% nel Governo, il 76% nel Parlamento, il 70% nelle istituzioni locali, Regioni e Comuni. Il 60% è insoddisfatto di come funziona la democrazia nel nostro Paese, il 64% è convinto che la voce del cittadino non conti nulla, il 75% giudica negativamente la fornitura dei servizi pubblici”.
I laureati fuggono dall'Italia.
Il 50% dei laureati si dice pronto ad essere assunto all'estero.“La retribuzione mensile netta di un laureato a un anno dalla laurea, infatti, stima il Censis rielaborando dati Istat, Almalaurea e Unioncamere, si aggira sui 1.124 euro mentre oltre confine l’assegno sale a 1.656 euro. Profonda invece la differenza tra la busta paga di un laureato magistrale che lavori in Italia o all’estero: i 1344 euro corrisposti per una assunzione nei confini nazionali si devono confrontare con i 2.200 euro corrisposti all’estero. Se si parla di ingegneri, poi, la differenza si fa pesante: 1.614 euro contro i 2.619 all’estero”.
La difficoltà economiche delle famiglie sono sempre più elevate, i prezzi al consumo aumentano, basta andare in qualsiasi supermercato, mentre gli stipendi sono fermi da 8 anni.
Le famiglie povere. “Sono oltre 1,6 milioni le famiglie che nel 2016 sono in condizioni di povertà assoluta, con un boom del +96,7% rispetto al periodo pre-crisi. Gli individui in povertà assoluta sono 4,7 milioni, con un incremento del 165% rispetto al 2007. Tali dinamiche incrementali hanno coinvolto tutte le aree geografiche, con un’intensità maggiore al Centro (+126%) e al Sud (+100%)”.
Inoltre c'è la questione sicurezza. Gli italiani si sentono meno protetti.

Peraltro per avere un quadro delle reali condizioni degli italiani, basta guardare ogni sera il programma di rete 4 (Mediaset), “Dalla vostra parte”, condotto da Maurizio Belpietro, direttore de La Verità. Altro che andare a Como e manifestare contro i fascismi, i problemi sono altri, cara sinistra in caduta libera. 

mercoledì 13 dicembre 2017

… eppure il cuore sembrava cieco. L’apatia dell’anima in un frammento di R. H. Benson

di Luca Fumagalli

In questo brano tratto da “Loneliness?” (1915), romanzo postumo di Robert Hugh Benson ancora inedito in Italia, la giovane Marion ritorna a Campden Hill presso l’amica Maggie, donna matura e devota cattolica. Con lei Merion si sente a sua agio e le confessa che da qualche tempo la propria fede è fredda e l’anima apatica. Meggie ipotizza che la ragazza sia semplicemente distratta dagli impegni lavorativi o magari da una persona speciale che ha incontrato. La protagonista, però, sa che il suo disagio ha origini più profonde, che l’abitudine e l’incontro col mondo la stanno rendendo sempre più impermeabile alla religione.
Quando se ne fu andato, Marion si sedette davanti alla stufa. Aveva appena fatto una nuova scoperta.
Sei mesi prima un invito come quello l’avrebbe entusiasmata. Ricordava la prima volta in cui, ancora studentessa, le fu chiesto di rispondere alla messa di uno strano prete che era venuto alla scuola, e la straordinaria sensazione che le aveva dato essere in un certo senso ministro presso l’altare di Dio. La scorsa primavera, ancora una volta, aveva risposto in due o tre occasioni come questa alla messa officiata da Padre Danny, e la dolce sensazione era ancora lì. Ma ora era scomparsa. Perché?
La sua religione era stata ardente e sincera, molto lontana dalla superficialità. I personaggi della sua fede erano stati reali come qualsiasi altro essere umano – sopra tutti la Suprema Divinità – così reali all’epoca da sembrare sempre presenti mentre altri non lo erano. Il tabernacolo era per lei la sala delle udienze del Re… Quelli erano tempi in cui anche la visione fugace di una chiesa cattolica in campagna, o della sua porta in una via di Londra, le causavano una febbrile emozione. L’immediata reazione quando le fu detto che la sua voce era un dono straordinario fu quella di decidere di cantare per la maggior gloria di Dio. Aveva avuto per un attimo il terrore, dal quale, in realtà, non si era ancora ripresa, che questo avrebbe potuto significare essere una suora e cantare in una cappella. E, deve essere ricordato assolutamente, questa devozione non era una devozione verso un sistema artistico o un’opera, o il mero risultato di un sodalizio o dell’insegnamento: esso aveva un Oggetto Personale definito nei confronti del quale provava quell’amore che può provare una creatura nei confronti del Creatore Incarnato. Frasi come «Lascia che mi baci con il bacio della Sua bocca…», «Come il melo tra gli alberi del bosco; così è il mio Amato tra i figli…», «La voce del mio amato bussa: apri, sorella mia, amore mio, pura di cuore» – frasi come queste, applicate e consacrate attraverso i secoli a indicare l’amore tra Cristo e l’anima, hanno espresso con realismo la passione che la religione svegliava in lei. Il dramma che la Chiesa cattolica mostra ai suoi figli durante periodi come il Natale e la Pasqua erano per lei molto più che un dramma. Il Bambino nella mangiatoia era il suo innamorato tornato nuovamente piccolo; con le figlie di Gerusalemme guardava lo stesso amante andare con il sangue e le ferite verso il Calvario: con le stesse figlie aspettava nella luce dell’alba vederLo tornare come un Gigante.
La religione allora, uno o due anni fa, era davvero la passione della sua vita. Appena aveva visto il cottage nel villaggio di standing aveva deciso che sarebbe stato suo, per il piccolo abside della chiesetta che confinava con il suo giardino posteriore; e aveva scelto la sua stanza al piano superiore spostando lì il letto, cosicché, fino a quando rimaneva lì, poteva osservare il luccichio della lampada del santuario che attestava la Sua Presenza. Non aveva detto nulla di tutto questo ad anima viva, a naturale eccezione del confessore: suo padre, lo sapeva bene, avrebbe scambiato la sua pietà per il puerile sentimentalismo di una ragazza.
E ora…!
Si alzò improvvisamente per recarsi presso la finestra nella stanza della musica. Là la luce brillava attraverso il crepuscolo – una strada ingioiellata attraverso la vetrata dell’abside. Ora però non le faceva alcun effetto. La sua volontà guardava ancora all’antica fede: non c’era il minimo ostacolo intellettuale tra lei e le sue apprensioni. Eppure il cuore sembrava cieco.
da: www.radiospada.org

martedì 12 dicembre 2017

Ma che musica Mestro

di Fabio Trevisan

In uno dei suoi ultimi album,“Snob”, del 2014, Paolo Conte criticava il modus vivendi ricercato e falsamente aristocratico: “Perché adesso tu parli così? Stai arrotando tutte le erre, forse tu pensi che tutto sembri più nobile, snob”. Allo snobismo vacuo egli preferiva l’ostentazione provocatoria, capace di far riflettere, seppur ambiguamente, di un dandy come ad esempio Oscar Wilde.
L’astigiano avvocato Paolo Conte, conscio del provincialismo italico (“Le mie canzoni rappresentano la peculiarità di tutta la cultura italiana, che ha una forte connotazione provinciale”) ha alternato brani popolari e irrisori di costume a rimandi esotici, di località, personaggi e lingue diverse. In una delle sue più conosciute canzoni, Bartali, Paolo Conte lasciava trasparire la fatica del vivere quotidiano: “Quanta strada nei miei sandali, quanta ne avrà fatta Bartali, quel naso triste come una salita, quegli occhi allegri da italiano in gita…”. Anche nella saga dedicata all’ “Uomo del Mocambo”, quel proprietario di un bar immaginario rifletteva la tristezza ed il grigiore di un uomo comune, specchio di quel malessere esistenziale tipico della contemporaneità, a cui Conte ha sempre cercato di fuggire, come asserito dalle sue testuali parole: “Un invito a distaccarsi dalla barbarie del quotidiano”. In un’altra sua celebre canzone, “Onda su onda”, resa famosa nell’interpretazione di Bruno Lauzi, Conte usava la metafora della nave per ripudiare il mondo da cui si doveva fuggire per approdare su un’isola deserta: “Che acqua gelida qua, nessuno più mi salverà. Son caduto dalla nave, son caduto mentre a bordo c’era il ballo. Onda su onda il mare mi porterà alla deriva, in balìa di una sorte bizzarra e cattiva. Mi sto allontanando ormai, la nave è una lucciola persa nel blu, mai più ritornerò…”. Anche nel pezzo “Un gelato al limon”, portato in tournée con successo negli stadi nel 1979 da De Gregori e Lucio Dalla, Paolo Conte denunciava il non sense di una vita amara, resa un po’ più dolce dal sapore effimero di un gelato: “Sprofondati in fondo a una città, mentre un’altra estate se ne va”.
La ricerca dell’esotismo, oltre a qualificarne il provincialismo dandy, permetteva così al cantautore e pianista piemontese di ammorbidire l’impatto con una realtà da cui fuggire, come espresso nella canzone Aguaplano: “Scendi, pilota, fammi vedere, scendi a bassa quota, che guardi meglio e possa raccontare cos’è che luccica sul grande mare…gira, pilota, recuperiamo il cielo ad alta quota, torna nel mondo dal bel colore baio…”. Per Conte l’esotismo era espresso con queste sue parole: “Il mio esotismo è un malessere che i francesi chiamano ailleurs, il senso dell’altrove, ed è una forma di pudore, in modo che certe storie della vita reale vengano trasferite in un teatro più lontano per attutire il senso della realtà”. Come indicato nel brano “Il quadrato e il cerchio”, in Paolo Conte si riflette una filosofia pessimistica e disillusa, “Il tempo è un cerchio che finisce là dove comincia”, a cui si cerca inutilmente di fuggire. Così anche l’appello all’andarsene, ripetuto nella canzone “Vieni via con me” rimane senza contenuti e reso ironico e triste da un improbabile “It’s wonderful”. Paolo Conte ha fatto riferimento pure alla vita circense, come rimarcato dalla sua stessa voce e dal pensiero che sottende alle sue canzoni: “Il tipo di applauso che io desidero è quello circense. Lavoro con lo spirito dell’acrobata che in equilibrio cammina sul filo teso”.
Nella deformazione della realtà e nell’obliquità del suo sguardo, manifestato anche dalla posizione ricurva sul pianoforte e da quella voce rauca e dimessa, Paolo Conte ha palesato quanto espresso nel titolo significativo (Una faccia in prestito) di un’altra sua canzone: “Con una faccia imprestata da un altro, che se ti fa comodo, d’altra parte vorresti la tua da offrire a quel pubblico, che ti guarda come a carnevale si guarda una maschera”. Nella celeberrima Genova per noi traspare ancora il triste e incomprensibile apparire del quotidiano e la mancanza di senso che rende la realtà ottusa e quasi impenetrabile: “Con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così che abbiamo noi prima di andare a Genova, che ben sicuri mai non siamo che quel posto dove andiamo non ci inghiotte e non torniamo più”.
da: www.riscossacristina.it

mercoledì 6 dicembre 2017

In memoria di Jurij Mal’cev

di Andrea Bartelloni

Nell’anno centenario della Rivoluzione d’Ottobre è morto, nella sua casa nelle prealpi bergamasche, uno dei più importanti studiosi del dissenso nell’Unione Sovietica: Juri Mal’cev. Nato nel 1932 a Rostov-na-Donu (Rostov sul Don) si laurea in filologia all’università di Leningrado e insegna lingua italiana all’università di Mosca traducendo in russo autori italiani tra i quali Moravia, E. De Filippo, Zavattini.
Il suo dissenso verso il regime comunista inizia nel 1967 fondando il «Gruppo di iniziativa» per i diritti dell’uomo che lo porta a sperimentare l’esperienza di essere, prima allontanato dall’università e poi internato in manicomio; nel 1974 riesce a lasciare l’Unione Sovietica. L’Italia lo accoglie e inizia a insegnare a Parma, Perugia e alla Cattolica di Milano testimoniando sempre la realtà del sistema sovietico.
Nel 1976 esce per i tipi de La Casa di Matriona di Milano, coraggiosa casa editrice che ha fondato assieme a Giovanni Codevilla e altri e diventa la voce del dissenso, L’«altra» letteratura (1957-1976). La letteratura del samizdat (dal russo “edito in proprio”) da Pasternak a Solzenicyn. Per la verità dagli anni sessanta il centro studi Russia Cristiana, fondata da un gruppo di sacerdoti tra i quali p. Romano Scalfi (1923-2016), porta in Italia le prime informazioni sul fenomeno russo, ma il volume di Mal’cev fa conoscere e cataloga questa realtà diffusa in Unione Sovietica: la letteratura del sottosuolo o la “seconda letteratura” (Andrej Sinjavskij) che si contrappone a quella ufficiale “nei suoi criteri artistici e nella forma come nelle sue posizioni filosofiche e nella sua visione del mondo”.
Il fenomeno samizdat “viene alla luce soltanto dopo la morte di Stalin e precisamente dopo il XX Congresso del PCUS”. Il Dottor Zivago (1957) “trascina dietro di sé un’intera valanga di letteratura sotterranea. Il fenomeno rapidamente si diffonde: (…) nel 1974, si potrebbe già mettere insieme con la produzione del samizdat un’intera biblioteca di grosse dimensioni”. Dattiloscritti che costavano l’arresto a chi li produceva, ma la catena non si interrompeva e le riviste continuavano ad uscire a getto continuo. Poi escono i romanzi, saggi, miscellanee e Mal’cev pubblica i nomi e i lavori di questi eroi della letteratura del sottosuolo che “riflette con grande precisione gli stati d’animo del popolo russo (…), e in ciò si distingue nettamente dalla letteratura ufficiale sovietica che è costruita per intero in ossequio alle convenzioni e ai modelli stereotipati e inanimi che il potere ha artificialmente imposto”.
Mal’cev lascia le tracce di questa letteratura iniziando da Il Dottor Zivago di Boris Pasternak definito “un evento storico”, “un ponte attraverso l’abisso del vuoto spirituale e del fatale inselvatichimento, tra la vecchia cultura russa e quella nuova, nascente e risorgente”. E poi ancora per più di trecento pagine ricche di storie e testimonianze. Ma il samizdat è anche la diffusione della letteratura proibita sia straniera che russa, da Orwell a Koestler, da Kafka a Camus e Musil, per ricordarne solo alcuni. E poi i russi Nabokov, Zamjatin, Cvetaeva fino a Osip Mandel’stam e Michail Bulgakov.
Mal’cev, da grande conoscitore della letteratura russa, entra anche nella descrizione dei lavori di scrittori meno noti che fa conoscere al pubblico italiano: fra tutti Andrej Platonov incompreso dalla critica occidentale che Mal’cev paragona a Gogol’.
Un capitolo del suo libro è dedicato alla satira in un paese dove si andava in carcere per una barzelletta e di barzellette ne scrive in abbondanza. C’è n’è una su Marx che cerca disperatamente di parlare ad una radio sovietica e, alla fine, gli viene concesso di dire una sola frase. E dice: «Proletari di tutto il mondo, perdonatemi!». O la vecchietta che trova sugli scaffali di un negozio la scritta “Il comunismo è agiatezza” e dice: «Pazienza! Abbiamo sopportato la fame, e bene o male sopporteremo anche l’agiatezza!». E così via soffermandosi e descrivendo numerose opere satiriche nelle quali comicità, sarcasmo “si mescolano alla mestizia e all’afflizione (…) e l’assurdo delle situazioni descritte è messo in rilievo dalle intonazioni e dalle espressioni grottesche”.
Mirabili le pagine che descrivono I Racconti di Kolima di Salamov, all’epoca conosciuti solo in parte, o le riflessioni di Grossman che descrivono “Lenin come un dittatore e un oppressore della libertà”.
Preziose infine le schede biografiche degli autori citati.
Mal’cev sapeva quello che scriveva perché lo aveva vissuto sulla sua pelle e lo regalava agli italiani perché non potessero dire di non conoscere la realtà, ma erano gli anni del compromesso storico e i nostri politici, ma soprattutto coloro che avevano in mano la cultura del nostro paese, erano impegnati in altro.
Comunque grazie Jurij Mal’cev

da: www.libertaepersona.org

Li chiamavano “Bensonians”: gli illustri (ed eccentrici) figli spirituali di mons. R. H. Benson

di Luca Fumagalli

Tra il 1904 e il 1909, dopo essere stato ordinato sacerdote a Roma, mons. Robert Hugh Benson (1871-1914) prese residenza a Cambridge. L’arcivescovo Bourne lo aveva esplicitamente invitato a concentrarsi sui suoi studi teologici e a lasciare che fosse mons. Arthur Barnes – anch’egli un convertito dall’anglicanesimo – a occuparsi della cura spirituale degli studenti universitari. Benson, in quanto figlio “apostata” dell’ex arcivescovo di Canterbury, era già all’epoca una celebrità. Tuttavia, negli anni seguenti, consolidò la propria posizione grazie alle straordinarie doti di predicatore e a romanzi apologetici, tra cui Il Padrone del mondo, che riscossero un grande successo.Mons. R. H. Benson (1907)
Il carisma di Benson finì naturalmente per attrarre diversi universitari che, stanchi della Chiesa ufficiale o di una vita dissipata, guardavano con favore a Roma. Poco alla volta andarono a formare un circolo ristretto di discepoli, quelli che Shane Leslie, uno di essi, definì “Bensonians”. Nella maggior parte dei casi si trattò di amanti della liturgia, di effeminati e di ruspanti profeti di utopiche riforme statali ed ecclesiastiche. Cercavano, se non un paradiso, almeno una nuova occasione su questa terra, affascinati dalle parole che Benson andava ripetendo a proposito dell’anticonformismo come sale della vita. Col tempo alcuni di questi exalté divennero persino piuttosto famosi.Baron Corvo (1907)
La quiete di Cambridge venne turbata irrimediabilmente nel 1905 dall’arrivo di un losco figuro, uno scrittore cattolico e omosessuale perennemente a corto di soldi. Frederick Rolfe (1860-1913), autoproclamatosi Baron Corvo, aveva pubblicato nel 1904 un romanzo fantastorico, Adriano VII, in cui si narrava la straordinaria ascesa al trono petrino di un Papa inglese, rivoluzionario e anti-socialista. Benson, tra i pochi che seppero apprezzare le complicate volute sintattiche e i florilegi lessicali del testo, scrisse all’autore una lettera d’elogio. Fu così che i due si conobbero e, in seguito, divennero inseparabili amici. Le successive visite di Rolfe a Cambridge – trascorse tra esperimenti di magia bianca, gare natatorie e il fumo delle immancabili sigarette – culminarono nel 1906 con la proposta, avanzata da Benson, di scrivere insieme un libro dedicato a San Thomas Becket. Una serie di incomprensioni, che andarono ad assommarsi all’indole paranoica di Corvo, decretarono il fallimento del progetto e, di conseguenza, la rottura dell’amicizia.
Anni dopo, nel suo romanzo veneziano Il desiderio e la ricerca del tutto, lo strambo barone si vendicò ritraendo Benson nei panni dell’ottuso pretuncolo Bobugo Bonsen. Quest’ultimo, da parte sua, creò il personaggio di Chris Dell, l’esteta protagonista di The Sentimentalists (1906), ispirandosi tanto a Rolfe quanto a Eustace Virgo, un altro dei “Bensonians” che venne presto ai ferri corti con Corvo.Vyvyan Holland (1904-05 ca.)
Virgo (1861-1937), pur non essendo uno studente, era spesso in visita presso la canonica di Cambridge. Il poco che si conosce sul suo conto lo si ricava dalla lettura del volume autobiografico Life at a Venture, pubblicato nel 1930 con il nom de plume di E. V. de Fontmell (Virgo era originario di Fontmell Magna, nel Dorset). Cattolico di nascita, ma propugnatore di uno strano sincretismo paganeggiante, ricoprì per qualche tempo l’incarico di precettore prima di diventare corrispondente da Roma e da Atene per il «New York World» e per il «Morning Post». Era tornato in Inghilterra con la speranza di entrare nell’ordine domenicano, ma dopo che la sua domanda venne respinta, si ritirò ad Oxford, trascorrendo gli ultimi anni di vita tra molte privazioni.Ronald Firbank (1905 e 1917)
Ronald Firbank (1886-1926), il “Bensonian” destinato a lasciare il segno più profondo nella storia della letteratura inglese, era invece il dandy par excellence. Quando arrivò a Cambridge, nel 1906, aveva già pubblicato un romanzo, ed ebbe molti amici – tra cui Vyvyan Holland (1886-1967), secondogenito di Oscar Wilde – che videro in lui un modello di novità ed eccezione. Viveva in un’assolata stanza al Trinity Hall, sempre piena di fiori freschi e di oggetti d’arte d’ogni sorta; addirittura un suo ritratto esotico era appeso a una delle pareti. Quando abbandonò l’università, nel 1909, non aveva sostenuto nemmeno un esame.
La stanza di Ronald Firbank al Trinity Hall (1907)
Grazie a Holland, Firbank conobbe Benson e con quest’ultimo prese l’abitudine di conversare quasi ogni giorno. Si discuteva con passione di vari argomenti, soprattutto arte e religione. Fu così che nel 1907 il ragazzo decise di convertirsi alla Chiesa di Roma. Al monsignore, come ringraziamento, regalò una copia con dedica dell’Imitazione di Cristo. Anche se nella maturità Firbank mantenne un atteggiamento piuttosto superficiale nei confronti della fede, l’estetica camp che anima le sue opere, costruite su un uso consapevole e sofisticato del kitsch, molto deve al retaggio cattolico (un esempio illuminante in tal senso è il romanzo Sulle eccentricità del Cardinal Pirelli del 1926).
Tra la metà del 1908 e la fine del 1909, John Stratford Collins (1882-1912), soprannominato Jack, fu ospite di mons. Barnes alla Llandaff House. Ragazzo per bene, anch’egli uno studente convertito di recente al cattolicesimo, svolgeva il ruolo di segretario e sacrestano, servando durante la messa, preparando i pasti e organizzando l’agenda degli appuntamenti. Fu forse il sostenitore più accanito di Benson con cui trascorreva ogni istante del proprio tempo libero. Pendeva letteralmente dalle sue labbra e conosceva a memoria molti dei sermoni del reverendo. Prima di morire tragicamente di polmonite, non ancora trentenne, tentò inutilmente e a più riprese di entrare in seminario.
Collins, al pari di Baron Corvo, Benson e di molti altre figure picaresche della Cambridge di inizio secolo, fa capolino sotto pseudonimo in The Cantab (1926), romanzo autobiografico di Shane Leslie, l’ultimo dei “Bensonians”. Amico di Jack e di Holland, Leslie (1885-1971) – il cui vero nome era John Randolph – era cugino di Winston Churchill e rampollo di una delle famiglie aristocratiche più ricche e rappresentative del protestantesimo irlandese. Membro del King’s College, in università approfondì la liturgia anglo-cattolica, la teologia bizantina e mostrò di condividere il socialismo cristiano teorizzato da Tolstoy (che conobbe personalmente durante un viaggio in Russia). Grazie all’incontro con Benson, sfidando l’ostilità della famiglia, nel 1908 si fece battezzare in una chiesa di Bayswater.
Dopo gli studi si dedicò alle più svariate attività: oltre a essere stato, per un certo periodo, direttore del «Dublin Review», fu politico, poeta, romanziere, saggista, docente universitario in America, bibliofilo e critico letterario. Divenne inoltre noto alle cronache mondane per le magnifiche feste che organizzava nella sua dimora londinese e per i pettegolezzi che circolavano sul suo conto a proposito di pruriginose relazioni extraconiugali. Nonostante la condotta non proprio impeccabile, si guadagnò la stima e la confidenza di diversi cardinali e fu sempre in prima linea nel combattere, a colpi di narrativa e di saggistica, le cattive idee dei protestanti e degli agnostici.Vyvyan Holland e Shane Leslie al matrimonio del primo, figlio di Oscar Wilde (1943)
Quella dei “Bensonians” fu, in definitiva, una piccola isola felice, una tribù di irregolari per certi versi simile al baronetto ribelle del romanzo di Benson None Other Gods (1911). Per quanto l’apporto del gruppo al cattolicesimo britannico rimase piuttosto marginale, concentrandosi prevalentemente in ambito letterario, la storia dei suoi membri testimonia uno dei primi e dei più fecondi esperimenti di “inclusione papista” in contesto universitario (solo di recente, infatti, l’abolizione delle leggi restrittive aveva permesso ai cattolici di frequentare gli atenei dell’Impero). Mons. Robert Hugh Benson, oltre ad aver consegnato ai posteri pregevoli scritti, ebbe dunque il merito di aver allevato una nidiata di “figli spirituali” che, per quanto scapestrati ed irregolari, furono comunque tra i germogli della rinascita cattolica inglese del XX secolo.

“Secondo lo stesso principio delle cattedrali”: il lavoro ben fatto, l’onore dell’Uomo e la Gloria di Dio

di Simone Gambini

Proponiamo un breve testo, rielaborato a partire dallo scritto di Charles Peguy sull’importanza di fare bene un lavoro, contro chi sostiene, come Ikea e simili, che la ricchezza si produca fornendo beni di consumo e di scarsa qualità, anziché far bene ciò che deve essere fatto bene, nei tempi previsti dalla natura e dalle Leggi di Dio, che sia durevole e bello nel tempo e per i secoli a venire.

Un tempo gli operai non erano servi.
Lavoravano.
Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore.
Un oggetto, un mobile, un edificio dovevano essere ben fatti.
Era naturale, era inteso. Era un primato.
Non occorreva che fossero ben fatti per il salario, o in modo proporzionale al salario.
Non dovevano essere ben fatti per il padrone,
né per gli intenditori, né per i clienti del padrone.
Dovevano essere ben fatti di per sé, in sé, nella loro stessa natura.
Una tradizione venuta, risalita dal profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che ogni cosa fosse ben fatta, anche per valorizzare i talenti che Dio ha donato ad ogni uomo.
E ogni parte di ogni cosa fosse ben fatta.
E ogni parte di ogni cosa che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano.
Secondo lo stesso principio delle cattedrali.
E sono solo io — io ormai così imbastardito — a farla adesso tanto lunga.
Per loro, in loro non c’era neppure l’ombra di una riflessione.
Il lavoro stava là. Si lavorava bene.
Non si trattava di essere visti o di non essere visti.
Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto per l’onore dell’Uomo e la Gloria di Dio.
Per gli uomini di ogni epoca, per gli uomini di ieri, di oggi e di domani.

Ma oggi, purtroppo, questa… é un’altra storia.

da: www.riscossacristiana.org