di Emanuele Samek Lodovici
Dal volume curato da Gabriele De Anna, L’Origine
e la Meta. Studi in memoria di Emanuele Samek Lodovici (Edizioni Ares, pp.
280, euro 16), pubblichiamo l’inedito dello stesso Samek Lodovici sulle regole
per «educarsi all’intelligenza». Si tratta della trascrizione della
registrazione dell’ultima conferenza pubblica di Emanuele Samek Lodovici,
tenuta tre settimane prima dell’incidente stradale del 17 aprile 1981 in cui
rimase coinvolto e che richiese un intervento chirurgico, svoltosi il 5 maggio
1981, durante il quale Samek morì. La trascrizione è integrata con aggiunte
tratte dalla registrazione di un’altra conferenza, tenuta in precedenza da
Samek, sullo stesso tema.
L’educazione all’Intelligenza è da lui intesa
come educazione alla vita riuscita, piena e feconda. Una conferenza che,
dunque, è quasi un testamento spirituale e che tocca talvolta, sia pur
brevemente, anche il tema dell’altra dimensione (che Samek coltivò profondamente)
della vita riuscita: quella religiosa. Le espressioni colloquiali e del parlato
di questa sua conversazione (divulgativa e non accademica: lo si noti), sono
state lasciate: anch’esse aiuteranno il lettore a comprendere lo stile
brillante e insieme lo spessore sapienziale di questo grande uomo, prima ancora
che grande pensatore.
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Mi sono detto: perché non indicare delle regole
in grado di propiziare l’intelligenza? Tali regole, che possono essere
ristrette o allargate a piacere, valgono sia per l’uomo sia per la donna, ma, a
mio avviso, servono di più alle donne nella misura in cui esse sono purtroppo
fruitrici di un’immagine che non le aiuta a interpretarsi come esseri
intelligenti, come invece esse sono assolutamente: lo sono quanto gli uomini se
non qualche volta di più.
C’è però un paradosso iniziale di cui voglio
parlarvi: per apprezzare il valore delle regole dell’intelligenza (o regulae
ad directionem intelligen-tiae, come direbbe Cartesio) bisogna essere
intelligenti. Solo chi è intelligente dovrebbe essere in grado di capire perché
l’intelligenza è importante e perché sarebbe molto importante educarsi a essere
intelligenti.
Quali sono queste regole? Ecco le prime tredici.
1 La prima regola che ci possa
permettere di cominciare a educarci all’intelligenza è sapere che
l’intelligenza è un dovere, non è dunque facoltativa: dobbiamo essere
intelligenti, ricordati che devi essere intelligente, che devi esercitare
l’arte del sospetto, ricordati che non devi farti ingannare. Meglio un infelice
intelligente che un uomo felice ma idiota, ingannato. Dunque un primo criterio
è che l’educazione all’intelligenza è un nostro compito, un qualcosa che
dobbiamo fare e che non possiamo demandare ad altri.
2 La seconda regola di questo
educarci all’intelligenza è che ci educhiamo all’intelligenza quando capiamo
che non è indifferente il linguaggio che usiamo: non è lo stesso usare il
turpiloquio piuttosto che il non turpiloquio. Il turpiloquio non va rifiutato
per delle ragioni che io ritengo moralistiche (le brutte parole), ma perché
rappresenta il mondo attraverso pochi segni: gli organi sessuali sono pochi. Le
possibilità semantiche degli stessi saranno venti o trenta, massimo
venticinque. Ora, una persona, un giovane che ha a disposizione solo venticinque
possibilità semantiche, vale a dire venticinque possibilità di conoscere il
mondo, non potrà cogliere una cosa meravigliosa come il movimento di un gatto
che salta da un mobile su una poltrona e graffia la poltrona, o semplicemente
lo svariare di un colore durante un’aurora o un tramonto, o ancora l’enorme
differenziazione psicologica della persona che abbiamo innanzi.
Se fossimo come degli entomologi e riuscissimo a
studiare l’uomo come gli insetti e a farci battezzare dalla stupidità
linguistica, ascoltando per esempio il colloquio dei ragazzi sui mezzi pubblici
al rientro da scuola, ci renderemmo conto che il dramma non sta nella brutta
parola, ma nel fatto che queste persone non parlano e chi non ha le parole non
ha le cose, non ha mondo: se vogliamo strappare a una persona il mondo, basta
strapparle le parole con cui capisce quel mondo. Le parole saranno sempre più
impoverite di significato e crederà che il mondo corrisponda alla povertà di
significato delle sue parole.
La perdita della nostra capacità di significare
attraverso il nostro linguaggio nel mondo è una perdita del mondo. E
un’educazione al’intelligenza comporta decisamente l’esclusione del turpiloquio
inutile, il turpiloquio va usato quando è differenziato e personalizzato. Che
sia detta effimeramente l’ingiuria quando c’è l’arte dell’ingiuria, ma che sia
detta in quel momento e mai più. Una lancia a favore del turpiloquio può essere
spezzata quando viene usato in media ogni venti giorni per avere la possibilità
di lanciare un’ingiuria che è diversa da un’altra di venti giorni prima.
Ritengo che in questo caso il turpiloquio possa essere usato, ma non deve
essere usato come strumento per parlare, se vogliamo (come dobbiamo) avere
dello stile.
Perché dobbiamo educare i nostri figli a non
usare il turpiloquio? Perché se li educhiamo piuttosto a un linguaggio
significativo moltiplichiamo il mondo: se non abbiamo linguaggio non abbiamo
mondo. Questo è un fatto estremamente importante e non è un caso che in una
strategia totalitaria si tenda a privare l’uomo del linguaggio e a fare in modo
che l’uomo tenda a interpretare le parole al loro livello più basso. Per
esempio, quando l’uomo parla di fortezza, si vuole far sì che egli la intenda
solo come forza fisica e non come la capacità di resistere al dolore e alla
sofferenza, e quando egli parla di sapienza si vuole far sì che essa venga
intesa solo come erudizione e non come sapore dell’esistenza.
3 La terza regola fondamentale,
legata intrinsecamente a quanto ho detto precedentemente (sapere che
l’intelligenza è un dovere, sapere che il turpiloquio deve essere espunto
perché non è significativo) è che ci si può educare all’intelligenza se
sappiamo che dobbiamo avere uno stile. Questo punto dell’educazione
all’intelligenza si capisce da sé quando viene detto delle donne. Esse infatti
sono naturalmente portate ad avere uno stile. Drammaticamente, come dicevano i
classici, «corruptio optimi pessima», anche perché attraverso la
donna, come attraverso un collo di bottiglia, passano le generazioni future.
Educazione allo stile vuol dire allora educazione del carattere: conoscersi per
governarsi.
Non guardare ai frutti dell’azione, ma educarsi
alla modalità dell’azione stessa e, poi, se ci saranno risultati, tanto meglio.
Il risultato, che pur è importante, è irrilevante rispetto all’altra cosa più
importante: il modo in cui arriviamo al risultato. Lo status che conseguiamo
vivendo (ingegnere, avvocato ecc.) sarà comunque azzerato con la nostra uscita
da questo mondo. Allora quello che rimane di noi è il modo in cui abbiamo
vissuto. Che cosa vuol dire allora avere uno stile? La grande educazione
cristiana esprimeva questo concetto con un’immagine molto bella: l’esistenza è
un teatro dove è indifferente la parte che abbiamo (la parte del cameriere
oppure la parte del principe), perché quello che è essenziale è come recitiamo
la parte. Bisogna sapere, cosa fondamentale, che nella nostra vita non conta
ciò che facciamo, ma come lo facciamo, conta se lo facciamo bene, se lo
facciamo come Dio vuole che lo facciamo.
Plotino, autore a me molto caro, scrive in uno
dei suoi meravigliosi trattati sulla Provvidenza che quello che conta non è il
ruolo che stiamo recitando (docente, ingegnere, uomo, donna, bambino ecc.), ma
come recitiamo quel ruolo. È assolutamente importante sapere che non valiamo in
base a quello che raggiungiamo, ai risultati che otteniamo, ma in base a come
otteniamo quei risultati. Questa è una cosa che ci rende molto meno nevrotici
di fronte alla competitività perché quello che conta è come siamo. Allora ecco
l’essenza profonda di questa regola dell’intelligenza: educarsi ad avere uno
stile, una forma, un carattere, sapendo in fondo che questa vita è un gioco: in
essa non conta tanto il risultato del gioco, ma come l’uomo gioca. Dal nostro
punto di vista, dobbiamo passare dal giocar male al giocar bene, uscire da
questa vita come giocatori migliori di quando vi siamo arrivati, imparare a
giocare meglio.
Il controllo della fantasia & della
volontà
4 La quarta regola utile per
l’intelligenza è educarsi al controllo della fantasia. Per quanto possa
apparire sorprendente, educazione alla fantasia, quale forma di educazione
all’intelligenza, non vuol dire che non bisogna avere fantasia, perché, anzi,
la fantasia incentiva la risoluzione di problemi di ogni natura. Educazione
della fantasia significa il controllo della parte negativa della fantasia, cioè
il fantasticare, l’uscire dal proprio ruolo e dalla propria vita, pensare che
se fossimo in un altro posto sarebbe meglio che nel posto in cui siamo, che sarebbe
meglio se fossimo in altra famiglia, scuola, ambiente di lavoro, eccetera. È
importante sapere che è proprio nell’ambiente in cui sono che si gioca il mio
destino, lì mi sto giocando la mia esistenza, lì devo acquisire un carattere.
Le riviste femminili spingono la donna a
fantasticare in questo senso: a uscire da sé, a ritenere di non avere una
natura e ritenere di poter essere tutto. È quello che ha espresso
magnificamente Flaubert nel romanzo Madame Bovary. Madame Bovary è una
disgraziata perché non sente la responsabilità dell’esistenza, responsabilità
nel senso etimologico del termine: l’essere sposata alla realtà, non sente cioè
la propria esistenza come un destino, non sente il fatto di avere un marito
come qualcosa che le è destinato, bensì vuole evadere da questa realtà. La
nostra infelicità non dipende dal fatto che il mondo non continua a darci cose
meravigliose, ma dal fatto che in noi viene a mancare la capacità di
apprezzarle.
Questa cosa un autore spirituale la chiama la
«mistica del magari», che è una delle cose peggiori sul piano spirituale
perché, nel momento in cui siamo tentati di pensare un’altra situazione per noi
(«ah, se fossi missionario in Africa, ah se fossi principe, se fossi uomo e non
fossi donna, ecc.»), evitiamo di rispondere alle domande che ogni giorno la
nostra vita ci pone. Tutti i giorni ci viene posto un compito, forse noi non
accogliamo questa domanda, la domanda posta da un amico silenziosamente, quando
senza dirci nulla ci chiede di aiutarlo. Con la «mistica del magari» noi non
rispondiamo all’unica domanda importante che in quel giorno ci è stata rivolta.
Non dobbiamo credere infatti che le domande ci vengano poste soltanto
esplicitamente. La maggioranza delle cose che importano e che ci vengono
chieste, non ci viene chiesta direttamente.
Allora, per crearsi uno stile, è assolutamente
importante, a mio avviso, escludere il fantasticare, accettare la nostra
esistenza come un destino, accettare le opere da compiere, le persone che
amiamo, quelle che ci stanno intorno, perché a loro dobbiamo rendere la nostra
esistenza. Il controllo della fantasia ci dà il senso della realtà che viviamo
tutti i giorni, perché è andando contro l’ostacolo che divento grande, perché
faccio lo sforzo di superarlo. E anche se non dovessi riuscire a superarlo, è
assoluta-mente importante che io mi sia sforzato: per esempio, nello studio, se
mi sono sforzato di capire, ho vinto lo stesso anche se non ho capito. Lo
sforzo di capire, infatti, mi fa diventare enormemente intelligente: voglio assolutamente
capire, voglio sapere e non voglio farmi ingannare.
5 Si capisce allora quella che
io chiamo quinta regola: l’educazione alla volontà di verità, voler sapere come
stanno le cose, non accontentarsi di qualche pagina di giornale, o dei
rimasugli eruttati dall’ultimo mediocre, fare il possibile per capire,
assolutamente non essere superficiali, capire la solo apparente superiorità
della stupidità nei confronti dell’intelligenza. Come dice Aristotele, ciò che
caratterizza la filosofia e l’uomo in quanto filosofo – e ogni uomo è filosofo
– è la volontà di verità, voler sapere come stanno le cose.
Mi permetto allora di indicare le cinque regole
che, secondo me, permettono di individuare «lo stupido». In primo luogo «lo
stupido» ci infligge un danno senza esserne consapevole. La seconda regola è
che lo stupido è più pericoloso del malvagio perché questi ogni tanto si
riposa, mentre lo stupido è sempre in esercizio. La terza regola è che lo
stupido non sa mai di essere stupido. La quarta regola è che l’essere stupido è
indipendente dalla posizione che uno occupa e dalle sue proprietà: stupido può
essere chiunque, dunque non supponiamo che certe caratteristiche esterne ci
permettano di dire: «Quell’uomo senz’altro non è uno stupido». La quinta regola
è che l’intelligente, grazie alla propria intelligenza, capisce perché lo
stupido «fa carriera». Tra le cinque regole, le prime due sono quelle
fondamentali.
La capacità di rettificare & di stare
soli
6 Tornando alle regole
dell’educazione all’intelligenza, la sesta regola comporta che si sappia che
una delle sue regole fondamentali è la capacità di rettificarci: noi non siamo
non intelligenti quando sbagliamo, ma siamo intelligenti quando rettifichiamo.
Si educa un figlio all’intelligenza se lo si educa a rettificare, se gli si
insegna che non è intelligente chi non sbaglia mai, ma chi sa rettificare. È
meraviglioso se, per esempio come genitori, sappiamo dire ai nostri figli:
«Guarda, io ho sbagliato, avevi ragione tu». In questo modo noi li educhiamo
alla rettifica.
7 La settima regola
dell’intelligenza è la regola della solitudine, non nel senso di fare
l’individualista, ma capire che una delle cose fondamentali nella scoperta
delle cose che mi interessano è avere dei momenti di solitudine, dei momenti in
cui sono solo con me stesso. L’amicizia è fondamentale, riempie il cuore delle
cose più belle, è bello stare in compagnia, ma le decisioni per l’esistenza le
facciamo da soli. È importante anche stare soli perché è nella solitudine che
si fanno le vere scoperte, quelle che facciamo soltanto noi e che nessuno ci
riesce a far fare: qualcuno ci può indicare la direzione ma, per esempio,
capire davvero che cosa vuol dire la grandezza d’animo, la non invidia,
possiamo comprenderlo solo noi, quando abbiamo cominciato a praticarla e
l’abbiamo sentita dentro di noi. Pascal dice che il problema dell’uomo è
questo: che non riesce a stare da solo in una stanza. Dobbiamo far capire ai
nostri figli che è essenziale anche stare da soli in una stanza, perché in
questa si fanno più scoperte che insieme a tutti gli amici.
Autoironia, non far soffrire, supporre
che intelligenti siano gli altri
8 Altra regola
dell’intelligenza, l’ottava, è l’educazione all’autoironia: non prendersi
troppo sul serio, sapere che stiamo giocando, che questa vita è un gioco. «Non
essere così seri come un tedesco morto il giorno prima», come diceva Heine. È
assolutamente importante avere una distanza da sé stessi, cominciare a non
prendersi sul serio. Mi sono sempre piaciuti quei medici che non credono troppo
nella medicina. O quei filosofi che sanno che, come diceva Pascal, l’unico modo
per fare filosofia è prendersi gioco della filosofia; o quei professori di
latino e di storia che si rendono conto che, oltre al latino e alla storia,
infinite altre cose sono presenti nell’universo.
9 La nona regola, molto sottile,
ma importante, è quella che ci dice di stare molto attenti alle sofferenze che
possiamo infliggere agli altri senza saperlo. Un grande moralista del Seicento,
La Rochefoucauld, diceva questa frase a me molto cara: «Non c’è uomo tanto
intelligente da conoscere tutto il male che fa». Proviamo a rovesciare in
positivo questa affermazione: solo l’uomo veramente intelligente dispiega tutti
suoi sforzi per poter conoscere e prevedere tutto il male che fa. Provate per
un attimo a pensare se quella tal parola a un amico o a un’amica, alla madre,
al figlio, all’insegnante, ha una conseguenza che noi non sospettiamo in quel
momento, ma che potrebbe avere.
Questo atteggiamento ci mette in confronto con
gli altri attraverso la virtù più fantastica che è la carità: il fuoco della
carità, il guardare gli altri tenendo conto delle conseguenze di ciò che si
dice. Provate per un attimo a rispettare la personalità dei figli, a volere che
siano come sono, a volere la loro personalità: nessuno è mai tanto intelligente
da conoscere tutto il male che fa senza saperlo! Una regola davvero raffinata,
che ci rende e può renderci estremamente delicati nel rapporto con gli altri.
Certamente, se siamo dissipati sul piano della nostra attenzione, allora
passiamo questa vita pensando che gli altri siano soltanto dei gradini per la
nostra personale conquista. Attenzione dunque alle sofferenze che potremmo
infliggere agli altri senza saperlo!
10 Un’altra regola importante,
la decima, è quella regola che ci permette di capire che l’intelligenza da sola
non basta. Un autore molto raffinato, scrittore di romanzi gialli, che in
realtà non sono solo dei romanzi gialli bensì tendono sempre alla ricerca della
verità, cioè Chesterton, in Ortodossia, formula questa regola per
individuare l’intelligente stupido: «Il pazzo non è colui che ha perso la
ragione, ma è colui che ha perso tutto, eccetto la ragione», cioè che ha perso
tutta la necessaria dotazione di qualità umane, di virtù. Pensiamo allora a un
soggetto che vuole essere soltanto intelligente e ha perso il senso
dell’umanità, ha perso la cortesia, l’allegria, la capacità di stare con gli
altri, che non è leale né semplice, che insomma ha perso tutto, tranne la ragione:
costui è «l’intelligente stupido», colui cioè che non capisce che
l’intelligenza da sola non basta.
11 La regola successiva,
l’undicesima, è quella che ci permette di supporre che a essere intelligenti
siano gli altri e non noi. Non è detto che di fronte a un problema io abbia la
soluzione. Solo gli uomini intelligenti sanno trovare l’intelligenza negli
altri e cominciamo a essere intelligenti quando ammiriamo l’intelligenza degli
altri, e diventiamo veramente intelligenti quando non la invidiamo. È tipico
delle persone meschine non godere del fatto che gli altri abbiano delle doti.
Una regola del carattere, che era tipica del mondo medievale, era di coltivare
questa magnanimità. Proviamo a pensare a coloro che costruivano le cattedrali,
che le costruivano sapendo che la conclusione dell’opera sarebbe avvenuta dopo
di loro e che il prestigio per averla costruita sarebbe andato ad altri, eppure
avevano questa magnanimità: fare le cose senza vedere i frutti.
Spirito di meraviglia &
contemplazione della morte
12 Una dodicesima regola
richiede di educare sé stessi allo spirito di meraviglia, a non dare per
scontato il mondo che abbiamo, ad apprezzare il mondo che abbiamo e tutto ciò
che ogni giorno esso ci porta: dalle opere da compiere agli amici che abbiamo,
al dolore, alla felicità, all’affetto. È l’educazione a tornare bambini, allo
spirito di meraviglia che è tipico dei bambini, quello di chi entra nella
stanza la mattina di Natale e vede nell’angelo di cartone un angelo vero. Non
vuol dire che settantenni o ottantenni dobbiamo (per esempio) innamorarci della
balia, non vuol dire questo; bensì significa tornare ad avere quello spirito di
semplicità che è tipico dei bambini. Vuol dire meravigliarsi per il fatto che
ci siamo ancora, perché domani un ictus cerebrale ci potrebbe portare via…
Significa ringraziare per il fatto che ci siamo ed educare al ringraziamento.
Ciò comporta l’educazione ad avere un rapporto
con la realtà che non sia artificiale. Bisogna cioè togliere di mezzo tutte le
mediazioni artificiali di fronte alla realtà, abituarsi a vedere colori che non
siano dipinti o riprodotti su pagina, e saper vedere (per esempio) il colore di
un autunno e di un’estate, di un oggetto, di una foglia. Educare a sentire il
suono del vento, di una campana, di un ruscello ecc. Vuol dire educazione della
vista a vedere immagini che non siano filmate o fotografate: è tipico della
atrofizzazione della nostra intelligenza il fatto che andiamo in vacanza a
vedere immagini di cui abbiamo visto la diapositiva o la fotografia
nell’agenzia di viaggio. Vuol dire che non siamo capaci di vedere immagini che
non siano già state viste e quindi che siamo tendenzialmente portati alla
regressione della vista, dell’udito, eccetera. Questo spirito di meraviglia da
coltivare è quello tipico del bambino, che sa stupirsi uscendo di casa,
guardando una sfumatura di un colore. Se noi proviamo per un attimo a pensare
che questo teatro del mondo che noi stiamo recitando potrebbe, per quanto ci
riguarda, essere sbaraccato da un momento all’altro, allora la meraviglia la
proveremmo, ringrazieremmo certamente di più.
13 L’ultima regola
dell’intelligenza, la tredicesima, dice che diventiamo intelligenti se ci
esercitiamo a contemplare la morte, una delle cose che, più di tutte, può
insegnarci a capire la vita che abbiamo e che stiamo vivendo.
Se al centro della nostra intelligenza ci fosse
questa regola, cioè che esiste la fine, improvvisamente comprenderemmo quali
sono le cose che contano e quali invece quelle che non contano, che sono
risibili e stupide, che durano lo spazio di un mattino. La regola fondamentale
è: abituati a pensare che c’è la fine e che questa non riguarda gli altri ma
anche te, che anche tu hai questo destino ed è estremamente importante esserne
consapevoli. La morte va vista con serenità, ma va saputo che essa c’è, che io
ho un mutamento cellulare, che la mia esistenza va verso qualche cosa, che la
mia intelligenza si disperde.