martedì 5 febbraio 2013

Nino Agnello cantore della Vita in “Per sopravvivere al silenzio”


L’ultima opera di Nino Agnello –autore estremamente prolifico e di ormai consolidata posizione nel panorama letterario – pare una perfetta summa della sua produzione: Per sopravvivere al silenzio – questo il nome scelto dall’autore per la sua ultima creazione – porta davanti ai nostro occhi temi e percorsi, letterari e di vita al contempo, che hanno accompagnato lo scrittore agrigentino durante i suoi anni. Nel testo edito da Thule nel 2012 si vedono trascinati sulla scena quelli che dell’opera di Agnello sono stati i cavalli di battaglia, come l’amore per la classicità greca e latina, l’ideale greco della metriòtes, la capacità e la forza dell’intraprendenza, quest’ultima che riprende un romanzo molto riuscito dello stesso autore, La casa con gli archi, dove il protagonista sfida uomini e cose per raggiungere il suo scopo di aprire un grande negozio di alta moda.
Il libro in questione, Per sopravvivere al silenzio, appunto, è un continuo ricordo, un riportare alla mente fatti e persone che nella vita del protagonista-scrittore hanno avuto un peso sostanziale: ma, e qui sta la forza del testo, non si tratta di semplici aneddoti biografici che si racchiudono in se stessi e che dentro il piccolo cerchio del racconto si esauriscono, ma si tratta di esperienze di vita, semplici, quotidiane, comuni, in cui il lettore può leggervi le proprie. Il punto a cui certamente Agnello vuole tendere è far capire che un autore, anche se nella scrittura immerso in una realtà, forse, sublimata e astratta, per arrivare a quell’atto dello scrivere ha dovuto vivere momenti come quelli di ogni uomo, ha dovuto “sporcarsi le mani”, ha dovuto toccare con mano la vita.
Ora, perché questa presenza del silenzio (concetto chiave, a dire il vero, nell’opera di Nino Agnello) e perché sopravvivere ad esso? A questa domanda bene ci rispondono Tommaso Romano che cura la prefazione, e l’autore stesso nella premessa al suo libro. Leggiamo quanto proprio l’autore ha da dirci: «Come disseppellire i ricordi? Come far vivere con noi persone care e conosciute, scomparse e forse da tutti dimenticate? Con la scrittura, io potevo farlo solo con la scrittura. E così vennero di getto i brevi racconti, diciamo così, familiari, e poi quelli che chiamerei profili. Ricordi di una vita vissuta, comunque, fatti e persone che sono stati e sono ancora legati alla mia attività letteraria e più in generale al mio amore per la cultura, per la conoscenza e per i buoni rapporti umani». L’amore per la cultura è poi uno snodo essenziale, perché la vita di Nino Agnello è stata una “Vita per Omero”, per parafrasare una sua raccolta di racconti, una intera esistenza dedita allo studio e contrassegnata dalla fede per l’arte, un valore assoluto, purché non sia quella che «ubbidisce a esigenze di mercato, ma quella che mira a nobilitare l’uomo nella sua interezza e qualità interiori, quella che non dimentica il passato mentre che si proietta nel futuro. L’arte del bello e del buono come pensavano i greci antichi, dello spirito e delle virtù. L’arte dell’amore, tutto sommato».
Così, ogni parola, in quest’opera, diventa segno e un segno «è una parola vera che durerà nel tempo», scrive Tommaso Romano nella prefazione: la parola è manifestazione del profondo, continua ancora il direttore di Thule: molto vicino, in ciò, ad Ungaretti, autore che Nino Agnello ama visceralmente. Ogni parola è mistero e ad esso ci apre, è cerniera tra passato e presente e sbalza al futuro, quel futuro che in quanto probabile, eventuale, può generare angoscia, ma che è bello scoprire passo dopo passo, vivere con tutta l’umanità che si ha in corpo, con tutto il bagaglio di paure e trepidanti attese che la nostra natura ci ha dato in dote. Questo è stato il viaggio di Nino Agnello, un assaporare passo dopo passo, senza mai cedere all’inerzia, con forza ed intraprendenza e ogni ricordo, ogni parola sono segno vivo di un’esperienza che è di uno, ma che schiude al lettore l’universale bellezza della vita.

Giuseppe La Russa

sabato 2 febbraio 2013

La figura della Dea Madre nelle pagine di Evy Hàland

Da un incontro casuale, come posso confermare per mia esperienza diretta, nascono spesso buoni frutti. E’ questo il caso del libro di Maria Adele Anselmo La figura della Dea Madre nelle pagine di Evy Johanne Hǻland, pubblicato dalla Fondazione Thule Cultura con una pregevole prefazione di Tommaso Romano.
Come ci narra nel libro la stessa Autrice, l’incontro con la Dea Madre nasce da un suo generico interesse per la saggistica in lingua inglese, che la porta ad imbattersi in un saggio di una autrice norvegese a lei sino allora sconosciuta, Evy Johanne Hǻland appunto, la quale affronta questo affascinante tema sotto un profilo che a prima vista la cattura.
Di qui il desiderio di approfondire la tematica, un desiderio che spinge la Anselmo a documentarsi in una duplice direzione: da un lato leggendo testi fondamentali sulla Dea Madre che importanti studiosi hanno prodotto nella prospettiva loro offerta da discipline diverse; dall’altro, ricercando notizie sulla figura della studiosa norvegese con la quale, grazie agli approfondimenti compiuti nella materia, si pone in grado di interloquire direttamente.
Di questa impostazione “bifronte” è frutto il libro che ora esce in elegante veste editoriale, nel quale le notizie sulla Hǻland - dalla biografia al suo curriculum accademico e alla bibliografia, completate da un’intervista fattale dalla Anselmo ad Atene - si alternano ad una esposizione delle linee fondamentali caratterizzanti la figura della Dea qali emergono dagli studi citati, ben assimilati dall’Autrice come sinteticamente può rilevarsi sin dalla Introduzione. Le teorie esposte nel capitolo secondo sono quelle di Mircea Eliade, Marija Gimbutas e Ignazio E. Buttitta: una scelta volutamente limitata in considerazione dell’esistenza di una imponente letteratura dei più diversi Autori sulla materia, che costringe comunque ad una selezione: tuttavia quella operata dalla Anselmo non è casuale, ma mirata a costituire un percorso virtuoso che, attraverso le acquisizioni conseguite da questi studiosi, sfocia nella impostazione che la Hǻland ha costruito su tali fondamenta.
Un siffatto percorso non poteva che partire dal grande storico delle religioni Mircea Eliade e dalla sua idea dell’esperienza del sacro quale chiave di lettura per la comprensione dell’essenza dell’uomo, sia come individuo che come gruppo sociale: un’idea che presso le culture arcaiche costituisce il fondamento di ogni realtà e dell’ordine cosmico con il quale l’uomo è compenetrato. Questo senso del sacro vive attraverso la ripetizione rituale di teofanie, tra le quali prima e fondamentale è la maternità: da essa deriva la Madre Terra, percepita nei primordi come divinità onnicomprensiva e trasformatasi in seguito, con l’avvento delle culture agricole e delle loro ritualità agrarie, in Madre dei cereali. In questa nuova fase, Eliade mette in luce la relazione tra agricoltura e mondo dei morti, ossia tra i culti della fertilità e i culti funebri, in una concezione ciclica del tempo simboleggiata dal seme che muore nella terra per rinascere.
Lo sviluppo di queste idee trova una nuova ed originale interpretazione nell’opera della studiosa lituana Marija Gimbutas, secondo passo di questo itinerario, la quale mediante un approccio multidisciplinare fondativo della nuova disciplina dell’Archeomitologia, attraverso i reperti archeologici della vasta area da lei denominata Europa Antica ricostruisce e dimostra l’esistenza nel periodo preistorico, già a partire dal Paleolitico, del culto di una divinità femminile, espressione della terra feconda che si rinnova ma anche signora della morte. Tale pur preponderante ruolo femminile in una società che si evolve nelle forme agricole stanziali, non configura tuttavia un matriarcato come ipotizzato da Bachofen, ma si inquadra piuttosto in una società policentrica ed equilibrata, pacifica e senz’armi, nella quale permane il ruolo dell’uomo mentre l’importanza basilare della donna è strettamente correlata alla sua capacità generativa ed alla conoscenza dei misteri della procreazione che le viene attribuita. Nella foga di fornire la più ampia dimostrazione possibile delle sue accettabilissime tesi, la Gimbutas peraltro - e questa è una mia considerazione personale - cade in un “eccesso di prova” con una insistenza sulla fisiologia femminile che va “ultra petitum” e sembra riecheggiare gli slogan di un datato femminismo di maniera, proprio della sua epoca.
La terza tappa di questo viaggio nel quale siamo condotti dalla Anselmo è costituita dall’opera dell’antropologo siciliano Ignazio Buttitta, senza dubbio fondamentale per quanto riguarda l’espressione mediterranea di questi culti con particolare riguardo alla Sicilia. In Buttitta la fase precedente alla civilità agraria non viene in esame se non in modo incidentale: la sua attenzione è infatti focalizzata sulle feste agrarie siciliane, in un panorama sacrale tipicamente mediterraneo nel quale la Dea Madre si è già trasformata nella Madre delle messi, impersonandosi in Demetra il cui mito, legato in un binomio inscindibile con quello della figlia Kore rapita da Ade e divenuta col nome di Persefone regina del mondo dei morti, evidenzia l’aspetto ctonio ed infero della coppia divina madre-figlia, legato tuttavia indissolubilmente al ritorno alla sulla terra della giovane sposa, nella stagione della rinascita della natura. Lo studioso siciliano sottolinea l’importanza del calendario delle festività come chiave di lettura della loro funzione legata ai tempi agricoli ed evidenzia la consonanza di tempi e di modi tra le antiche feste pagane e quelle dedicate, nella nuova cultura cristiana, ai Santi ed in particolare alla Vergine Maria, la figura nella quale è sfociata quella della Dea Madre, perdendo tuttavia i caratteri di terribilità quale Signora della morte e conservando soltanto quelli benevoli.
L’approdo al quale ci conduce la Anselmo attraverso questo itinerario è il saggio della Hǻland del 2005 (ne traduco il titolo): L’anno rituale come la vita della donna: le festività del ciclio agricolo, passaggi del ciclo vitale delle Dee Madri e culto della fertilità,da lei riprodotto nell’originale testo inglese corredato da una sua traduzione.
L’accento è qui spostato esclusivamente sulla cerimonialità demetrico-agraria e sulla persistenza nelle feste odierne delle sue radici, sia pure riplasmate nell’orizzonte della religiosità mariana. Con un approccio di tipo antropologico comparativo, la studiosa norvegese compie un parallelismo tra la Grecia antica e quella moderna, tra le festività demetriche e quelle della Panagìa, specialmente sotto il comune denominatore del culto della fertilità, di natura prettamente femminile, e dei rituali di morte-rinascita. Ricostruisce le antiche festività pagane legate al ciclo agricolo, a partire dai Misteri Eleusini, evidenziando l’esistenza di feste riservate alle sole donne ed instaurando, poi, un parallelo con le numerosissime feste mariane del calendario liturgico ortodosso, la cui messa in relazione con i momenti cruciali del ciclo agricolo non appare tuttavia, a mio avviso, altrettanto convincente quanto quella delle feste pagane, data la maggiore sproporzione tra feste mariane e fasi della coltivazione che causa un eccessivo affollamento delle prime intorno a date non sempre abbastanza vicine a fasi dell’agricoltura o riportabili a momenti particolarmente significativi del relativo ciclo. Molto interessante è peraltro, a formare il quadro della continuità nell’ambito della cerimonialità agricola tra il mondo pagano e quello cristiano, il rilevato “slittamento” della figura della Dea Madre da Demetra ad Atena, che con la Panagìa ha in comune il carattere di Párthenos.
In conclusione, l’opera di Maria Adele Anselmo ha una impostazione composita ed originale, essendo un saggio non soltanto sulla Dea Madre, ma anche su Evy Johanne Hǻland, come peraltro risulta esplicitamente dal titolo. Lineare e significativo, nonché ricco di notizie e di spunti, risulta il percorso scelto per un approccio alla conoscenza della Dea, anche se programmaticamente mirato alla configurazione che ella assume nelle società agricole: resta pertanto ai margini, anche se in quei limiti ben svolto, il discorso relativo alla Dea nella preistoria, ma ci sembra ragionevole auspicare che l’Autrice, sviluppando l’interesse in lei casualmente originato dal saggio della Hǻland e che ha prodotto buoni frutti, possa farne oggetto di una futura più ampia trattazione.
                                                                                       Gianfranco Romagnoli

domenica 27 gennaio 2013

Recensione, Almanacco Thule 2013

   Tra le molteplici, lodevoli iniziative editoriali della Fondazione Thule, della quale è anima il suo fondatore Tommaso Romano, esce ora, nella prestigiosa collana periodica quadrimestrale Spiritualità e Letteratura, l’Almanacco Thule 2013.
   Il volumetto si segnala, già a prima vista, per l’eleganza della sua veste, conforme peraltro ad un’esigenza di qualità che le edizioni Thule hanno sempre sentito come coessenziale ai contenuti per aggiungere pregio ai propri libri, nella concezione del libro come prezioso prodotto finale.
   Sul piano delle motivazioni, risulta già particolarmente illuminante il nome della collana: “Spiritualità e Letteratura”, riportato in copertina come sottotitolo; indicazione la cui portata è ulteriormente chiarita nella pagina introduttiva, con la quale lo stesso curatore Tommaso Romano rivendica quella «libertà creativa … che la dittatura del sistema unico mondiale vorrebbe mortificare» per derubarci non solo dei nostri averi, ma «soprattutto del pensiero, della fantasia, della trascendenza». Contro un tale pericolo, occorre ritrovare il senso dell’essere, e a ciò può giovare «un piccolo Almanacco del tempo e dello spirito che trova nella parola e nel segno la liberazione possibile».
   Per quanto riguarda i contenuti, essi si rivelano, coerentemente alle premesse, di alta qualità. Concorrono  a formarli le firme di numerosi Autori,  i più già da molto ben noti nel panorama intellettuale palermitano (e non soltanto), altri  che vi si sono affacciati, in maniera promettente, da meno tempo. Si spazia dalle poesie ai racconti, da piccoli saggi a scritti di satira del costume e della società, accuratamente scelti e felicemente accostati dal curatore dell’opera.
   Concorrono degnamente ad arricchire il volumetto alcuni bei disegni, che non vanno considerati come complementi meramente ornamentali, ma come, anch’essi, espressioni dello spirito pienamente conformi, al pari delle prose e delle poesie, all’assunto ideale e programmatico della pubblicazione.
   In conclusione, non si può che elogiare questa iniziativa che, in un mondo inaridito dalla filosofia dell’avere, ripropone quella dell’essere attraverso il coinvolgimento di quanti, con il loro contributo intellettuale, rifiutando l’appiattimento imperante e danno motivi di speranza in un futuro migliore.
 Palermo, gennaio 2013
                                                                 Gianfranco Romagnoli

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Almanacco Thule 2013, a cura di Tommaso Romano
(Thule, Palermo)

lunedì 21 gennaio 2013

"La collezionista di guanti e altre storie" presentato sabato 19 gennaio 2013


Sabato 19 gennaio 2013, presso Il Grande Hotel Des Palmes a Palermo, è stato presentato il libro di Rosa Maria Ponte La collezionista di guanti e altre storie, edito  presso Sciascia editore. A presentare il volume sono stati Tommaso Romano e Caterina Ruta, oltre al poeta e marito dell’autrice, Carmelo Fucarino.
Ciò che è stato segnalato durante la serata corrisponde a quanto si può leggere nel quarto di copertina: «Il fascino di questi racconti sta nella strategia di rendere credibile l’inconsueto e di mantenere inconsueto strano quanto sembra venga reso credibile. L’atmosfera che si crea, certo nell’opera, ma poi nel lettore, è qualcosa di sospeso in una nuova realtà che ci prende attraverso percorsi e meccanismi investigativi, che cercano un’esplicazione di fatti non sempre razionalmente esplicabili. Atmosfera sospesa in una realtà frutto di immaginazione, a volte di sogno, altre di confuso dubbio. Lo spazio si allontana dunque, non è più quello che si crede. Combinato con un tempo che si interrompe, si arretra o balza in avanti, e non è più quello che si ritiene correre secondo l’orologio e il calendario. Tempo e spazio, che giocano brutti tiri a chi si affida a modi convenzionali e si confonde con quanto si fa sentire nell’intimo. Singolare scrittura ‘spezzata’, per segmenti e parti che si richiamano e a distanza si legano, scrittura che dà quei ritmi di vita poc’anzi prospettati, e li imprime sul piano compositivo, mettendo a impegnativa prova colui che entra in questo scenario».
Uno scenario, per dirla con le parole che ha utilizzato Tommaso Romano in sede di presentazione, che può trovarsi a metà tra letteratura e filosofia, perché innumerevoli, nel testo, sono i riferimenti filosofici, tra tutti, secondo lo studioso palermitano, il velo di Maya di Schopenhauer.
Una narrazione labirintica, che offre spunti e attese, che si muove su un piano diafano, che sa andare oltre le normali categorie di spazio e di tempo per offrire al lettore un testo di sicura attrattiva.

Giuseppe La Russa 

domenica 20 gennaio 2013

EVY JOHANNE HÅLAND E LA FIGURA DELLA DEA MADRE

Maria Adele Anselmo,

La figura della Dea Madre nelle pagine di Evy Johanne Håland,
Palermo, Fondazione Thule Cultura, 2011, pp. 156 (con tavv.), Euro 15,00, ISBN 978-88-97471-00-4.

          La Collana “Cristalli di Rutilo” della Fondazione Thule Cultura, diretta con polso e zelo dal prof. Tommaso Romano[1], si arricchisce di un terzo pregevole volume.
             La prof. Maria Adele Anselmo, anglista, ma Laureata a Palermo sotto la guida del prof. Ignazio E. Buttitta, insigne antropologo e ricercatore nel campo delle tradizioni culturali del Meridione, è giunta all’argomento Dea Madre partendo dai suoi interessi per la saggistica in lingua inglese. Si imbatté in vari contributi di una studiosa norvegese, Evy Johanne Håland, autrice di numerose pubblicazioni in norvegese, inglese ed altre lingue, e, poco per volta, rimase affascinata dal ‘mondo’, ricco di suggestioni, presentato, con partecipazione emotiva e garbo squisito, dalla ricercatrice nordica.
          Chi scrive, per formazione di studi ed interessi di ricerca, è molto lontano da codesto ‘mondo’, eppure il testo merita senza dubbio una recensione positiva, che evidenzi l’acribia e la sobrietà, nonché la personale e motivata partecipazione, della giovane ricercatrice.
             La Anselmo, con umiltà, prima di affrontare lo studio delle tematiche della Håland, ha avuto bisogno di investigare, preliminarmente, sugli studiosi ‘precursori’, e reinterpretare, con originalità, il loro pensiero.
           Prima tappa, d’obbligo, il più volte citato studioso delle religioni romeno Mircea Eliade (1907-1986). Per Eliade, la religiosità, vista nel suo percorso dall’antico al contemporaneo, è credibile e verificabile: le ierofanie sono manifestazioni della sacralità nella società. Le vaste ricerche condotte, ancora attuali, dimostrano che le ierofanie sono un ‘tipo’ di storia di rivelazione continua; la sua classificazione dei fenomeni divini non è schematico-settoriale, ma flessibile e tesa a dimostrare che i fenomeni stessi sono realmente apparizioni del sacro nel mondo, salvo che queste ‘classi’, mutando le condizioni della vita dell’umanità, sorgono, raggiungono il loro apogeo, declinano e vanno progressivamente (salvo eccezioni) a scomparire.
         L’originale metodo di Eliade porta alla scoperta, nella storia, di teofanie che, ciascuna seguendo la sua strada, conducono a dottrine elitarie, additano strade di perfezione e salvezza (es. Campi Elisi, Walhalla, Paradiso). Secondo alcuni, una tale investigazione, per quanto riguarda forma e struttura, assomiglia ad una paleontologia culturale, che scava nella storia rinvenendo frammenti sparsi presso i vari popoli. Eliade valuta le esperienze primordiali degli uomini circa l’arcano della creazione, nascita, iniziazione e morte, come estrinsecazione di una profonda simbiosi fra l’uomo e la natura, e, di conseguenza, fra il naturale e il soprannaturale, fra l’ordinario ed il sacro.
        In altre parole, l’uomo, ai suoi albori, comprendeva l’opera della divinità in forma di mito. In ogni stagione, ad ogni tappa, della sua storia, l’uomo può fare riferimento agli eventi primordiali. Eliade cerca di rintracciare l’ ‘atto puro’, iniziale, della divinità, che mostra il suo rapporto con l’uomo e la natura; tornare indietro nel tempo, a quando il tempo non esisteva. La presenza dello spirito divino fa rinascere a nuova vita.
         Il mito  è in posizione centrale, integrato nella storia: i suoi misteri, imperscrutabili, servono come strumenti di rivelazione. Le scienze psicologiche e sociali, sostanzialmente aliene rispetto alla sacralità, non possono, per Eliade, spiegare il significato dei fenomeni mitici, proprio a causa della sacralità insita in essi. La sacralità distingue il mito dalle saghe, leggende e favole.
            Seconda figura analizzata dalla Anselmo è quella dell’archeologa e linguista lituana Marija Gimbutas (1921-1994). Punto di partenza della Gimbutas è la ricostruzione del linguaggio proto-indo-europeo, da lei detto “delle genti Kurgan”, e il reperimento delle testimonianze archeologiche relative. Le società classiche dell’Europa storica sono state generate dalla simbiosi fra ‘sistema vetero-europeo’, basato sul matriarcato e la ginecocrazia, e ‘ sistema indo-europeo’, incentrato sul patriarcato e il dominio del maschio.
            La Gimbutas valutava le raffigurazioni del Paleolitico e del Neolitico come manifestazioni dello spirito tese a rappresentare una unica grande Divinità Universale, da un lato, e, dall’altro, distinte varietà di figure femminili: la dea dei serpenti, la dea degli uccelli, la dea degli animali. Tutte manifestazioni  della Dea, diversificate fra loro, ma riconducibili  ad un’Unità sacrale.
          Terzo fra i maestri, ma maestro relatore, Ignazio E. Buttitta (1964), antropologo e studioso delle tradizioni del Meridione, professore della Università di Palermo.
          Tematica principale dei suoi interessi di ricercatore le feste agrarie siciliane, incentrate sulla Dea Madre in quanto Dea  Madre delle messi. Demetra, e sua figlia Kore, rapita da  Ade e condotta nel mondo degli Inferi, di cui diviene regina col nome di Persefone. Con la rinascita della natura, nel suo rigoglio ubertoso, la coppia madre-figlia si ricompone. Altro tèma privilegiato: la consonanza cronologica e fattuale fra antiche feste pagane e nuove feste, causata dalla successiva cristianizzazione. In particolare, per Buttitta, la Dea Madre è soppiantata dalla Madonna, con  la quale si perdono i caratteri negativi antichi  del mito (rapimento di Kore e sua discesa agli Inferi), per conservare solo quelli positivi.
            Con p. 71 la Anselmo introduce il testo della Håland: The Ritual Year as a Woman’s Life: the Festivals of the Agricultural Cycle, Life-Cycle Passages of Mother Goddess and Fertility-Cult (2005). Dopo una stringata introduzione, viene riprodotto il testo originale (pp. 74-90), con la bibliografia (pp. 91-96). Segue la fedele traduzione italiana (pp. 97-114).
         Il saggio è illuminante per comprendere il pensiero della Håland. Nell’antichità  esistevano celebrazioni della Dea Madre in concomitanza con fasi determinanti dell’anno agricolo. La Terra era paragonata al corpo della donna e l’anno agricolo equivaleva alle stagioni del corpo della donna, nelle sue fasi.
       Anzi, la Terra stessa era a tutti gli effetti considerata equivalente all’apparato genitale femminile, come dimostra il fatto che talora le celebrazioni  iniziavano con la discesa in caverne sotterranee; una sorta di penetrazione, a fini procreativi, della Terra Madre.
       In Appendice (pp. 129-153) l’intervista della Anselmo alla Håland (avvenuta ad Atene nel 2010), presentata prima in originale inglese, poi in traduzione italiana. La Anselmo ha posto vari quesiti alla ricercatrice nordica, sia sul saggio in questione, sia sulle tematiche e sulla metodologia della vastissima sua produzione.
         Mi siano consentiti una digressione, che a qualcuno sembrerà fuor di luogo, e un suggerimento per coloro che si occupano dei autori contemporanei. L’intervista andrebbe sempre condotta, dopo lo studio di un’opera, interrogando l’autore stesso, affinché chiarisca punti dubbi del suo lavoro e/o dica a voce quel che, per un motivo o un altro, non ha potuto, o voluto, scrivere. Oppure per aggiungere nuove considerazioni. Magari noi antichisti e bizantinisti potessimo avvantaggiarci di una tale possibilità…!
         Il parallelismo fra le festività in onore di Demetra e quella della Panaghìa (Vergine Tutta-Santa) della Grecia attuale è evidente, come emerge dalle convincenti pagine  della Håland; ancor più evidente, nello ‘slittamento’ da Demetra ad Atena, l’analogia con la Madonna, che aveva in comune con Atena la perpetua verginità.
         Dall’antico al contemporaneo, dunque, in una ideale continuità fra Grecia antica e Grecia moderna, fra culti pagani e culti cristiani, sacralità politeistica e sacralità monoteistica; si sa che quest’ultima, a livello popolare, e non solo, subì molteplici influssi, sicché, a livello generale, fra religiosità biblico-ebraica e religiosità cristiano-cattolica v’è più di una divergenza, pur nella riconosciuta continuità teistica.
        La ricerca merita dunque più di un plauso. Il successo del libro e della sua Autrice, verificabile in rete, è testimonianza della validità della ricerca e della correttezza della metodologia impiegata.

            Dicembre 2012                                                                        r.r.



[1] Autore della concisa ma efficace Prefazione.

mercoledì 16 gennaio 2013

L'Almanacco Thule 2013


Non la partenza conta
né la fermezza o l’instabilità
del punto da cui ti muovi.
Conta quel che lasci e cosa ti porti […]

Lucio Zinna, Partenze e arrivi.


Un impegno, un appuntamento con la cultura, un continuo ed incessante lavoro di scoprire e di scoprirsi, una perpetua ricerca della bellezza, anche lì dove bellezza sembra non esserci: è questo ciò che sta dietro la storia di Thule, una storia lunga ormai quarantadue anni e che trova piena espressione nell'Almanacco 2013, «un piccolo Almanacco del tempo e dello spirito - si legge nell’ introduzione – che trova nella parola e nel segno la liberazione possibile».
Si leggano ancora alcune parole della nota introduttiva, atta a rappresentare lo spirito che Thule trascina con sé nel tempo e che il suo direttore, Tommaso Romano, vuole sia segno di distinzione: «Nel tempo del ribaltamento generale occorre ritrovare il senso dell’esserci, scambiarsi reciprocamente i messaggi per la resistenza al male, all’ovvio, al brutto, allo sfinimento di chi ci vuole ciechi e non uomini e donne consapevoli, veri, affrancati dall’asfissia finanziaria e multimediale. Ci vuole l’Arte, insomma. Per comprendere che la vera riforma è prima di tutto interiore, spirituale e metafisica, una riforma che sappia conservare il meglio dell’umano per salvaguardare la preziosità di ogni singolo essere. Per questo nasce l’Almanacco Thule che vuole rappresentare una voce nel deserto che avanzando chiede e pretende di essere ascoltata. La voce degli scrittori è – quando autentica – profezia di vita, epifania, rispetto e arma efficace in avversione al nichilismo. […] L’illusione della tecnica come soluzione di felicità, fallisce malgrado le apparenze di potenza, e la comunità è sempre più virtuale che reale. Torniamo, allora, alla meditazione, alla riflessione, alla lentezza, alla luce, entriamo in queste pagine che hanno la sola ambizione di essere più che di apparire».
Bene, dunque, quei versi in apertura di Lucio Zinna rappresentano l’animus di Thule e non certo a caso sono posti ad incipit dell’Almanacco 2013 e prorompenti si offrono a chi, ancora, di questa associazione culturale non ne conoscesse il fine più recondito.
Conta ciò che ci attende, continua poi il poeta, conta ciò che per ognuno rappresenta l’Incontro, il Senso. Così la voce di poeti e scrittori che trovano spazio all’interno dell’Almanacco rispondono a questo filo conduttore, a questa precisa logica che vuole Thule non come promotrice di un’arte fine a se stessa, ma di un’Arte che sia «l’essenza più forte di qualunque profumo: la bellezza e il sudore del vivere».
Questo, dunque, è il soffio vitale delle “penne” presenti, che elenchiamo: Lucio Zinna, Melo Freni, Maria Patrizia Allotta, Roberto Pazzi, Francesca Vella, Ciro Spataro, Nino Aquila, Elio Giunta, Piero Vassallo, Concetta Alesi, Maria Elena Mignosi Picone, Vito Mauro, Giuseppe Bagnasco, Virginia Bonura, Maurizio Massimo Bianco, Elvira Sciurba, Francesco Paolo Giannilivigni de Levis, Mariolina La Monica, Gianni Ianuale, Nino Agnello, Gonzalo Alvareza Garcia, Serena Lao, Tommaso Romano, Giuseppe La Russa, Anna Maria Bonfiglio, Elide Triolo, Salvatore Di Marco, Giuseppe Fumia, Maria Adele Anselmo, Umberto Balistreri, Alfio Inserra, Nicola Romano, Elisa Roccazzella, Carmelo Fucarino, Adalpina Fabra Bignardelli, Piero Longo, Antonino Russo, Aldo Gerbino, Stefano Vilardo.
Il testo, inoltre, raccoglie disegni di: Gaetano Lo Manto, Elide Triolo, Salvatore Caputo, Giuseppe Alletto, Rosa Maria Ponte, Pippo Madè.

Giuseppe La Russa

Sabato 19 gennaio 2013, presentazione del libro di Rosa Maria Ponte, "La collezionista di guanti e altre storie"

Sabato 19 gennaio 2013, alle ore 17,30, presso il Grande Hotel Des Palmes  di Via Roma 398, a Palermo, Caterina Ruta e Tommaso Romano presenteranno il libro di Rosa Maria Ponte La collezionista di guanti e altre storie, Salvatore Sciascia editore.
Sarà presente l'autrice, e verranno letti alcuni brani tratti dall'opera da  Irene e Ernesto Maria Ponte

domenica 13 gennaio 2013

"Le parole di Caravaggio” di Alvise Spadaro

Premessa
Non sono molte le frasi di Caravaggio riportate dai documenti o dai libri, così come non è stata ritrovata nessuna lettera e, a parte qualche firma in calce a qualche raro documento, neppure una nota o un semplice appunto a margine di qualche testo.
È noto inoltre che non sono stati trovati disegni.
Caravaggio non disegnava. Quindi nessun interesse per l’inchiostro e tanto meno per la matita.
Nei suoi quadri le indagini radiografiche non hanno rivelato disegni preparatori. Soltanto qualche leggero segno di riferimento lasciato dalla punta di legno del pennello.
Il pennello sì, ma niente penna e niente matita. Solo pennello.
Evidentemente era quindi il pennello, l’unico mezzo con il quale Caravaggio intendeva comunicare. Le sue opere dovevano essere i soli documenti di sua mano, utili a svelare le sue «parole».
Un percorso però difficile perché si trattava di un linguaggio non facilmente accessibile, e non solo per i suoi contemporanei.
Se a Roma era conosciuto come «primus in Urbe pictor», lo era soltanto per il suo scopritore e mecenate, il cardinale Francesco Bourbon del Monte e la sua cerchia di relazioni: Scipione Borghese, Federico Borromeo, Pietro Aldobrandini, Ottavio Costa, Giovanni Battista e Ciriaco Mattei, Vincenzo Giustiniani, Maffeo Barberini, Alessandro Vittrici, Costanzo Patrizi, Guido Odescalchi, Ferdinando de’ Medici.
Tutti personaggi appartenenti ad un èlite che possedeva, oltre la sensibilità necessaria per apprezzare nelle opere la qualità dei risultati tecnici di un discorso profondamente innovativo, anche gli strumenti culturali per poter riconoscere i significati nascosti dietro l’apparente evidenza delle immagini.
Cioè quelle «parole» che gli meriteranno appunto il titolo di «primus in Urbe pictor», ma che non gli verrà pubblicamente riconosciuto nei grandi quadri a committenza pubblica che infatti sarà costretto a ridipingere o a realizzarne una seconda versione da esporre.
Nella cappella del cardinale Tiberio Cerasi La vocazione di Saulo e nella cappella del cardinale Matteo Contarelli Il martirio di Matteo e San Matteo e l’angelo. La morte della Madonna per Santa Maria la Scala e La Madonna del serpe per la basilica di San Pietro vengono rifiutate. Come La Madonna dei pellegrini, anche altre opere pubbliche vengono drasticamente contestate.
Quindi durante un soggiorno definitivo durato, in modo documentato, quasi un decennio, con eccezione de La Madonna del serpe peraltro respinta, le commissioni pubbliche a Roma si riducono ad un arco di tempo della durata di poco più di due anni. Le sue «parole» non vengono capite. Purtroppo vengono fraintese, equivocate.
Così non succederà però a Napoli e a Malta.
In Sicilia poi sarà addirittura libero di decidere il soggetto, come nel caso documentato dellaResurrezione di Lazzaro o anche del Seppellimento di santa Lucia, che se l’incuria umana non avesse fatto tragicamente appassire anche quest’opera, riducendola nelle attuali condizioni, se ne riconoscerebbe inequivocabilmente uno dei capolavori assoluti.
Incomprensione per Caravaggio che durerà ancora per lungo tempo, infatti i secoli successivi, anteponendogli Guido Reni, lo ridurranno a poco più che «pittore di genere».
Solo negli gli anni Cinquanta del secolo scorso inizierà con Roberto Longhi uno studio più attento delle sue opere e con Maurizio Calvesi anche la lettura di quei significati comprensibili fino allora esclusivamente dal suo mecenate e dall’élite culturale romana.
Ma ancora oggi non tutto è svelato. C’è ancora da capire. E non si dovrebbero più definire «stravaganze del pittore», come è stato fatto in passato, quanto invece non si è ancora riusciti a comprendere.
Opere per cui, solo per cominciare ad intenderle, sono stati necessari più di tre secoli.
Un personaggio quindi che non doveva trovarsi molto a suo agio nell’epoca in cui viveva e dovrebbe finalmente e decisamente uscire dallo stereotipo dell’«artisticamente dotato, ma stravagante, violento e quindi ignorante».
Dalla lettura di quei «documenti» che sono per esempio le opere siciliane si rileva tra l’altro la sua sensibilità e l’attenzione per la storia dell’Isola. Questo interesse si legge nelle tracce lasciate per la lettura di una contestualità volutamente non individuabile in modo palese.
Ma finalmente si sta già cominciando a parlare della cultura di Caravaggio.
Il ritrovamento di tracce di sali di mercurio nei suoi quadri, grazie a Roberta Lapucci, ci svelano un Caravaggio addirittura «protofotografo» e spiegano l’inutilità dei disegni preparatori. Un Caravaggio insomma che aveva ripreso e applicato in pratica gli studi di Leonardo da Vinci.
Ma allora il suo carattere irascibile e impetuoso non sarà stato forse condizionato proprio dal sentirsi incompreso di un artista che era avanti di tre secoli rispetto ai suoi contemporanei?
Le parole di Caravaggio verbalizzate dai documenti giudiziari sono solo la testimonianza di una realtà quasi esclusivamente romana, nella quale si trovava a vivere un giovane spericolato e intraprendente.
La Roma del suo tempo, il fitto intreccio di strade la notte dove i ladri la facevano da padroni. Campo Marzio, il quartiere a sud del porto di Ripetta, tra le chiese di Sant’Agostino e San Luigi dei Francesi, la Minerva e il Corso.
Caravaggio doveva non solo destreggiarsi ma anche farsi rispettare in un contesto che non era frequentato solo da prostitute e da balordi, ma prevalentemente da delinquenti.
Roma della Controriforma pullulava infatti di sfaccendati malviventi, ladri e assassini. E quindi per farsi rispettare in un ambiente violento, oltre a girare armato di spada e pugnale bisognava mettere in mostra forza e carattere. Le offese andavano vendicate in modo energico e qualche volta anche a prezzo della vita.
Spada e pugnale che però Caravaggio, dopo aver ucciso Ranuccio Tomassoni, sarà costretto a portare sempre anche durante la sua fuga a Napoli, Malta e in Sicilia perché essere condannati al «bando capitale», significava che chiunque avrebbe potuto giustiziarlo e portare la sua testa a Roma.
Dai documenti romani si rileva però che i personaggi solitamente frequentati che lo accompagnavano, Prospero Orsi e Costantino Spada, un pittore e un mercante di quadri, erano certamente incensurati ed i suoi due più grandi amici, il lombardo Onorio Longhi e il siciliano Mario Minniti, per quanto della sua stessa tempra, non erano assolutamente gente di malaffare.
L’architetto Onorio Longhi, figlio di Martino apparteneva ad una gloriosa famiglia di architetti di Viggiù da molti anni attivi a Roma e il giovanissimo pittore siracusano Mario Minniti discendeva da una nobile famiglia di Noto.
In questi verbali romani si rileva anche la capacità di Caravaggio di saper convivere con questa realtà difficile, e la lealtà nel rifiutarsi di far nomi per non coinvolgere nessuno, amici o nemici che fossero. E questo anche in occasione della testimonianza resa davanti al Tribunale dell’Inqui-sizione maltese.
Trovarlo continuamente implicato in violente baruffe, alcune volte condannato e più di una volta con tragiche conseguenze per la sua stessa esistenza, non induce a sospettare che le deposizioni rilasciate davanti al giudice, a parte una naturale reticenza, possano essere il risultato di particolari calcolate «strategie».
La morte di Ranuccio Tomassoni che gli procurerà appunto il «bando capitale» oltre l’estenuante ed angosciosa fuga che durerà per il resto della sua vita, e la partecipazione al raid notturno maltese che vanificherà in un attimo il risultato di un anno di impegnativo lavoro con lo scopo di ottenere finalmente la grazia dal papa, sono le prove infatti della sua incontrollabile istintività e della sua totale mancanza di ipocrisia.
Per quanto purtroppo in minor numero, la altre parole di Caravaggio, cioè quelle pronunciate al di fuori dei tribunali e riportate testualmente dai testi coevi o dalla tradizione verbale, ci mostrano invece il personaggio in tutta la sua autentica sensibilità, lo stesso che troviamo nelle «parole» che ci ha lasciate scritte col pennello nelle sue opere.
Ironico nel chiamare “Monsignor insalata” lo spilorcio padrone di casa che gli propinava quotidianamente sempre e solo questo alimento vegetariano; pronto nel cogliere un aspetto originale e poetico della cultura popolare siciliana davanti ad una statua di Antonello Gagini; incuriosito dai fenomeni di fisica nel definire Orecchio di Dionisio la latomia siracusana che da allora porterà sempre questo nome; ammirato davanti a un quadro d’altare, oggi purtroppo perduto, del pittore contemporaneo Filippo Paladini; sconfortato e quasi presago della fine imminente nel rispondere al suo accompagnatore che, per segnarsi in una chiesa di Messina, gli offriva l’acqua benedetta.

       

L'opera poetica di Tommaso Romano: perché leggerla?


Perché leggere l’opera poetica di Tommaso Romano? Cosa questa lettura può offrirci?
Scrive Salvatore Quasimodo: «Quello della poesia è un tema aperto all’infinito; Le domande che il poeta pone a se stesso, e quindi a tutti, possono essere ritenute oscure dai contemporanei, ma non per questo cessano di esercitare il loro influsso nelle zone più gelose di una società costituita. La nascita di un poeta è sempre un atto di “disordine” e presuppone un futuro nuovo modo di adesione alla vita, perché è bene dirlo subito: il poeta non rinnega mai la vita. La vita, la verità. Sono gli uomini che chiedono questo al poeta. L’uomo vuole verità dalla poesia, quella verità che egli non ha il potere di esprimere e nella quale si riconosce, verità delusa o attiva che lo aiuti nella determinazione del mondo, a dare un significato alla gioia o al dolore in questa continua fuga di giorni, a stabilire il bene e il male».
Leggendo ed interiorizzando le parole del poeta siciliano, facilmente si potrebbe arrivare ad una risposta al quesito che abbiamo posto. Perché, dunque, approcciarsi ad Esmesuranza, la raccolta poetica di Tommaso Romano, e Dilivrarmi, l’ultima silloge?
Perché quello dello scrittore, poeta, saggista, critico e studioso palermitano è un itinerario di vita, come quello che ogni uomo può attraversare, è un cammino costellato di domande, è un percorso disseminato da perché che esplodono di continuo, è l’universalizzazione dello status umano, quello status sempre proteso a domandare e domandarsi. Davide Rondoni ammette come l’intera vita, in ogni sua manifestazione, in ogni suo atto quotidiano sia una perpetua domanda, un continuo ed eterno cercare. Chiaro, risulta, come ogni opera poetica può donarci l’incanto di un perché, l’attesa di un senso (è questo il significato della parole di Quasimodo che abbiamo riportato), ma nello specifico, la penna di Tommaso Romano ci apre continuamente di fronte all’immagine di un uomo come tanti altri, di un nostro compagno di camerata, di un amico, di un fratello che cerca, indaga, scopre e mette per iscritto. E proprio questo noi uomini (seguiamo ancora la rotta quasimodea) chiediamo ad un poeta. Non astrattezze, non ameni inganni, non iperuranici paradisi senza concretezza: «Vago, perché vago?/Cammino, solo, scompostamente/perché cammino?/Il mio animo è turbato/dal mondo/.Vago e vago/come gli zingari/». Questi versi sono di un Romano che varca le soglie dell’adolescenza, che inizia un itinerario, che è turbato dal mondo. Il turbamento, sia chiaro, non può e non deve essere letto solo in chiave negativa: è qualcosa che smuove, che produce movimento, che scatena sensazioni di vario genere, è mobilità.
Mobilità. La stessa che ha visto e vede questo studioso muoversi perennemente in quel mondo che sin da giovane lo sconvolgeva e che gli urlava la necessità di farsi conoscere.
A chi scrive, oltre che all’opera poetica, è sempre piaciuto andare a scovare cosa i poeti stessi dicano del movente della loro penna, la poesia, appunto. Per Romano, poesia e vita sono una continua ricerca, scrive egli stesso che il «senso del senso» è l’aspirazione a perseguirlo; la ricerca stessa è appagamento, è cogliere il senso delle cose. Se il futuro, per Tommaso Romano, è sempre eventuale, dubbioso (Futuro eventuale è proprio il titolo di una sua silloge), è proprio quel mistero che rende bello il trascorrere del tempo: «Il mistero illeggiadrisce/il meccanico procedere dei giorni/mentre di sconfinate certezze/è avvolto il cielo del dubbio».
“Il mistero che illeggiadrisce” è la gioia dello studioso, che di quel mistero vuole farsi interprete, giorno dopo giorno, pagina dopo pagina. Ѐ questo il senso che Tommaso Romano dà alla sua esistenza? Probabile, per chi lo conosce, rispondere affermativamente: è nello studio e nella ricerca che quell’itinerario intrapreso diversi anni fa continua ad andare avanti, ma, ci ammaestra Romano stesso, il senso vero è quello che ognuno dà e darà alla propria esistenza. Ognuno ha una sua risposta, che da particolare può aprirsi all’universale, perché ognuno è una minuscola tessera del creato che va a formare uno splendido ed eterno mosaico: questo il significato del suo neologismo, Mosaicosmo.
Così, per concludere con un pensiero autorevole che bene sintetizza quanto detto, scrive Davide Rondoni a proposito di Tommaso Romano, di cui è da tempo amico, «il territorio della poesia di Romano è quello dell’avventura della conoscenza del mondo e dell’uomo. E come tale è un’avventura sempre nuova, irrefrenabile. Ogni libro costituisce un’icona di tale percorso di conoscenza, ma mai un’icona definitiva. Sopravviene altro – nella vita del poeta, nella vita del mondo – a urgere un passo ancora, una nuova verifica, una nuova paziente pittura. […] E il viaggio di uno diviene il viaggio di molti, e la conoscenza non è un acquisto geloso, ma uno stupore che si condivide».

Giuseppe La Russa

sabato 5 gennaio 2013

CONTRO LA RIVOLUZIONE LA FEDELTÀ: LO STUDIO DI TOMMASO ROMANO SULLA FIGURA DI VINCENZO MORTILLARO


Edito nel 2012 presso l’ISPEE, Contro la rivoluzione la fedeltà è lo studio che Tommaso Romano dedica alla figura di Vincenzo Mortillaro, marchese di Villarena nato a Palermo il 27 luglio 1806 e morto nel capoluogo siciliano nel 1888. Una raccolta di antologie dello studioso palermitano resasi necessaria per la rivalorizzazione di una figura fondamentale nel panorama locale e nazionale, un personaggio, scrive Tommaso Romano stesso nella premessa all’edizione, che non va ricordato solo e soltanto come l’autore del famoso Dizionario siciliano-italiano e come l’ideatore di una Guida di Palermo, ma perché fu «soprattutto autentico protagonista dell’Ottocento siciliano del quale, tuttavia, gli stessi repertori specifici anche bibliografici, i dizionari biografici, le enciclopedie siciliane – con le poche eccezioni dovute a seri studiosi e ricercatori – si limitano a riferire qualche stantio dato ripetuto pedissequamente e a volte erroneamente con le omissioni, peraltro, di quegli elementi, non certo secondari che, specie per la seconda parte dell’operosa e non facile sua resistenza, lo segnarono e contraddistinsero rispetto all’acritico conformismo».
Un’operazione di recupero, dovuto, sacrosanto, un’antologia delle opere attraverso cui «potremo seguire la cronaca della storia della Sicilia nonché le vicende diplomatiche e politiche d’Italia e finanche d’Europa, ma soprattutto la puntuale ricostruzione della vita amministrativa, culturale, sociale e religiosa di Palermo che pure lo coinvolsero a vari livelli e certamente lo coinvolsero a vari livelli e certamente lo appassionarono nonostante il suo personalissimo stato d’animo e la sua radicale concezione della realtà».
Tradizionalista intransigente Vincenzo Mortillaro, estremamente colto e lucido nelle proprie analisi, come si può evincere dalle pagine antologiche scelte in questo volume, figura di studioso «nutrito dalla certezza nella fede cattolica e dalla sostanza del Vangelo, quest’ultimo inteso sempre come verità e ammaestramento per ogni uomo e per le genti tutte. […] Lucido avversario di un sovversivo mutamento spirituale e religioso che, oltre a scuotere regni e sovranità legittime, mirava allo sradicamento identitario e religioso».
Un’imponente opera, che deve aprirsi a studi ancora più approfonditi, sentenzia Tommaso Romano, di ripresa verso un personaggio chiave e che per troppo tempo è rimasto nell’oblio degli studiosi; un’opera – corredata da un’amplia bibliografia delle opere di e su Vincenzo Mortillaro - , questa di Tommaso Romano, scrive Paolo Pastori nell’introduzione al volume, che è «una re-volutio apparentemente ‘solo’ documentaria-storiografica, poiché è in sostanza una seria e motivata proposta di recupero, di un ritorno ai primi princìpi della politica», uno studio che attraverso l’antologia di alcune opere salienti del barone Vincenzo Mortillaro diventa «recupero di un ciclo dentro il grande ciclo della nostra storia, a partire dalla crisi dello Stato unitario, da quella Belle époque nelle cui pieghe, dietro feste, cortei, celebrazioni e monumenti si ignorava la questione sociale, il crescere di uno scontento di massa, sintomo peraltro di un’anteriore e pregressa perdita di contatto con i valori fondanti della politica».


                                                                                                                     
Giuseppe La Russa