venerdì 4 novembre 2016

13 regole per educarsi all’«intelligenza»

di Emanuele Samek Lodovici

Dal volume curato da Gabriele De Anna, L’Origine e la Meta. Studi in memoria di Emanuele Samek Lodovici (Edizioni Ares, pp. 280, euro 16), pubblichiamo l’inedito dello stesso Samek Lodovici sulle regole per «educarsi all’intelligenza». Si tratta della trascrizione della registrazione dell’ultima conferenza pubblica di Emanuele Samek Lodovici, tenuta tre settimane prima dell’incidente stradale del 17 aprile 1981 in cui rimase coinvolto e che richiese un intervento chirurgico, svoltosi il 5 maggio 1981, durante il quale Samek morì. La trascrizione è integrata con aggiunte tratte dalla registrazione di un’altra conferenza, tenuta in precedenza da Samek, sullo stesso tema.
L’educazione all’Intelligenza è da lui intesa come educazione alla vita riuscita, piena e feconda. Una conferenza che, dunque, è quasi un testamento spirituale e che tocca talvolta, sia pur brevemente, anche il tema dell’altra dimensione (che Samek coltivò profondamente) della vita riuscita: quella religiosa. Le espressioni colloquiali e del parlato di questa sua conversazione (divulgativa e non accademica: lo si noti), sono state lasciate: anch’esse aiuteranno il lettore a comprendere lo stile brillante e insieme lo spessore sapienziale di questo grande uomo, prima ancora che grande pensatore.
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Mi sono detto: perché non indicare delle regole in grado di propiziare l’intelligenza? Tali regole, che possono essere ristrette o allargate a piacere, valgono sia per l’uomo sia per la donna, ma, a mio avviso, servono di più alle donne nella misura in cui esse sono purtroppo fruitrici di un’immagine che non le aiuta a interpretarsi come esseri intelligenti, come invece esse sono assolutamente: lo sono quanto gli uomini se non qualche volta di più.
C’è però un paradosso iniziale di cui voglio parlarvi: per apprezzare il valore delle regole dell’intelligenza (o regulae ad directionem intelligen-tiae, come direbbe Cartesio) bisogna essere intelligenti. Solo chi è intelligente dovrebbe essere in grado di capire perché l’intelligenza è importante e perché sarebbe molto importante educarsi a essere intelligenti.
Quali sono queste regole? Ecco le prime tredici.
1 La prima regola che ci possa permettere di cominciare a educarci all’intelligenza è sapere che l’intelligenza è un dovere, non è dunque facoltativa: dobbiamo essere intelligenti, ricordati che devi essere intelligente, che devi esercitare l’arte del sospetto, ricordati che non devi farti ingannare. Meglio un infelice intelligente che un uomo felice ma idiota, ingannato. Dunque un primo criterio è che l’educazione all’intelligenza è un nostro compito, un qualcosa che dobbiamo fare e che non possiamo demandare ad altri.
2 La seconda regola di questo educarci all’intelligenza è che ci educhiamo all’intelligenza quando capiamo che non è indifferente il linguaggio che usiamo: non è lo stesso usare il turpiloquio piuttosto che il non turpiloquio. Il turpiloquio non va rifiutato per delle ragioni che io ritengo moralistiche (le brutte parole), ma perché rappresenta il mondo attraverso pochi segni: gli organi sessuali sono pochi. Le possibilità semantiche degli stessi saranno venti o trenta, massimo venticinque. Ora, una persona, un giovane che ha a disposizione solo venticinque possibilità semantiche, vale a dire venticinque possibilità di conoscere il mondo, non potrà cogliere una cosa meravigliosa come il movimento di un gatto che salta da un mobile su una poltrona e graffia la poltrona, o semplicemente lo svariare di un colore durante un’aurora o un tramonto, o ancora l’enorme differenziazione psicologica della persona che abbiamo innanzi.
Se fossimo come degli entomologi e riuscissimo a studiare l’uomo come gli insetti e a farci battezzare dalla stupidità linguistica, ascoltando per esempio il colloquio dei ragazzi sui mezzi pubblici al rientro da scuola, ci renderemmo conto che il dramma non sta nella brutta parola, ma nel fatto che queste persone non parlano e chi non ha le parole non ha le cose, non ha mondo: se vogliamo strappare a una persona il mondo, basta strapparle le parole con cui capisce quel mondo. Le parole saranno sempre più impoverite di significato e crederà che il mondo corrisponda alla povertà di significato delle sue parole.
La perdita della nostra capacità di significare attraverso il nostro linguaggio nel mondo è una perdita del mondo. E un’educazione al’intelligenza comporta decisamente l’esclusione del turpiloquio inutile, il turpiloquio va usato quando è differenziato e personalizzato. Che sia detta effimeramente l’ingiuria quando c’è l’arte dell’ingiuria, ma che sia detta in quel momento e mai più. Una lancia a favore del turpiloquio può essere spezzata quando viene usato in media ogni venti giorni per avere la possibilità di lanciare un’ingiuria che è diversa da un’altra di venti giorni prima. Ritengo che in questo caso il turpiloquio possa essere usato, ma non deve essere usato come strumento per parlare, se vogliamo (come dobbiamo) avere dello stile.
Perché dobbiamo educare i nostri figli a non usare il turpiloquio? Perché se li educhiamo piuttosto a un linguaggio significativo moltiplichiamo il mondo: se non abbiamo linguaggio non abbiamo mondo. Questo è un fatto estremamente importante e non è un caso che in una strategia totalitaria si tenda a privare l’uomo del linguaggio e a fare in modo che l’uomo tenda a interpretare le parole al loro livello più basso. Per esempio, quando l’uomo parla di fortezza, si vuole far sì che egli la intenda solo come forza fisica e non come la capacità di resistere al dolore e alla sofferenza, e quando egli parla di sapienza si vuole far sì che essa venga intesa solo come erudizione e non come sapore dell’esistenza.
3 La terza regola fondamentale, legata intrinsecamente a quanto ho detto precedentemente (sapere che l’intelligenza è un dovere, sapere che il turpiloquio deve essere espunto perché non è significativo) è che ci si può educare all’intelligenza se sappiamo che dobbiamo avere uno stile. Questo punto dell’educazione all’intelligenza si capisce da sé quando viene detto delle donne. Esse infatti sono naturalmente portate ad avere uno stile. Drammaticamente, come dicevano i classici, «corruptio optimi pessima», anche perché attraverso la donna, come attraverso un collo di bottiglia, passano le generazioni future. Educazione allo stile vuol dire allora educazione del carattere: conoscersi per governarsi.
Non guardare ai frutti dell’azione, ma educarsi alla modalità dell’azione stessa e, poi, se ci saranno risultati, tanto meglio. Il risultato, che pur è importante, è irrilevante rispetto all’altra cosa più importante: il modo in cui arriviamo al risultato. Lo status che conseguiamo vivendo (ingegnere, avvocato ecc.) sarà comunque azzerato con la nostra uscita da questo mondo. Allora quello che rimane di noi è il modo in cui abbiamo vissuto. Che cosa vuol dire allora avere uno stile? La grande educazione cristiana esprimeva questo concetto con un’immagine molto bella: l’esistenza è un teatro dove è indifferente la parte che abbiamo (la parte del cameriere oppure la parte del principe), perché quello che è essenziale è come recitiamo la parte. Bisogna sapere, cosa fondamentale, che nella nostra vita non conta ciò che facciamo, ma come lo facciamo, conta se lo facciamo bene, se lo facciamo come Dio vuole che lo facciamo.
Plotino, autore a me molto caro, scrive in uno dei suoi meravigliosi trattati sulla Provvidenza che quello che conta non è il ruolo che stiamo recitando (docente, ingegnere, uomo, donna, bambino ecc.), ma come recitiamo quel ruolo. È assolutamente importante sapere che non valiamo in base a quello che raggiungiamo, ai risultati che otteniamo, ma in base a come otteniamo quei risultati. Questa è una cosa che ci rende molto meno nevrotici di fronte alla competitività perché quello che conta è come siamo. Allora ecco l’essenza profonda di questa regola dell’intelligenza: educarsi ad avere uno stile, una forma, un carattere, sapendo in fondo che questa vita è un gioco: in essa non conta tanto il risultato del gioco, ma come l’uomo gioca. Dal nostro punto di vista, dobbiamo passare dal giocar male al giocar bene, uscire da questa vita come giocatori migliori di quando vi siamo arrivati, imparare a giocare meglio.
Il controllo della fantasia & della volontà
4 La quarta regola utile per l’intelligenza è educarsi al controllo della fantasia. Per quanto possa apparire sorprendente, educazione alla fantasia, quale forma di educazione all’intelligenza, non vuol dire che non bisogna avere fantasia, perché, anzi, la fantasia incentiva la risoluzione di problemi di ogni natura. Educazione della fantasia significa il controllo della parte negativa della fantasia, cioè il fantasticare, l’uscire dal proprio ruolo e dalla propria vita, pensare che se fossimo in un altro posto sarebbe meglio che nel posto in cui siamo, che sarebbe meglio se fossimo in altra famiglia, scuola, ambiente di lavoro, eccetera. È importante sapere che è proprio nell’ambiente in cui sono che si gioca il mio destino, lì mi sto giocando la mia esistenza, lì devo acquisire un carattere.
Le riviste femminili spingono la donna a fantasticare in questo senso: a uscire da sé, a ritenere di non avere una natura e ritenere di poter essere tutto. È quello che ha espresso magnificamente Flaubert nel romanzo Madame Bovary. Madame Bovary è una disgraziata perché non sente la responsabilità dell’esistenza, responsabilità nel senso etimologico del termine: l’essere sposata alla realtà, non sente cioè la propria esistenza come un destino, non sente il fatto di avere un marito come qualcosa che le è destinato, bensì vuole evadere da questa realtà. La nostra infelicità non dipende dal fatto che il mondo non continua a darci cose meravigliose, ma dal fatto che in noi viene a mancare la capacità di apprezzarle.
Questa cosa un autore spirituale la chiama la «mistica del magari», che è una delle cose peggiori sul piano spirituale perché, nel momento in cui siamo tentati di pensare un’altra situazione per noi («ah, se fossi missionario in Africa, ah se fossi principe, se fossi uomo e non fossi donna, ecc.»), evitiamo di rispondere alle domande che ogni giorno la nostra vita ci pone. Tutti i giorni ci viene posto un compito, forse noi non accogliamo questa domanda, la domanda posta da un amico silenziosamente, quando senza dirci nulla ci chiede di aiutarlo. Con la «mistica del magari» noi non rispondiamo all’unica domanda importante che in quel giorno ci è stata rivolta. Non dobbiamo credere infatti che le domande ci vengano poste soltanto esplicitamente. La maggioranza delle cose che importano e che ci vengono chieste, non ci viene chiesta direttamente.
Allora, per crearsi uno stile, è assolutamente importante, a mio avviso, escludere il fantasticare, accettare la nostra esistenza come un destino, accettare le opere da compiere, le persone che amiamo, quelle che ci stanno intorno, perché a loro dobbiamo rendere la nostra esistenza. Il controllo della fantasia ci dà il senso della realtà che viviamo tutti i giorni, perché è andando contro l’ostacolo che divento grande, perché faccio lo sforzo di superarlo. E anche se non dovessi riuscire a superarlo, è assoluta-mente importante che io mi sia sforzato: per esempio, nello studio, se mi sono sforzato di capire, ho vinto lo stesso anche se non ho capito. Lo sforzo di capire, infatti, mi fa diventare enormemente intelligente: voglio assolutamente capire, voglio sapere e non voglio farmi ingannare.
5 Si capisce allora quella che io chiamo quinta regola: l’educazione alla volontà di verità, voler sapere come stanno le cose, non accontentarsi di qualche pagina di giornale, o dei rimasugli eruttati dall’ultimo mediocre, fare il possibile per capire, assolutamente non essere superficiali, capire la solo apparente superiorità della stupidità nei confronti dell’intelligenza. Come dice Aristotele, ciò che caratterizza la filosofia e l’uomo in quanto filosofo – e ogni uomo è filosofo – è la volontà di verità, voler sapere come stanno le cose.
Mi permetto allora di indicare le cinque regole che, secondo me, permettono di individuare «lo stupido». In primo luogo «lo stupido» ci infligge un danno senza esserne consapevole. La seconda regola è che lo stupido è più pericoloso del malvagio perché questi ogni tanto si riposa, mentre lo stupido è sempre in esercizio. La terza regola è che lo stupido non sa mai di essere stupido. La quarta regola è che l’essere stupido è indipendente dalla posizione che uno occupa e dalle sue proprietà: stupido può essere chiunque, dunque non supponiamo che certe caratteristiche esterne ci permettano di dire: «Quell’uomo senz’altro non è uno stupido». La quinta regola è che l’intelligente, grazie alla propria intelligenza, capisce perché lo stupido «fa carriera». Tra le cinque regole, le prime due sono quelle fondamentali.
La capacità di rettificare & di stare soli
6 Tornando alle regole dell’educazione all’intelligenza, la sesta regola comporta che si sappia che una delle sue regole fondamentali è la capacità di rettificarci: noi non siamo non intelligenti quando sbagliamo, ma siamo intelligenti quando rettifichiamo. Si educa un figlio all’intelligenza se lo si educa a rettificare, se gli si insegna che non è intelligente chi non sbaglia mai, ma chi sa rettificare. È meraviglioso se, per esempio come genitori, sappiamo dire ai nostri figli: «Guarda, io ho sbagliato, avevi ragione tu». In questo modo noi li educhiamo alla rettifica.
7 La settima regola dell’intelligenza è la regola della solitudine, non nel senso di fare l’individualista, ma capire che una delle cose fondamentali nella scoperta delle cose che mi interessano è avere dei momenti di solitudine, dei momenti in cui sono solo con me stesso. L’amicizia è fondamentale, riempie il cuore delle cose più belle, è bello stare in compagnia, ma le decisioni per l’esistenza le facciamo da soli. È importante anche stare soli perché è nella solitudine che si fanno le vere scoperte, quelle che facciamo soltanto noi e che nessuno ci riesce a far fare: qualcuno ci può indicare la direzione ma, per esempio, capire davvero che cosa vuol dire la grandezza d’animo, la non invidia, possiamo comprenderlo solo noi, quando abbiamo cominciato a praticarla e l’abbiamo sentita dentro di noi. Pascal dice che il problema dell’uomo è questo: che non riesce a stare da solo in una stanza. Dobbiamo far capire ai nostri figli che è essenziale anche stare da soli in una stanza, perché in questa si fanno più scoperte che insieme a tutti gli amici.
Autoironia, non far soffrire, supporre che intelligenti siano gli altri
8 Altra regola dell’intelligenza, l’ottava, è l’educazione all’autoironia: non prendersi troppo sul serio, sapere che stiamo giocando, che questa vita è un gioco. «Non essere così seri come un tedesco morto il giorno prima», come diceva Heine. È assolutamente importante avere una distanza da sé stessi, cominciare a non prendersi sul serio. Mi sono sempre piaciuti quei medici che non credono troppo nella medicina. O quei filosofi che sanno che, come diceva Pascal, l’unico modo per fare filosofia è prendersi gioco della filosofia; o quei professori di latino e di storia che si rendono conto che, oltre al latino e alla storia, infinite altre cose sono presenti nell’universo.
9 La nona regola, molto sottile, ma importante, è quella che ci dice di stare molto attenti alle sofferenze che possiamo infliggere agli altri senza saperlo. Un grande moralista del Seicento, La Rochefoucauld, diceva questa frase a me molto cara: «Non c’è uomo tanto intelligente da conoscere tutto il male che fa». Proviamo a rovesciare in positivo questa affermazione: solo l’uomo veramente intelligente dispiega tutti suoi sforzi per poter conoscere e prevedere tutto il male che fa. Provate per un attimo a pensare se quella tal parola a un amico o a un’amica, alla madre, al figlio, all’insegnante, ha una conseguenza che noi non sospettiamo in quel momento, ma che potrebbe avere.
Questo atteggiamento ci mette in confronto con gli altri attraverso la virtù più fantastica che è la carità: il fuoco della carità, il guardare gli altri tenendo conto delle conseguenze di ciò che si dice. Provate per un attimo a rispettare la personalità dei figli, a volere che siano come sono, a volere la loro personalità: nessuno è mai tanto intelligente da conoscere tutto il male che fa senza saperlo! Una regola davvero raffinata, che ci rende e può renderci estremamente delicati nel rapporto con gli altri. Certamente, se siamo dissipati sul piano della nostra attenzione, allora passiamo questa vita pensando che gli altri siano soltanto dei gradini per la nostra personale conquista. Attenzione dunque alle sofferenze che potremmo infliggere agli altri senza saperlo!
10 Un’altra regola importante, la decima, è quella regola che ci permette di capire che l’intelligenza da sola non basta. Un autore molto raffinato, scrittore di romanzi gialli, che in realtà non sono solo dei romanzi gialli bensì tendono sempre alla ricerca della verità, cioè Chesterton, in Ortodossia, formula questa regola per individuare l’intelligente stupido: «Il pazzo non è colui che ha perso la ragione, ma è colui che ha perso tutto, eccetto la ragione», cioè che ha perso tutta la necessaria dotazione di qualità umane, di virtù. Pensiamo allora a un soggetto che vuole essere soltanto intelligente e ha perso il senso dell’umanità, ha perso la cortesia, l’allegria, la capacità di stare con gli altri, che non è leale né semplice, che insomma ha perso tutto, tranne la ragione: costui è «l’intelligente stupido», colui cioè che non capisce che l’intelligenza da sola non basta.
11 La regola successiva, l’undicesima, è quella che ci permette di supporre che a essere intelligenti siano gli altri e non noi. Non è detto che di fronte a un problema io abbia la soluzione. Solo gli uomini intelligenti sanno trovare l’intelligenza negli altri e cominciamo a essere intelligenti quando ammiriamo l’intelligenza degli altri, e diventiamo veramente intelligenti quando non la invidiamo. È tipico delle persone meschine non godere del fatto che gli altri abbiano delle doti. Una regola del carattere, che era tipica del mondo medievale, era di coltivare questa magnanimità. Proviamo a pensare a coloro che costruivano le cattedrali, che le costruivano sapendo che la conclusione dell’opera sarebbe avvenuta dopo di loro e che il prestigio per averla costruita sarebbe andato ad altri, eppure avevano questa magnanimità: fare le cose senza vedere i frutti.
Spirito di meraviglia & contemplazione della morte
12 Una dodicesima regola richiede di educare sé stessi allo spirito di meraviglia, a non dare per scontato il mondo che abbiamo, ad apprezzare il mondo che abbiamo e tutto ciò che ogni giorno esso ci porta: dalle opere da compiere agli amici che abbiamo, al dolore, alla felicità, all’affetto. È l’educazione a tornare bambini, allo spirito di meraviglia che è tipico dei bambini, quello di chi entra nella stanza la mattina di Natale e vede nell’angelo di cartone un angelo vero. Non vuol dire che settantenni o ottantenni dobbiamo (per esempio) innamorarci della balia, non vuol dire questo; bensì significa tornare ad avere quello spirito di semplicità che è tipico dei bambini. Vuol dire meravigliarsi per il fatto che ci siamo ancora, perché domani un ictus cerebrale ci potrebbe portare via… Significa ringraziare per il fatto che ci siamo ed educare al ringraziamento.
Ciò comporta l’educazione ad avere un rapporto con la realtà che non sia artificiale. Bisogna cioè togliere di mezzo tutte le mediazioni artificiali di fronte alla realtà, abituarsi a vedere colori che non siano dipinti o riprodotti su pagina, e saper vedere (per esempio) il colore di un autunno e di un’estate, di un oggetto, di una foglia. Educare a sentire il suono del vento, di una campana, di un ruscello ecc. Vuol dire educazione della vista a vedere immagini che non siano filmate o fotografate: è tipico della atrofizzazione della nostra intelligenza il fatto che andiamo in vacanza a vedere immagini di cui abbiamo visto la diapositiva o la fotografia nell’agenzia di viaggio. Vuol dire che non siamo capaci di vedere immagini che non siano già state viste e quindi che siamo tendenzialmente portati alla regressione della vista, dell’udito, eccetera. Questo spirito di meraviglia da coltivare è quello tipico del bambino, che sa stupirsi uscendo di casa, guardando una sfumatura di un colore. Se noi proviamo per un attimo a pensare che questo teatro del mondo che noi stiamo recitando potrebbe, per quanto ci riguarda, essere sbaraccato da un momento all’altro, allora la meraviglia la proveremmo, ringrazieremmo certamente di più.
13 L’ultima regola dell’intelligenza, la tredicesima, dice che diventiamo intelligenti se ci esercitiamo a contemplare la morte, una delle cose che, più di tutte, può insegnarci a capire la vita che abbiamo e che stiamo vivendo.
Se al centro della nostra intelligenza ci fosse questa regola, cioè che esiste la fine, improvvisamente comprenderemmo quali sono le cose che contano e quali invece quelle che non contano, che sono risibili e stupide, che durano lo spazio di un mattino. La regola fondamentale è: abituati a pensare che c’è la fine e che questa non riguarda gli altri ma anche te, che anche tu hai questo destino ed è estremamente importante esserne consapevoli. La morte va vista con serenità, ma va saputo che essa c’è, che io ho un mutamento cellulare, che la mia esistenza va verso qualche cosa, che la mia intelligenza si disperde.

giovedì 3 novembre 2016

George Orwell e il fascino discreto della (piccola) borghesia

di Luca Fumagalli

Lo squattrinato poeta Gordon Comstock sta sfogliando alcuni manuali di ginecologia nella sala lettura di una libreria. La sua fidanzata, la buona e dolce Rosemary, gli ha appena annunciato di essere incinta. Sperando di trovare in quei polverosi volumi la risposta a ogni dubbio, incerto se tenere o meno il bambino, Gordon si imbatte nel disegno di un feto. L’immagine è disgustosa. Ma proprio in quel momento, contro ogni calcolo, fa la sua scelta. Per un istante sveste i panni dell’egoista e capisce che quello che ha davanti a sé, più che un odioso imprevisto, può tramutarsi in una straordinaria opportunità di redenzione personale.
George Orwell – nom de plume di Eric Arthur Blair – noto in Italia per capolavori narrativi di contestazione politica come La fattoria degli animali (1945) e l’insuperato 1984 (1949), fu in vita uno strano ircocervo di socialista conservatore, quasi una creatura mitologica che vagava senza pace facendo la spola tra le sponde del progressismo e del tradizionale buon senso britannico. Trotzkista, volontario nelle file repubblicane durante la Guerra di Spagna, al contempo seppe cogliere, forse meglio e prima di chiunque altro, i gravi limiti del totalitarismo stalinista e la minaccia che avrebbe potuto costituire per l’Europa tutta. La falsificazione, la perdita della memoria storica indotta dai mezzi d’informazione, la corruzione del linguaggio e l’annullamento dell’identità individuale furono le bestie nere che tentò di contrastare in ogni modo, sia con la penna che con l’azione.
Così come il suo Gordon Comstock, protagonista di Fiorirà l’aspidistra (1936), anche Orwell era alla disperata ricerca di un’umanità autentica, di uno scacco esistenziale che potesse rompere l’ingranaggio di una vita che per lui era ribellione senza possibilità di successo. I personaggi dei suoi romanzi – anche e soprattutto dei “minori” – sono uomini che tentano in ogni modo di smarcarsi dalle logiche perverse del capitalismo e del dio denaro. Comstock, per esempio, rinuncia a tutto ciò che abbia anche solo il vago odore di rispettabilità, come il buon posto di lavoro, lo stipendio garantito e la famigliola felice, lo stesso odore che emana l’aspidistra, la pianta più diffusa in Inghilterra. La rivolta, però, ha un prezzo carissimo, ed è presto ridotto ad arrangiarsi alla meglio, trascinando la sua squallida esistenza in un abisso senza fine.
La notizia di un figlio in arrivo è un terremoto che spazza via in un sol colpo, con la forza del dolce pensiero della paternità, ogni convinzione pregressa. Gordon riscopre il gusto della diversità proprio nel momento in cui si rende conto che il suo destino è segnato, che diventerà come tutti gli altri, ma che, nel medesimo tempo, solo come marito e come padre potrà davvero fare la differenza,potrà tentare con fatica, giorno dopo giorno, di dare un senso a una realtà apparentemente gretta e meschina: «i piccolo-borghesi avevano le loro norme, i loro inviolabili punti d’onore. Si “mantenevano rispettabili” e poi erano vivi. Erano avvolti nell’involto della vita. Generavano figli, cosa che i santi e i salvatori di anime non hanno mai avuto il modo di fare».
Dopo essersi sposato e aver trovato un nuovo lavoro, mentre si gode la prima tazza di caffè in compagnia della moglie, nella loro nuova casa, Gordon desidera improvvisamente che sul tavolo compaia un’aspidistra, un ritorno a quella decency che è l’unico e vero rassicurante patrimonio di dignità che rimane all’uomo.

mercoledì 2 novembre 2016

Dan Brown: un ignorante che scrive di Dante

di Luciano Pranzetti

Pubblichiamo questa lettera che il Prof. Luciano Pranzetti ha inviato alDirettore di Riscossa Cristiana, per segnalare una particolarità di tanti “piedi-lavori” moderni che, illudendosi di poter danneggiare il Cattolicesimo, finiscono col rivelare la loro reale valenza: l'impotenza; figlia di quell'hybris superuomistica che naufraga inevitabilmente nel pantano dell'autoillusionismo, sguazzando tra cervellotiche invenzioni, inavvertite falsità, approssimazioni pseudo-culturali e frustrati autocompiacimenti: tutti indizi certi di menti e cuori votati al cieco servilismo nei confronti del “principe della menzogna”.
Il dramma è che queste presunte imprese disinformative volte a sviare dalla Verità, in questi ultimi due secoli, con un crescendo da caduta vertiginosa, hanno intaccato la lucidità mentale e la coscienza di tanti cattolici, aiutandoli ad allontanarsi dalla realtà.
C'è da notare, in particolare, che, come dice Daniele Abbiati nel suo articolo del 2013, citato nella Lettera, “il Prof. Pranzetti è un lettore pressoché onnivoro, ma si dà il caso (malaugurato per il suddetto Brown) che il suo piatto preferito sia proprio l'Alighieri. A patto che venga cucinato rigorosamente secondo la ricetta originale. Se si sgarra, son dolori.”
E infatti è suo il saggio in tre volumi: Dante. La Divina Commedia tra Sacra Scrittura, Patristica e Scolastica, da noi a suo tempo segnalato: qui e qui e di cui abbiamo riprodotto, sopra, la copertina del volume Inferno.

Caro Direttore:
uscito, ai primi di maggio del 2013, il romanzo “Inferno” di Dan Brown, ne lessi con attenzione ogni pagina avvertendo subito che l’autore aveva, more solito, rifilato ai lettori sòle, balle e falsità guarnite da seriosa autorità storica.
E non mi sbagliavo perché, ultimata la lettura, mi fu facile stilare un catalogo degli errori riferiti all’opera dantiana, catalogo che ti invio perché, dopo la bella analisi di Pucci Cipriani [pubblicata su Riscossa Cristiana] sull’evento del film e, soprattutto, sulla cifra massonica di evidenza astrale, tu possa, se credi opportuno pubblicarlo, dare ulteriormente prova della protervia menzognera con cui talune opere, come questo libro e il relativo film, osano disseminare nella mente e nella coscienza delle persone, a danno specialmente della santa Chiesa Cattolica, la cui Gerarchìa pavidamente – o connivente? - tace e, nella fattispecie, di Dante.
Ecco il testo che, qualche giorno dopo, 25 maggio 2013, Il Giornale, a firma Daniele Abbiati, pubblicò, sintetizzandolo, nella pagina culturale:
Dopo le sesquipedali cappellate, disinvoltamente prese col suo “Codice da Vinci” ed. Mondadori 2003 – rimasticatura di quella brodaglia esoterica da bancarella che è il “Santo Graal” ed. 1982, di Baigent-Leight-Lincoln, dopo le menzogne, le fantasime e le leggende fatte passare per storia, ora Dan Brown, il cocco della massoneria azzurra angloamericana, si produce in altro attacco alla Chiesa cattolica così come si legge nell’ultimo suo aborto, “Inferno”, ed. Mondadori 2013, dove, a sostegno dei propri labirintici vaneggiamenti, entra nella struttura letteraria dantiana.
E qui, il prode illuminato cade nella più fitta sequenza di smarronate che nemmeno uno studente di terza liceo.
Noi, attenti studiosi del maggior universale poeta-teologo, Dante Alighieri, abbiamo sottolineato, e trasmesso all’editrice, 16 errori ascrivibili alla saccenza e all’ ignoranza dell’autore affibbiandogli, perciò, uno zero in letteratura, storia e verità.
Siamo lieti di rendere pubblici, se la cortesìa di qualche rivista ci premierà, gli sfondoni del suddetto Dan perché taluni incauti lettori possano essere messi in guardia dal trangugiare il beverone e la poltiglia di bugìe e, soprattutto, possano valutare di cotale scrittore “già la lega e ‘l peso” (Par. XXIV, 85).
Ne diamo conto ordinato per pagine successive:
14 – I lussuriosi non si contorcono sotto la pioggia ma sono trasportati da “una bufera infernal che mai non resta” (Inf. V, 31). L’autore li confonde con i golosi;
44 – Il “David” non misura, in altezza, m. 5,20 bensì m. 4,10 (cfr.: Michelangelo scultore – I Classici
dell’Arte Rizzoli n. 68, 1973);
55 - Non furono gli uomini della Chiesa cattolica a chiedere la morte di Copernico, ma Lutero e 
Calvino;
78 - Quello di Botticelli sull’inferno non è “un quadro” ma una serie di disegni riportati a stampa da 
Niccolò di Lorenzo della Magna nel 1481;
79 - Nella decima fossa di Malebolge non c’è folla di peccatori sepolti nel terreno e confitti capovolti questi sono i simoniaci della terza bolgia – ma vi stanno i falsarî;
165 - La morte di Buondelmonte de’ Buondelmonti non dette origine alle lotte tra guelfi e ghibellini
ma tra le due fazioni guelfe distinte in Bianchi e Neri:
174 - È chiacchiera gratuita, offensiva e smentita dai più seri studiosi, che Michelangelo avesse per
amante Tommaso de’ Cavalieri;
179 - I teschi, come scrive Brown, non sono una costante nella Divina Commedia o nell’inferno. Ve ne appare uno solo – un cranio peraltro vivo – quello dell’arcivescovo Ruggieri, róso da Ugolino 
(XXXIII);
187 - Coloro che si mantennero “neutrali” – vale a dire, gli ignavi – non stanno “nei luoghi più caldi”
ma semplicemente fuori dell’Inferno (III), rifiutati da Dio e da Satana;
274 - Dante non saltò nella vasca del Battistero, ma ne ruppe le pareti a far defluire le acque onde
salvare un bambino – o uomo che sia – che vi stava affogando (XIX, 19/21);
283- Le anime degli invidiosi – cucite le palpebre col fil di ferro - non debbono “salire”, ma starsene
ferme, addossate une alle altre in accosto alla ripa rocciosa, in attesa di scontare il peccato (cornice
II);
284- L’angelo portiere del Purgatorio incide le 7 P soltanto a Dante che deve fare esperienza di tutte le balze e le anime purganti non debbono necessariamente passare o sostare per ciascuna. Stazio
(cornice V), scontato infatti il peccato di prodigalità, potrebbe salire subito al Paradiso ma preferisce accompagnare Dante e Virgilio (XXI);
288 - Le balze del Purgatorio non sono a spirale tale che si tratterebbe di una sola cornice, ma sono
gradoni raccordati tra loro da scalee intagliate nella roccia;
309 - La “Mappa” citata non è del Vasari ma di Botticelli,
347 - Nell’inferno dantiano non ci sono fiumi di pece ma solo un pantano, bollente e viscoso, sito nella V bolgia, ove sono a cuocere i barattieri;
425 - Enrico Dandolo, doge veneziano, espugnò la cittadella di Bisanzio il 17 luglio 1203 e non, come scrive Brown, nel 102;
425 - La prima chiesa di Santa Sofìa fu inaugurata nel 360 e distrutta, poi, completamente da un 
incendio. La seconda, eretta da Teodosio II nel 415, finì anch’essa preda di un rogo durante la
rivolta di Nika nel 532. Giustiniano, allora, fece erigere la terza, quella attuale di cui si parla nel
romanzo, inaugurata nel 537, affidandone il progetto e la direzione a Isidoro di Mileto e Antemio
da Tralle. Brown fa confusione attribuendo alla terza basilica l’età della prima. Il quale Brown,
nel descrivere la cisterna colonnata, in cui si svolge l’ultima azione del romanzo, potrebbe – mera 
ipotesi – aver saccheggiato Umberto Eco che, in “Baudolino” – ed. Bompiani 2000, pag. 26/32 –
descrive questa cisterna, che si estende sotto la basilica di Santa Sofìa, come “selva di colonne… 
di una foresta lacustre”, teatro di una complicata avventura.

giovedì 13 ottobre 2016

Ripensare Darwin

di Francesco Agnoli

Ripensare Darwin? Così titola il mensile le Scienze del maggio 2015. Le Scienze è una rivista di divulgazione scientifica piuttosto schierata: dalla parte dello scientismo e dell’evoluzionismo materialista. Uno degli ultimi libri allegati, Il significato dell’esistenza umana, porta la firma di Edward Wilson, fondatore della sociobiologia e a suo tempo bersaglio di scienziati del calibro di Richard Lewontin e Stephen Jay Gould. Ovviamente si risolve nell’affermazione categorica secondo cui un vero fine dell’esistenza umana non esiste.
L’articolo in questione, Ripensare Darwin?, parte da una discussione comparsa sulla prestigiosissima rivista Nature, ed è affidato a Telmo Pievani, una sorta di Richard Dawkins nostrano
(nel suo Creazione senza Dio, per intenderci, afferma senza imbarazzo che nelle scuole cattoliche si insegnerebbe che la terra è piatta).
Fatte queste precisazioni, cogliamo ciò che c’è di interessante in questi “ripensamenti”. Nell’articolo citato si afferma che l’attuale “motivo del contendere riguarda l’eventuale necessità di rivedere o meno la teoria alla luce delle scoperte accumulatesi negli ultimi vent’anni”.
A che revisione del darwinismo siamo? All’ennesima. Difficile contarle tutte (infatti, in verità, si sta parlando della revisione del neo-darwinismo, che è a sua volta una revisione del darwinismo). Nell’evoluzionismo odierno sono spariti moltissimi dei concetti presenti in origine. Si pensi solo al fatto che quando Darwin scriveva, Mendel fondava, ignorato da tutti, Darwin compreso, la genetica.
Nel novembre 2014 sempre Le Scienze pubblicava un interessante dossier su La nostra storia. L’articolo introduttivo era così intitolato: “La saga dell’umanità. Riscrivere l’evoluzione. Un’ondata di nuove e sorprendenti scoperte sta costringendo a ripensare molto di ciò che credevamo di sapere sulla storia umana”.
In un altro articolo Benvenuti in famiglia, si poteva leggere: “Un tempo ricostruire l’evoluzione degli antenati di Homo sapiens era ritenuto relativamente semplice: Australopithecus generò H. erectus, che generò l’uomo di Neanderthal, che generò noi. Negli ultimi quarant’anni le scoperte fossili in Africa orientale e non solo, insieme ad altri fattori, hanno completamente demolito questa ipotesi….”.
Un altro articolo, intitolato Datemi un martello, comincia così: “Noi esseri umani siamo primati davvero speciali. Camminiamo eretti, tenendo i nostri pesanti corpi in equilibrio precario… Abbiamo teste straordinariamente espanse… Forse la cosa più notevole è che elaboriamo l’informazione intorno a noi in un modo che non ha precedenti. Per quanto ne sappiamo siamo i soli organismi che scompongono mentalmente l’ambiente circostante e le esperienze interne in un dizionario di simboli astratti, che poi manipoliamo nella mente per produrre nuove versioni della realtà…”.
Interessante, no? Ogni libro di storia di prima elementare spiega per filo e per segno cosa è accaduto tot milioni di anni fa. Abbiamo molti dubbi sulla storia di cinquant’anni orsono, ma quando si parla di un’epoca quasi infinitamente lontana, di cui ci restano zero documenti scritti, qualche residuo archeologico e paleontologico passibile spesso di interpretazioni del tutto contrastanti, allora tutto è chiarissimo e immodificabile, da decenni.
Ogni libro di scienza per la scuola dell’obbligo, ha, sulla natura dell’uomo, una risposta chiara, definitiva, semplice: “siamo solo scimmie evolute”. Questa sarebbe la parola definitiva della scienza; accanto ad essa, in evidente difficoltà, ci sarebbero la religione, la filosofia…
In molti, per anni, hanno sostenuto che non è così. Ora qualcuno, anche su un organo ideologicamente schierato, scrive che occorre “ripensare Darwin”; che bisogna “ripensare molto di ciò che credevamo di sapere sulla storia umana”; che noi uomini “elaboriamo l’informazione intorno a noi in un modo che non ha precedenti”…
Un atto di umiltà, dopo che a lungo si è fatto di Darwin un simbolo, più che uno scienziato, e del darwinismo, nella sua versione materialista, un’ideologia più che una teoria scientifica.
Si può approfittare di così notevole novità, per riproporre alcune considerazioni.
Vediamo anzitutto la storia. L’idea dell’evoluzione per selezione naturale, infatti, non ha solo un padre, Charles Darwin, ma due. Al suo fianco, infatti, c’era Sir Alfred R. Wallace (1823-1913), il cui nome compare in ogni libro di testo in cui si parli di evoluzione, ma dimenticando di dire che Wallace, come pure quasi tutti gli amici scienziati di Darwin, compresi quelli che come C. Lyell furono determinanti per lo sviluppo delle sue idee, concordavano con l’idea di evoluzione, ma considerandola qualcosa di guidato, di mirabilmente finalizzato, e quindi per nulla affatto escludente l’idea di un Dio Creatore e provvidenziale.
Quello che non piaceva, e continua a non piacere a personalità della scienza come lord Kelvin e innumerevoli altri, sino a non pochi biologi, genetisti, matematici e fisici odierni, è l’assolutizzazione della selezione naturale, trasformata in una forza cieca ma onnipotente; in una divinità, come gli atomi epicurei, capace, ma il come non è chiaro, di giustificare da sola ogni cosa (vita, varietà, passaggio dal semplice al complesso….). La realtà è che ad oggi la selezione naturale non è in grado da sola né di spiegare il passaggio dalla materia inorganica a quella vivente, né la varietà delle forme di vita, né la comparsa dell’uomo, con le sue caratteristiche “davvero speciali”…
Il secondo aspetto storico da ricordare è che solitamente si afferma che il darwinismo sarebbe stato osteggiato dalla Chiesa perché metteva in luce l’animalità dell’uomo, negata dai credenti. Ribadito che i primi avversari di alcune idee di Darwin furono i suoi colleghi scienziati, basta prendere in mano qualsiasi commento al Genesi, a partire dai primi secoli, per scoprire che anche qui la realtà è ben diversa.
Sant’Ambrogio, nel suo Esamerone (387 d.C.) afferma che il suo corpo dell’uomo è “terra”, “conforme all’aspetto delle bestie”, comune agli animali, benché con una sua particolare “bellezza ed eleganza”. E’ l’ anima razionale a fare dell’uomo una creatura “a immagine e somiglianza di Dio”. Nella visione cristiana l’uomo appartiene dunque al mondo animale, ma essendo dotato di spirito è anche qualcosa di più. Egli è dunque ponte, per Ambrogio, tra creato e Creatore.
Ora la domanda da farsi è questa: l’evoluzione, quale che sia la sua interpretazione più corretta, ha superato e “abolito” l’anima umana? L’unicità dell’uomo, rispetto agli altri animali, a cui pure è imparentato, è oggi definibile come una favola per bambini?
Ci torneremo, non prima di aver notato un altro aspetto, di rilevanza storica: la riduzione tout court dell’uomo ad un puro e semplice animale, generò l’opposizione non solo di molti scienziati, ma anche di chi vide in ciò la distruzione di un concetto basilare per la nascita della nostra civiltà, quello di dignità umana e di persona.
Sbagliarono coloro che avversarono la versione materialista del darwinismo? L’esistenza del darwinismo sociale, l’uso che di esso fu fatto per giustificare razzismo, eugenetica, colonialismo, nazismo ecc. dovrebbe dirci qualcosa e aiutarci anche qui, a “ripensare” almeno un po’ alcuni dei luoghi comuni dominanti. Capiremmo così che coloro che videro nella riduzione dell’uomo ad animale una pericolosa negazione della dignità e della specificità umana, non erano affatto nemici della scienza, ma avevano visto lontano.
Il razzismo ottocentesco e novecentesco, anche quello predicato da personalità molto vicine a Darwin come Francis Galton, Thomas Huxley ed Ernst Haeckel, pretese infatti di basarsi su una presunta verità scientifica: la totale animalità dell’uomo.
Un personaggio insospettabile di simpatie teiste e cristiane come il matematico Bertrand Russell, nella sua Storia della filosofia occidentale del 1945, parlando di Darwin metteva in luce sia l’opposizione di “molti biologi” a vari aspetti (non alla totalità) della sua teoria, sia il fatto che “un seguace dell’evoluzione sosterrebbe che non solo la dottrina dell’eguaglianza di tutti gli uomini, ma anche quella dei diritti dell’uomo, deve essere condannata come antibiologica, poiché fa una distinzione troppo netta tra gli uomini e gli animali”.
Era lo stesso Darwin, del resto, nel suo L’origine dell’uomo, cioè nella sua opera più criticata, a distinguere tra uomo bianco, superiore, e donna bianca, in tutto inferiore; tra bianchi, razza più evoluta e neri, razza meno evoluta. Mentre il suo mastino ed amico, Thomas Huxley, lungi dall’attribuire la differenza di sviluppo tra gli uomini alla cultura, alla religione, all’ambiente ecc., sentenziava in modo categorico: “…non è assolutamente credibile che, quando siano stati eliminati tutti i suoi svantaggi e ottenute le condizioni di parità senza più oppressori, il nostro prognato parente negro possa competere con il suo rivale dal cervello più grande e dalle mascelle meno pronunciate in una gara condotta sulla base dei pensieri anziché dei morsi. I gradi più alti di civiltà non saranno mai in alcun caso alla portata dei nostri cugini di pelle scura”.
Veniamo alle conclusioni, rispondendo anche, per quanto possibile, alle domande precedentemente abbozzate.
L’evoluzione dell’uomo da una forma animale inferiore è oggi un’ ipotesi molto accreditata, ma ancora piena di lacune. Sia perché non mancano coloro che riconoscono la micro-evoluzione, ma negano la possibilità della macro-evoluzione (cioè della trasformazione di una specie in un’altra), sia perché è la ricostruzione dei fatti storici evolutivi che hanno portato all’uomo che ci è ancora ben poco chiara.
Soprattutto risulta ancora oggi evidente che l’uomo è sì un animale, ma il linguaggio, il pensiero, la volontà umana, l’autocoscienza… -cioè quanto la filosofia ha sempre attribuito all’anima razionale che distingue l’animale-uomo dagli altri animali-, sono del tutto irriducibili alla fisica, alla biologia e alla genetica, oggi come un tempo.
La scienza non può e non potrà mai penetrare il regno dello spirito, per lo stesso motivo per cui un secchiello, per quanto capiente (il metodo sperimentale) non può contenere il mare (una realtà, quella spirituale, ontologicamente altra); né una rete per squali, catturare farfalle.
Ci viene in aiuto ancora una volta la rivista Le scienze, che sempre a maggio allega un libro di Michale Brooks, Oltre il limite, nel quale, per il tema che ci interessa, compaiono un aneddoto e un concetto interessanti. L’aneddoto: Brooks ricorda che Haeckel, “uno dei più noti esperti della nuova teoria dell’evoluzione di Darwin”, sosteneva di avere la prova che umani e primati “avrebbero potuto incrociarsi”.
Per questo appoggiò uno zoologo dilettante, tale Moens, nel suo folle tentativo di ingravidare una scimmia con sperma umano, al fine di dimostrare, qualora fosse nato “qualcosa”, la prossimità totale tra uomini e scimmie. In perfetto accordo con la sua concezione razzista, Haeckel aggiunse un consiglio: meglio “utilizzare lo sperma di un uomo africano”, perché più “adatto agli incroci con gli scimpanzé”.
Passando dagli aneddoti, alle riflessioni, Brooks nota che “è giusto e ovvio dire che la cultura umana è enormemente più ricca di quella di qualsiasi animale, e che influisce sul pianeta in modi che stiamo solo iniziando a immaginare; ma c’è una ragione per tutto ciò…”.
Quale la ragione? La specificità del linguaggio umano, qualcosa che “ha cambiato le regole stesse dell’evoluzione”, permettendoci di dominare la natura e di capire e fare infinite cose che agli animali sono del tutto precluse.
Ma da dove viene il linguaggio umano? Esiste una spiegazione selettiva che lo giustifichi? La risposta di Brooks è sincera: “non sappiamo esattamente come si sia formato”, perché “i primi passi verso il linguaggio umano sono un mistero”.
Ma tale affermazione è seguita, immancabilmente, dall’ideologia: “se siamo unici, lo dobbiamo a quell’evento casuale che è il linguaggio”. La frase varrà il diritto a vedere il proprio testo pubblicato da Le Scienze, ma non fa onore all’intelligenza di chi lo ha scritto: ammessa la specificità umana (“siamo unici”), riconosciuta in precedenza la nostra assoluta incapacità di capire l’origine di quella facoltà di parola che ci fa uomini (esattamente come nella visione biblica), si afferma lo stesso, categoricamente, di avere una spiegazione del “mistero” di cui sopra.
Quale? Il famosissimo Signor Caso! Indimostrabile, ma certamente all’origine della forza mirabile che ci fa “unici”!
Tornando all’esempio della rete per squali, che non può catturare farfalle, è chiaro che se la scienza sperimentale non potrà mai arrivare a definire e misurare l’anima razionale, essa, quando non è ostaggio dell’ideologia, riconosce che l’uomo ha delle caratteristiche peculiari che nessuna scimmia al mondo possiede, o è in grado di apprendere.
Caratteristiche che facevano sì che Pico della Mirandola, nel Quattrocento, definisse l’uomo come creatura non soltanto naturale, cioè con un posto e un’ attività completamente fissati dalle leggi della natura, ma anche spirituale, cioè in grado di decidere ciò che vuole essere. Così parla Dio, rivolto ad Adamo, nella “ricostruzione” di Pico: “Non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine”.
L’uomo non ha i peli delle scimmie, né le piume degli uccelli, né il nettare delle api, ma fabbrica i vestiti per contrastare ogni clima, vince la forza di gravità costruendo aeroplani, sconfigge le malattie inventando medicine: immerso nella natura, e pur essendo parte di essa, è ad essa evidentemente superiore. Persino quando decide di suicidarsi, o di dare la sua vita per un amico, per un estraneo, o per un ideale, contro l’istinto biologico e potente di sopravvivenza.
L’uomo muore, nel corpo, come gli altri animali, ma, unico tra di loro, seppellisce i suoi cari e può vivere guardando al cielo, agli alti ideali della Giustizia, della Generosità, dell’Amore. Mangia, beve e dorme, ma non sono le cose materiali a saziare del tutto il suo cuore e la sua mente, né a determinare sempre e tutti i suoi comportamenti e le sue scelte.
Uno dei padri della sintesi neodarwiniana, il biologo T. Dobzhansky (1900-1975), sosteneva che nella storia evolutiva esistono due forti discontinuità: dalla materia organica alla vita, dalla vita alla vita cosciente dell’uomo. Discontinuità significa che ciò che precede non giustifica interamente ciò che segue; che il poi non è semplice evoluzione lineare del prima. E riguardo all’unicità umana, affermava: “Mentre gli altri esseri viventi realizzano l’adattamento al loro ambiente modificando i propri geni, l’uomo ottiene questo risultato modificando in prevalenza, se non esclusivamente, l’ambiente in cui vive, per metterlo in armonia con i propri geni”.
Ma come la selezione naturale, da sola, avrebbe prodotto un essere capace di contrastarla? Come la natura, inconsapevole, muta, non libera perché determinata, può aver generato una creatura consapevole, parlante, capace di amare e di scegliere?
Le sue potenzialità, nota l’antropologo Fiorenzo Facchini in L’avventura uomo. Caso o progetto?, derivano all’uomo dalla sua progettualità e dal simbolismo, che “vanno oltre le strategie per la sussistenza”: “Espressioni particolari del simbolismo dell’uomo, slegate da funzioni biologiche, sono la religiosità, l’arte, la gratuità. Esse sono nelle possibilità dell’uomo e si trovano nella preistoria e nella storia”.
L’originalità dell’uomo, dunque, non è solo visibile oggi, come ai tempi di Ambrogio o di Pico. E’ visibile sin dall’inizio della sua storia. Come questa storia sia cominciata, forse un giorno lo capiremo meglio.
Senza mai poter ridurre l’uomo a ciò che, al massimo, può precederlo temporalmente (un corpo animale), ma non, interamente, giustificarlo ed esaurirlo.