lunedì 2 novembre 2015

“Signorina Carlotta”, addio


di Alessandro Gnocchi

La parte più intima e più vera della mia vita ha fatto il nido alle Roncole. Proprio in quel cortile e in quella casa che, nei racconti di Giovannino Guareschi, per un ragazzino di tredici o quattordici anni diventavano come l’India di Salgari, la via Paal di Molnár o il favoloso west di Sergio Leone.
Il primo viaggio nella Bassa per incontrare i figli di Guareschi lo ricordo con precisione persino preoccupante per uno che non riconosce i vicini di casa dopo anni e anni di frequentazione. Ricordo persino che all’autogrill di Cremona, prima di passare il Po, comprai una scatola di liquirizia Resoldor solo perché in un racconto del Corrierino delle famiglie i bambini recitavano lo slogan “Re-sol-dor si scioglie in bocca”. Liquirizia buona come quella non ne ho più trovata.
Era il luglio del 1981 e avevamo organizzato una spedizione come se si trattasse di andare a conoscere i figli di Sandokan o di Tex Willer. In fondo, era proprio così, dato che Alberto e Carlotta, in realtà, erano Albertino e la Pasionaria. Dire “in realtà” è dire la cosa giusta, perché le migliaia di lettori entrati in intimità con Giovannino e la sua famiglia erano, sono e saranno sempre sicuri che la realtà coincide l’invenzione letteraria e non con la vita concreta di tutti giorni. E, ora che la Pasionaria è morta, sono addolorati e tristi come lo si è solo quando muore un bambino.
Così, quel luglio del 1981, anch’io mi trovai davanti i figli di Giovannino ed entrai definitivamente in un mondo dal quale non sarei uscito più. Non so che cosa sia scoccato in quel momento, ma compresi che almeno una parte del mio destino avrebbe trovato forma proprio lì. Forse fu perché Alberto mi mostrò il ritaglio della recensione di Gente così che avevo scritto per “Candido” l’anno prima. O perché Carlotta era proprio come me l’ero immaginata, solo con trent’anni di più. O, ancora, perché era chiaro che Alberto e Carlotta volevano bene a Guareschi proprio quanto Albertino e la Pasionaria ne volevano a Giovannino. Forse tutto questo insieme e chissà cos’altro ancora… Sono cose che si sentono, direbbe Peppone, ma non si capiscono.
Comunque, in qualche modo l’ho sempre saputo che la parte più intima e più vera della mia vita, prima o poi, avrebbe fatto il nido alle Roncole. Ma ora che Carlotta non c’è più lo vedo con chiarezza, perché adesso i ricordi si fanno precisi nel tentativo di rendere un po’ meno dolorosa la morte di qualcuno a cui si vuole bene e a cui si deve gratitudine.
Giusto vent’anni fa, nel 1995, quando ormai Alberto e Carlotta erano diventati un po’ come fratelli maggiori, uscì il mio primo libro, Don Camillo & Peppone: l’invenzione del vero. Aveva in copertina una fotografia della chiesa di Fontanelle di Roccabianca a cui era sovrapposto un disegno di Guareschi che riproduceva lo stesso edificio. Titolo e copertina li aveva pensati Carlotta, che, evidentemente, aveva compreso meglio di me quanto avevo scritto. Ma questo, diceva suo padre, non deve preoccupare perché non si può pretendere che un poveretto, dopo aver scritto un libro, lo capisca anche.
In ogni caso, quella copertina e il concetto di invenzione del vero tratto da una lettera in cui Giuseppe Verdi parlava della sua musica, li pensò Carlotta. Alberto disse subito che erano perfetti. Se aggiungo che furono loro due, Albertino e la Pasionaria, a portarmi di peso a Rizzoli per pubblicare il libro, diventa chiaro che la parte più intima della mia vita aveva proprio fatto il nido in casa loro. Perché è nel primo libro che uno scrittore si mette in mostra senza reticenze, quasi senza difendersi dagli sguardi altrui. E i primi a guardare dentro la mia anima riparandola da occhiate oblique sono stati Alberto e Carlotta.
Appena finivo un capitolo lo spedivo alle Roncole per fax verso il mezzogiorno. Sapevo che Alberto lo avrebbe letto subito perché non andava a casa per il pranzo e lo avrebbe passato a Carlotta nel primo pomeriggio. Poi, verso le cinque, telefonavo con un filo di ansia per sapere che cosa ne pensassero. Ogni volta che ho scritto qualcosa su loro padre ho fatto così. Se ho cominciato a fare lo scrittore e se ho continuato a farlo lo devo a loro. Non so se l’ho fatto bene o male, ma di certo non lo avrei fatto senza di loro. E temo di non averglielo mai detto in modo così chiaro come sto facendo ora che Carlotta non c’è più.
Per certi versi, mi pare di essere come il Carlino di “Mai tardi”, uno dei racconti più strazianti eppure più pieni di speranza scritti da Guareschi. Un racconto autobiografico in cui il protagonista scopre quanto suo padre gli abbia voluto bene, ma soprattutto quanto lui abbia voluto bene a suo padre, quando ormai il vecchio è morto. Di certi gesti, di certe parole e persino di certi pensieri si sente la mancanza quando non possono essere più compiuti, più detti, più concepiti. E penso quanto mi manca mio padre ora che saprei cosa fare, cosa dire, cosa pensare. Così come penso a quanto mi manca Mario Palmaro. Adesso mi mancherà anche Carlotta, che tutto questo lo comprendeva benissimo.
Qualche anno fa le avevo chiesto di scrivere per un amico in difficoltà con suo padre una dedica proprio sul racconto “Mai tardi”. Ricordo che non ci pensò neppure un secondo, prese la penna e, accanto al titolo del racconto, scrisse “A … con l’augurio di scoprire mai tardi quello che nostro padre ha scoperto troppo tardi”.
In fondo, quella dedica l’aveva scritta anche per me. Non so se queste parole arrivino fuori tempo massimo. Il fatto che le possa leggere Alberto mi è di conforto perché penso che, in fondo, si possa fare come con i capitoli dei libri che mandavo alle Roncole per fax.

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