lunedì 19 febbraio 2018

Presentazione del volume di Cristina Battocletti, "Bobi Bazlen. L'ombra di Trieste", venerdì 23 Febbraio al Museo Internazionale delle Marionette di Palermo




Grazie a lettere, documenti mai visti e nuove testimonianze Cristina Battocletti compone un ritratto inedito del fondatore di Adelphi, Bobi Bazlen, partendo da Trieste, dove è nato nel 1902: la scoperta di Svevo, di Kafka e Musil, il carteggio inedito con Pier Antonio Quarantotti Gambini, i retroscena del legame reciso con il poeta Umberto Saba e la figlia Linuccia. L'ombra lunga di una città, che ha lasciato un segno indelebile nell’uomo che ha cambiato il volto della cultura europea del '900.
"Bobi Bazlen è un nome astruso, sconosciuto ai più, e pur con quel cognome poco italiano è stato uno degli uomini che maggiormente hanno influenzato la cultura del nostro paese nel dopoguerra. Sfuggente, misterioso, è rimasto un’icona nell’ombra” così inizia la ricognizione di una delle figure che hanno dato avvio al Novecento, fondatore assieme a Luciano Foà di Adelphi, consulente di Einaudi e delle più importanti case editrici italiane. 
Cristina Battocletti,  grazie all’accesso a centinaia di documenti inediti e privati, racconta come Bobi Bazlen (Trieste 1902 - Milano 1965) sia all’origine della scoperta di Italo Svevo e della pubblicazione di molta letteratura mitteleuropea fino ad allora sconosciuta, tra cui Franz Kafka e Robert Musil. Capace di leggere indifferentemente in tedesco, italiano, inglese e francese indovinava il valore dei libri in base al fatto che avessero “il suono giusto”. Affascinato da oroscopi e mappe astrologiche, aveva una cultura vastissima che si spingeva fino all’antropologia e all’arte primitiva. Di madre ebrea e padre cristiano evangelico, da adulto abbracciò il taoismo e le filosofie orientali. Imprendibile, misterioso, bizzarro anche nel vestiario, è rimasto sempre nell’ombra. Chi era dunque, Roberto, Bobi, Bazlen? Perché ha lasciato fantasmi irrisolti? Perché era amato da tanti, come la poetessa Amelia Rosselli, e avversato da altri, come il regista Pier Paolo Pasolini e lo scrittore Alberto Moravia? Una vita piena di passioni, amicizie profonde e frequentazioni di intellettuali come Elsa Morante, sofferenze, sullo sfondo della grande storia del Novecento. Dalle mattinate passate nella bottega di Umberto Saba al dialogo ininterrotto con Eugenio Montale, alle correzioni alle poesie del Nobel Eugenio Montale, all’avventura della psicoanalisi, con Edoardo Weiss e Ernst Bernhard, di cui fu uno dei primi pazienti. Questo libro racconta un Bazlen inedito, partendo da Trieste che lasciò a 32 anni senza farvi (forse) più ritorno. 
Cristina Battocletti, nata a Udine, è vice responsabile della “Domenica” del Sole 24 Ore. Critica cinematografica, ha pubblicato il suo primo testo, selezionato al Grinzane Cavour,  nei "Racconti del sabato sera" (Einaudi, 1995). Ha scritto a quattro mani la biografia di Boris Pahor, "Figlio di nessuno" (Rizzoli, 2012), Premio Manzoni come miglior romanzo storico. Nel 2015 ha pubblicato il romanzo "La mantella del diavolo" (Bompiani), che ha vinto il Premio Latisana per Il Nord Est ed è stato finalista ai Premi Bergamo, Rapallo e Asti.

domenica 18 febbraio 2018

Baron Corvo e la solitudine del granchio: un’introduzione a “Nicholas Crabbe”

di Luca Fumagalli

Nel 1908, partendo per Venezia, lo scrittore inglese Frederick Rolfe “Baron Corvo” (1860-1913) tralasciò di mettere in valigia la bozza di Nicholas Crabbe – sottotitolato The One and the Many – un romanzo che aveva scritto nei duri anni londinesi, tra il 1900 e il 1904, e su cui nessun editore aveva voluto scommettere. Ispirato alla vita dell’autore e giudicato diffamatorio per i palesi riferimenti a illustri personaggi dell’epoca, venne pubblicato solamente nel 1958 dalla Chatto & Windus, quando ormai non vi era più pericolo di ledere l’onorabilità di nessuno.
Il libro racconta la storia di Nicholas Crabbe, uno scrittore che, con qualche soldo in tasca, si lancia alla conquista della fama letteraria nella Londra dei primi anni del XX secolo. Le sue aspettative vengono però frustrate dall’incontro/scontro con un mondo viscido, fatto di promesse, pacche sulle spalle e puntuali delusioni: «Non c’è verità, onore o giustizia da nessuna parte nella Londra della letteratura». Gli editori Harland (Sydney Thorah), Lane (Slim Schelm), Richards (Doron Oldcastle) e Temple Scott (Church Welbeck) sono gli ideali antagonisti di un uomo in lotta per la sopravvivenza, costretto a dar fondo ai risparmi per non morire di fame. Una tenue speranza ritorna a illuminare le sue giornate quando Crabbe incontra il giovane Robert Fulgensius Kemp, uno spirito solitario e sofferente, che egli accoglie come coinquilino in casa sua. Scrivono insieme racconti e articoli, ma la loro collaborazione, iniziata sotto i migliori auspici, fallisce miseramente nel giro di poche settimane. Abbandonato dall’amico, che tradisce il proprio benefattore, Crabbe rimane, citando il cardinal Newman, «solo e nudo – tutto solo con La Solitudine».
Nicholas Crabbe, il romanzo del disappunto di un uomo, ripercorre con precisione diaristica i momenti più importanti vissuti da Rolfe tra il 1899 e il 1903. I nomi vengono alterati deliberatamente, non senza una punta di malizia, avvolgendo di compiaciuta allegoria le travagliate vicende legate alla pubblicazione di lavori come In His Own Image e Cronache di casa Borgia. Né mancano di comparire, tra gli altri, il pittore Trevor Haddon (The Painter), l’agente Stanhope Sprigge (Vere Perkins) e l’ex sodale Sholto Douglas, ispiratore di Kemp.
Il lavoro di rielaborazione del narratore, che nella finzione utilizza le carte lasciategli da Crabbe, un amico di Rose (protagonista di Adriano VII), è minimo, tanto che il racconto reca ancora nella sua impostazione tracce della sua derivazione da un racconto-diario-testimonianza». La trama acquista forma drammatica senza che venga alterato alcunché, non rendendo necessario intervenire su quelle parti evidentemente disarmoniche e sproporzionate (come il settimo capitolo, costituito interamente da una breve citazione di Carlyle). Inoltre non mancano lettere veramente scritte e inviate da Corvo a conoscentie collaboratori, riproposte nel libro in chiave fittizia.
Il nome del protagonista deriva da quello del nonno paterno di Rolfe, mentre il cognome dal suo segno astrologico, il Cancro. Crabbe è esso stesso metafora del granchio eremita: il carapace esterno, duro come il diamante, cela un interno tenero, facilmente urtabile. Sebbene Crabbe vanti diversi punti in comune con Baron Corvo e sia più autobiografico rispetto al Rose di Adriano VII, compresi talenti ed eccentricità, non può tuttavia essergli perfettamente sovrapposto. Negli altri romanzi in cui appare, The Weird of the Wanderer e Il desiderio e la ricerca del tutto, Crabbe muta ogni volta personalità, una distanza che va a sommarsi ad altri particolari come la quasi totale assenza in Nicholas Crabbe di riferimenti alla religione, una componente imprescindibile nella vita di Rolfe.
Per di più Crabbe è un debole, un anti-eroe maledettamente moderno, incapace di venire a patti con la propria inconsistenza. Il suo idealismo romantico, retaggio di un passato in cui la cavalleria contava ancora qualcosa, lo rende incapace di incontrare le esigenze di un mondo che è prono alla logica del profitto. Non sa cambiare, non sa adeguarsi alle circostanze; come il granchio è ancorato alle sue fragili convinzioni, disposto a soffrire stoicamente pur di non rinunciare a un immutabile se stesso. Il rifiuto di ogni azione e il mutismo sono manifestazioni esplicite di chi, al di là delle apparenze, avverte un senso di inferiorità e spera di trovare rifugio nella misantropia. Il bohemiendecadente perde ogni velleità titanica per trasformarsi nell’inetto della letteratura modernista: «Vivere, come faceva, interamente in se stesso e nel passato, gli dava una vetusta abitudine mentale. Di conseguenza le sue progressioni erano sempre laterali e in qualche modo lente».
In questo vortice distruttivo, che non risparmia niente e nessuno, anche l’ “amico divino”, l’incontro provvidenziale «che era musica per la mente e l’anima», si svela vile e crudele come quel mondo da cui aveva promesso di difendere il protagonista. Se Rose è lo spirito libero e trionfante che celebra in Adriano VII la sua vittoria, Crabbe è la carne martoriata e imprigionata che lamenta il fallimento totale. Il sogno paranoico di rivalsa si trasforma qui in un incubo di reiterata sconfitta, nelle agonie di uno scrittore che fallisce sia nella ricerca del successo che in quella dell’amicizia.
Pur volendo rappresentare un racconto, un rifiuto del sensazionale e del melodrammatico, talora un tentativo di umile autocritica – «Ti ricordi cosa disse una volta George Arthur Rose riguardo al mio sapere? Sa tutto quello che si deve sapere su un pugno di cose astruse e inutili, e niente di tutto il resto» – nel finale, in cui si sottintende un parallelo con la passione di Cristo, Nicholas Crabbe vi scivola irreparabilmente, perdendo di credibilità.
A risollevare le sorti del romanzo, meno compatto rispetto ad Adriano VII proprio per il suo tentativo di distaccarsi dalla favola del riscatto e del trionfo, rimangono le deformazioni dei personaggi, storpiati come i loro nomi, immersi in un’atmosfera proustiana e condannati a gesti vuoti e ripetitivi. Le pagine sono pervase da un’amara ironia che si associa, il più delle volte, a scelte linguistiche nonsense e all’impiego di mezzi espressivi alternativi quali, per esempio, l’uso del corsivo (che anticipa Firbank e Waugh).
Comparare il romanzo a New Grub Street di George Gissing o a testi che raccontano una storia simile con maggiore potenza sarebbe dunque un grave errore. Nulla toglie al fascino tutto rolfiano della storia, il canto del cigno di uno scrittore incompreso giunto ormai all’autunno della vita.

sabato 17 febbraio 2018

Il fascino di Thomas More secondo R. H. Benson

citazioni a cura di Luca Fumagalli

«E che cosa pensate voi della Holy Maid?»[1] chiese Ralph puntando risolutamente al nocciolo dell’inchiesta. Sir More s’arrestò, piegò un tantino il capo da un lato come un cane intelligente e guardò il suo compagno con occhi scintillanti.

«È un argomento delicato», disse, e riprese a passeggiare.

«Questo è ciò che mi rende perplesso», ribatté Ralph. «Non vorreste manifestarmi la vostra opinione, Sir More?» Ci fu di nuovo silenzio, mentre raggiungevano il limite estremo della galleria e si voltavano di nuovo.

«Se non mi aveste risposto con tanta vivacità e audacia a pranzo, Sir Torridon, non avrei potuto fare a meno di ritenere come sospetta questa vostra visita. Ma una testa così valente non può essere alleata di un cuore perverso, e vi dirò ciò che penso». Ralph provò una sensazione di trionfo, e nessuna di rimorso.

«Ve lo dirò», continuò More, «ma sono sicuro che manterrete il segreto. Io credo che sia una buona donna, soggiogata dalle proprie fantasticherie». A Ralph vennero di nuovo meno le forze. Questa risposta non era affatto compromettente.

«Non dico che sia una fattucchiera, come pensano taluni, ma, riferendomi a quello che abbiamo detto or ora, credo che abbia un occhio largo e luminoso senza una mano proporzionata. Essa ha molte visioni ma pochi fatti. Quella storia dell’ostia che le fu portata da Calais dagli angeli per me è una sciocchezza. Dio onnipotente non compie dei miracoli senza motivo e per questo non ne ha nessuno. Il Santissimo Sacramento è lo stesso a Dover come a Calais. E una donna che può sognare quello, può sognare qualsiasi cosa, poiché son sicuro che essa non lo ha inventato. Perciò anche in altre cose può sognare ed è per questo che vi ripeto che è meglio che non pensiate a lei nei riguardi di vostro fratello. Essa non è né una profetessa né una pitonessa». La risposta era quanto mai insoddisfacente e Ralph cercò di rimediare.

«E circa la morte del re, Sir More?»

Questi si arrestò di nuovo.

«Sentite, Sir Torridon, credo che sia meglio lasciare da parte questo argomento», disse un po’ seccato. Ralph, accorgendosi della propria temerità, ritirò il labbro inferiore mordendoselo fortemente.

«Spero che vostro fratello sarà molto felice», proseguì l’altro dopo un momento; «anzi, sono sicuro che lo sarà, se la chiamata viene da Dio, come propendo a credere. Anch’io, come sapete, sono stato per quattro anni in un chiostro e qualche volta mi pare che avrei dovuto rimanervi. È una vita beata. Io non invidio molta gente ma invidio costoro. Vivere con l’ininterrotta compagnia di nostro Signore e dei santi, conoscere i Suoi segreti – secreta Domini – anche i segreti della Sua passione e le ineffabili gioie che scaturiscono dal suo dolore, è una sorte fortunata, Sir Torridon. Talvolta penso che come è per il corpo naturale di Cristo, sia pure per il suo corpo mistico: che ci siano delle membra, le Sue mani, i Suoi piedi e il Suo fianco, in cui siano inflitti i chiodi, quantunque non ci sia una parte sana in tutto il corpo, inglorius erit inter viros aspectus eius, nos putavimus eum quasi leprosum[2], ma che quelle parti del Suo corpo che soffrono di più siano pel fatto stesso più onorate e più felici delle altre. Chi se non i monaci, possono essere quelle felici membra?»

Parlava con molta solennità, con voce leggermente tremula e i benevoli occhi rivolti in basso; Ralph lo osservava da un lato con una certa meraviglia mista a pietà. L’aspetto di Sir More era così naturale che Ralph credette di aver valutato troppo la propria temerità.