di Luciano Garibaldi
Il 27 gennaio abbiamo tutti ricordato, con rammarico, dolore e partecipazione, le sofferenze che la follia criminale antisemita inflisse a milioni di esseri umani condannati a pagare con inimmaginabili sofferenze e infine con la vita la loro fede religiosa. Ricordiamo dunque come ebbe inizio quella carneficina passata alla storia come la “Shoah” (in lingua ebraica, “catastrofe”).
I trasferimenti degli ebrei all’Est ebbero inizio il 16 ottobre 1939, subito dopo il crollo della Polonia, allorché venti convogli ferroviari mossero contemporaneamente da Berlino, Vienna, Praga e Colonia, diretti a Lodz. Ognuno di essi trasportava un migliaio di ebrei. Erano famiglie tedesche che avevano accettato volontariamente la proposta di trasferirsi nel ghetto della città polacca, dove – era stato raccontato loro – la vita costava meno, si trovavano facilmente casa e lavoro e vi erano meno restrizioni. Era una trappola. Una volta giunti a destinazione, gli sventurati furono costretti a vivere in media in sette in una stanza: 14 mila morirono nei primi 18 mesi.
Era stato detto loro che ognuno avrebbe potuto portare con sé 100 marchi, fino a 50 chilogrammi di bagaglio e viveri per tre giorni. Così, eccoli, curvi come bestie da soma sotto il loro carico, arrancare verso l’autocarro che li avrebbe portati alla stazione. Gli uomini avevano stivato nelle valigie e nei fagotti quanto più possibile, pur di mettere in salvo le proprie cose. I venti treni provocarono ritardi e ingorghi al traffico ferroviario militare in Polonia. Così, le SS decisero che, da quel momento in avanti, per i trasferimenti di ebrei si sarebbero usati carri-bestiame: i treni merci potevano aspettare ore e anche giorni al freddo o al caldo: non faceva differenza.
L’autorizzazione a portare con sé fino a 50 chili di bagaglio rimase in vigore anche in seguito, quando i trasferimenti non erano ormai più volontari ma obbligati e la destinazione non era più un ghetto ebraico, ma un campo di sterminio. Perché? Lo spiega perfettamente il sociologo Benedikt Kautsky, un superstite di Auschwitz: «Se le vittime avessero saputo ciò che le attendeva, sarebbe stato rallentato ed intralciato lo svolgimento delle operazioni. Ecco perché veniva loro detto soltanto che andavano verso le regioni dell’Est, per lavorare nei ghetti ebraici. In pari tempo, si consigliava loro di portare con sé il massimo possibile di dotazioni personali, data l’impossibilità di procurarsi biancheria, vestiti, vasellame, utensili, eccetera, in quelle lontane regioni. Con questo plausibile stratagemma, gli ebrei erano invogliati a portarsi dietro non solo montagne intere di indumenti, ma anche strumenti sanitari, medicinali, utensili particolari, e soprattutto valori sotto forma di divise straniere, oro, gioielli, sia apertamente, sia clandestinamente».
Léon Poliakov, nel suo fondamentale «Auschwitz», ha raccolto la testimonianza di una deportata scampata al Lager: «Appartenevo ad un gruppo di duecento detenute destinate al “Canada”. Il “Canada” era un agglomerato di trenta baracche dove venivano ammassati gli oggetti che gli internati portavano con sé, cioé quasi sempre le loro cose più care. Il nostro lavoro consisteva nel selezionare gli oggetti appartenuti a quelli che erano stati appena gasati e inceneriti. In una baracca c’era un gruppo che sceglieva esclusivamente scarpe, un altro solo vestiti da uomo, un terzo vestiti da donna, un quarto vestiti per bambini. In un’altra baracca, detta delle cibarie, ammuffivano e marcivano montagne intere di viveri, che i gasati avevano portato con sé al momento della deportazione. In un’altra baracca venivano selezionati gli oggetti di valore. Un gruppo speciale doveva smistare tra le varie baracche i vari oggetti tolti ai condannati. Io ero addetta ai vestiti da donna. I vestiti da donna erano ammassati ad una estremità della baracca e noi dovevamo farne dei pacchi da dodici pezzi, ripiegando accuratamente i vestiti e poi legando il tutto. Giornalmente partivano decine di autocarri per la consegna in Germania di quelle cose depredate. Bisognava frugare accuratamente ogni vestito alla ricerca di gioielli o di oro nascosti».
Non tutti gli ebrei credevano alla favola del trasferimento «per lavorare all’Est». Su un «trasporto» di 523 ebrei berlinesi del 3 aprile 1942, 57 non si presentarono alla partenza: si erano tolti la vita. Ogni «Transportliste» giungeva a destinazione con decine di croci segnate a matita accanto ai nomi: non erano soltanto i nomi dei morti durante il viaggio, erano anche quelli dei suicidi. Il terribile record fu raggiunto il 3 ottobre dello stesso anno 1942: 208 ebrei su 717 destinati ad Auschwitz (quasi sempre famiglie intere) preferirono darsi la morte. E non tutti i tedeschi ignoravano la sorte che attendeva gli ebrei. Domenica 11 novembre 1941, Don Lichtenberg, di 65 anni, parroco della chiesa cattolica di Sant’Edvige, a Berlino, annunciò dal pulpito di voler seguire il destino degli ebrei deportati «per poter pregare accanto a loro». Fu esaudito. Morì a Treblinka. Il 19 luglio 1944, il suo vescovo, il cardinale di Berlino Von Preysing, assolverà il colonnello Claus von Stauffenberg che, in confessione, gli aveva annunciato il suo proposito di uccidere il Führer.
Ricordiamo come si concluse il tentativo di porre fine alla follia hitleriana. Nel pomeriggio del 19 luglio 1944, Claus von Stauffenberg, nel suo ufficio di Capo di stato maggiore dell’Ersatzheer, l’Esercito territoriale, alla Bendlerstrasse, ricevette una telefonata con l’ordine di recarsi l’indomani a Rastenburg, quartier generale del Führer, per partecipare alla conferenza militare delle ore 13 e riferire sulle nuove Divisioni di Volksgrenadiere, altra carne da macello da gettare sul fronte russo. Il colonnello si mise subito al lavoro per preparare la sua relazione. Alle 20 uscì, salì in macchina e si avviò verso casa. Durante il percorso, si fermò a pregare nella chiesa cattolica di Dahlem. Esattamente dieci giorni prima si era confessato e comunicato dall’arcivescovo di Berlino, cardinale conte Von Preysing, al quale aveva preannunciato che avrebbe ucciso il Führer. Il cardinale non aveva voluto frapporre ostacoli religiosi alla sua decisione. Poiché la decisione era ormai presa. Purtroppo il tentativo fallì perché Hitler sopravvisse all’esplosione della bomba collocata sotto il tavolo delle conferenze, e diede inizio alla soppressione in massa di chi aveva aderito al complotto.
Ma non furono solo i generali ad opporsi a Hitler e alla follia antisemita. Dopo l’istituzione della dittatura (23 marzo 1933, «Ermächtigungsgesetz», legge sui pieni poteri), nonostante il regime di terrore e di violenza, si sviluppò, nei vari strati della popolazione, un’opposizione che andò dal non allineamento al segreto aiuto prestato agli ebrei perseguitati, dalla critica fino al complotto attivo. Schierata in primo piano contro il regime, la Chiesa cattolica. L’enciclica «Mit brennender Sorge» di Pio XI, del 14 marzo 1937, suonò chiara ed inequivocabile condanna del nazismo, bollato come ideologia pagana e razzista. Subito dopo la pubblicazione dell’enciclica, le associazioni cattoliche furono sciolte, i direttori delle loro riviste arrestati e sovente condannati a morte, decine di ecclesiastici arrestati con motivazioni pretestuose (processi-farsa per frodi valutarie o atti di immoralità furono imbastiti contro vescovi e semplici parroci), conventi e beni ecclesiastici confiscati, secondo un canovaccio direttamente mutuato dai giacobini della Rivoluzione francese, e fatto proprio anche dai regimi comunisti. Ciononostante, il vescovo di Münster, conte Von Galen, trovò il coraggio, nel ’41, di pronunciare un’omelia «contro le persecuzioni razziali, la folle eutanasia, gli arresti indiscriminati, la violazione dei più elementari diritti umani». Mentre gesuiti celebri come padre Delp e padre Rösch, provinciale dell’Ordine in Baviera, diventarono le guide spirituali del «Circolo di Kreisau», da dove uscirà il colonnello Von Stauffenberg.
Diversa la vicenda della Chiesa protestante, una parte della quale si era schierata fin dall’inizio col nazismo. Nel luglio ’34 si giunse all’inevitabile scissione. Si formò la chiesa nazionale dei «Deutsche Christen», che elesse il «Reichsbischof», il «vescovo del Reich», nella persona del pastore Ludwig Müller. I pastori di stirpe non ariana furono cacciati. L’«Arierparagraph» proclamava la guerra incondizionata contro gli ebrei e la «santa alleanza tra la croce uncinata e la croce di Cristo». «Noi siamo», scrisse il «Reichsbischof», «le SS di Gesù nella lotta per la distruzione dei mali fisici, sociali e spirituali della nazione». I dissidenti e gli espulsi reagirono a queste sciocchezze con un sinodo tenuto a Barmen. Fu costituita la «Bekennende Kirche» i cui capi spirituali divennero il teologo Hans Barth e i pastori Martin Niemöller, Hans Asmussen e Dietrich Bonhöffer. Pagheranno tutti con la vita, assieme ai preti e ai vescovi cattolici.
Nell’ambito della resistenza cattolica va inserita anche la commovente vicenda della «Weisse Rose» di Monaco. Nel febbraio ’43 il Gauleiter della Baviera, Paul Giesler, al quale erano state consegnate alcune delle lettere della «Weisse Rose» (le lettere della «rosa bianca», scritte dai fratelli Hans e Sophie Scholl, duplicate con il ciclostile e inviate a migliaia di tedeschi, con la denuncia dell’empietà e dei crimini nazisti), decise di affrontare i «ribelli» nel loro covo. Tenne un discorso all’Università, un discorso volutamente volgare, contenente l’invito agli studenti ad andare a combattere «anziché perdere il loro tempo sui libri», e alle studentesse «a rendersi utili, magari regalando un figlio all’anno al Terzo Reich». «Non dubito minimamente», proseguì, «che le più carine troveranno un uomo con cui accoppiarsi. Per le racchie, offro la mia scorta di SS».
Era troppo. Il Gauleiter fu coperto di fischi e le SS scaraventate a calci fuori dell’aula magna. Quel pomeriggio, diversi cortei di studenti percorsero le vie del centro, aggredendo le SS e la polizia. In serata, due Divisioni corazzate ristabilirono l’ordine a raffiche di mitraglia. I fratelli Scholl (lui venticinquenne, studente di Medicina, lei ventunenne, iscritta a Biologia), riconosciuti quali capi dell’insurrezione, furono arrestati e decapitati con una mannaia. Li seguì sulla forca l’ispiratore del gruppo, il professor Kurt Huber, titolare di Filosofia teoretica e profondamente cattolico. Nella sua ultima lettera scrisse: «La morte è la bella copia della mia vita».
da: www.riscossacristiana.it
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