venerdì 23 ottobre 2015

Pena Etrusca per il Senato (e per l’Italia)

di Aldo A. Mola

“Vanitas vanitatum. Tutto è vanità. Col passare degli anni che verranno tutto sarà dimenticato. E, come il saggio, così muore lo stolto”. Parola di Qohelet, figlio di David, re di Gerusalemme (Ecclesiaste, II, 15-16). Chi ricorderà le oche giulive da anni starnazzanti nelle Aule parlamentari, i patres goliardici e il forbito eloquio (parlato e scritto) dell'ex presidente della repubblica Napolitano Giorgio? L'assemblea monocamerale è stata sempre obiettivo dei despoti: da Cromwell alla Convenzione repubblicana francese del 1792, dal Soviet di Lenin, al regime stalinista e a Kruscev che represse sanguinosamente l'insurrezione degli ungheresi, plaudito dai poi sedicenti miglioristi. Tutto verrà dimenticato. Ma prima che sprofondi nell'oblio, la morte del Senato e lo scempio della Costituzione meritano un epicedio.
 “Senatori boni viri, Senatus mala bestia” dicevano i Romani, che la sapevano lunga. Dunque, l'attuale senato  (minuscola d'obbligo) non conta più nulla. Valgono poco i suoi membri indagati, rinviati a giudizio e tuttavia sempre insediati nei loro da noi remunerati stalli. Contano meno ancora certi senatori a vita. Un mondo è finito. Il Senato è morto. Pugnalato con spensierato rito sadomaso dai suoi stessi “membri”, d'ora in poi condannati a vagare nudi sino allo scioglimento dell'assemblea. Che cosa rappresentano adesso che han votato di essere abusivi? Con quale spocchia codesti senatori eserciteranno il mandato che essi stessi hanno cancellato? Allora, meglio farla finita con questa caricatura di senato. Liberi tutti, tranne i patres, e sono molti, che debbono rispondere di reati comuni, a cominciare da alcuni etruschi che hanno favorito il colpo di mano.
Costituzione imperfetta o imperfetto chi ne abusa?
Di imperfetto in Italia non era e non è il bicameralismo ma l'uso che della Costituzione hanno fatto partiti, congreghe e profittatori vari, uniti nell'obiettivo di divaricare le istituzioni dai cittadini e viceversa. Ci stanno riuscendo. Il colpo basso attuato con l'eliminazione dell'elettività diretta della Camera Alta accelera la deflagrazione dello Stato. Basta leggere il testo arruffato approvato dai “senatori” per capire che questi patres non sanno quello che fanno. Del resto camminano nel solco fangoso della repubblica nata il 2-3 giugno 1946. Al netto di brogli vari, la repubblica ottenne il “sì” dal 42% degli aventi diritto al voto. Nacque minorata ancor più che minoritaria. La sua soglia è simile al famoso 41% sbandierato da Renzi Matteo per soggiogare il partito democratico (minuscola d'obbligo) e gli abitanti del Paese di Cuccagna (festa, farina e forca). Conniventi anche quando disertano le urne, oggi tanti italiani scodinzolano all'annuncio che potranno spendere le banconote nascoste per anni chissà dove, con occhio gonfio d'invidia per russi e cinesi di passo, dai portafogli sempre gonfi di sacrifici altri.
Dall'Unità nazionale (odiata da clericali, cattocomunisti e fautori del monocameralismo imperfetto: prono al tiranno di turno), il Senato ha raccolto il meglio dell'Italia: 2400 persone in cento anni. Quasi nessun cittadino di vero talento ne fu escluso. Ma quei senatori, vitalizi, erano nominati dal re, d'intesa con il governo, che a sua volta aveva antenne ovunque e sceglieva il grano dal loglio. Proprio perché rappresentò l'eccellenza del Paese, il Regio Senato rimane tuttora privo di una storia. Non se n'è occupato nessuno. Né il Senato stesso (pur dovizioso), né le Università, né tante case editrici pronube verso chiacchiere di destra, sinistra e centro, ma solo repubblicane. Forse il Premio Acqui Storia dovrebbe promuovere un'iniziativa specifica: una storia vera del Senato, a suo tempo presieduto  dall'acquese Giuseppe Saracco, affiancato da  Maggiorino Ferraris “patron” della “Nuova Antologia”, da ricordare nel 150° della rivista diretta da Cosimo Ceccuti.
Epicedio, dunque. Questo parlamento, eletto in contrasto con la Carta della Repubblica  come sentenziato dalla Corte Costituzionale, ha titoli per modificare la Costituzione o dovrebbe pudicamente astenersene? Con le decine di inquisiti da cui è popolato, con le centinaia dei cambiacasacca da cui è formato, ha esso l'autorevolezza giuridica, politica e morale per varare le troppe leggi che stanno squassando l'identità del Paese, dalla cittadinanza al diritto di famiglia e oltre?
Il 50% degli italiani non va più alle urne: parte per indifferenza (lo Stato è morto da tempo in molte regioni e nelle coscienze di tanti cittadini che gli avevano dato fiducia e dedicato decenni di vita per avito senso del dovere), parte per protesta. Se non fosse per la Lega e il Movimento 5 Stelle i votanti sarebbero il 30-35% degli aventi diritto contro il 60% dell'età monarchica. I cittadini voltano le spalle alle istituzioni, ormai allo stremo. Mancano solo l'eccidio di Prina del 1814 e l'assalto ai forni.
Il discredito nasce anche dal malgoverno delle piccole cose, dallo scempio del pubblico denaro mentre il ceto medio, ossatura della società, è stato precipitato nell'indigenza. Perciò abusi e sprechi sono divenuti intollerabili. Non è questione di destra o di sinistra ma di decenza, di civiltà. Il re viveva della Lista Civile, stabilita dal Parlamento (maiuscolo  d'obbligo). In “I Capi dello Stato” (ed. Gangemi) Tito Lucrezio Rizzo ricorda che il presidente provvisorio della repubblica, Enrico De Nicola, napoletano, monarchico e liberale, indossava un cappotto rivoltato. Del suo successore, Luigi Einaudi, piemontese, monarchico e liberale, si ricorda che domandò ai commensali chi gradisse la mezza mela che stava per tagliare. Entrambi erano stati senatori del regno: un modello di serietà e di sobrietà per i “repubblicani tutti d'un pezzo”.
Per far trangugiare lo scempio della Costituzione a un'opinione pubblica sempre più indignata il governo attuale ha subordinato la riforma della Costituzione a referendum confermativo, da celebrare tra un anno, dopo le elezioni amministrative della primavera 2016: uno stratagemma per rinviare le votazioni che contano, quelle per l'elezione del prossimo Parlamento (se ancora ce ne sarà uno). Eppure tempo è venuto di restituire sovranità piena ai cittadini sulla Carta saccheggiata dal governo e dai suoi segugi: non solo per approvare o cassare lo sciagurato svilimento del senato, ma sulla forma stessa dello Stato. Nel primo Ottocento Gian Domenico Romagnosi, tra i supremi esponenti del pensiero repubblicano in Europa, scrisse che ogni generazione ha diritto di decidere la forma di stato nella quale riconoscersi. Lo pensava anche Melchiorre Gioja, autore del celebre saggio “Quale dei governi liberi meglio convenga all'Italia”. Dopo 70 anni questa rugosa repubblica è al crepuscolo. La sovranità va restituita ai cittadini. Nell'unico modo leale: l'abolizione, per referendum, dell'articolo 139 della Carta, che dichiara immodificabile la forma dello Stato. Forse che la Gran Bretagna, la Spagna, il Belgio, la Danimarca, la Svezia, la Norvegia ecc. ecc. sono meno civili dell'Italia solo perché sono Stati monarchici?
La soppressione del Senato elettivo ha messo a nudo la pochezza dell'attuale “dirigenza” politica: una commedia dell'arte. La repubblica è nuda, dalla cintola in su o in giù, a seconda di dove si collochi l'ex Camera Alta. Il senato moriente è comunque la pena etrusca per la repubblica: una riforma caparbiamente voluta e votata, infatti, da una manciata di etruschi. Il cadavere del senato putrescente corromperà  il poco che resta del corpo vivo.                


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