venerdì 26 maggio 2017

Pensieri dispersi (1980-1999)

di Anna Maria Bonfiglio

Quando il gelido sospiro della solitudine avrà spento ogni vivida luce, ricorda che c’è sempre un ultimo stoppino.
Triste dimora quella che non conosce le cristalline risa di un bambino.
Se la dignità è il nostro primo dovere, l’orgoglio è l’arma più pericolosa.
Spesso ci attacchiamo a un’idea e ce la portiamo appresso per tutta la vita. Così quando ci affezioniamo ad una persona ci leghiamo all’idea che abbiamo di essa e a quello che vorremmo fosse per noi. E se anche ci procura pene e sofferenze le cerchiamo attenuanti e giustificazioni, non tanto per generosità ma per fornire a noi stessi il motivo del nostro attaccamento e per conservare quell’idea che ci piace di avere. In ultima analisi costruiamo noi stessi la persona che amiamo, le diamo forma e vita, intenzioni e reazioni, pensieri e gesti, e poi ci sentiamo traditi se restiamo delusi.
La vera solitudine è il non sapere stare con se stessi.
Il martirio è la forma sublimata dell’autolesionismo.
Dio ha dato agli uomini dei compiti che non sempre egli è in grado di svolgere nel migliore dei modi.
 “Sempre” è una parola piena di mistero e nello stesso tempo il simbolo della nostra buonafede.
Lo spirito può legarci più del corpo, ma la sintesi dell’anima e del corpo può darci una parte di quella completezza a cui aspiriamo.
Dovremmo permettere che qualcuno legga le pagine della nostra vita che gridano di più. Solo così il grido potrebbe placarsi in un sussurro che chiede conforto.
I ricordi non si possono distruggere come la pagina di un libro, essi sono un’isola privilegiata alla quale non può accedere nessuno.
Vivere nell’amore di ognuno e nel dolore di tutti: la preghiera più bella che possiamo innalzare a Dio.
Ci affezioniamo troppo alla vita, questa schiavitù ci affascina e ci soggioga; siamo dominati dal desiderio di aspettare il domani, spezzare questo nodo ci priverebbe del piacere perverso di soffrire fino all’ultimo spasimo.
La coscienza uccide i sentimenti. Il volere andare a fondo in se stessi inibisce l’immediatezza, soffoca gli impulsi. Il doversi allineare alla formula del vivere “comune” avvelena la pura essenza del desiderio, sì che ogni nostro atto distaccandosi dalle nostre intenzioni viene contaminato dal contatto con una realtà organizzata in schemi: quello della morale, quello del peccato, quello del dovere, quello della coscienza. Il libero arbitrio è una trovata di chi vuole illudere se stesso, in realtà la libertà non esiste. Tuttavia il nostro spirito anela a questa libertà, che proprio perché utopica, è quanto di più desideriamo.
La scienza crea, la scienza distrugge, la scienza fa rinascere: un cerchio che si allarga senza mai chiudersi, contenendo tutte le innumerevoli capacità umane. Non c’è in tutto questo qualcosa di divino?
Il potere dell’intelligenza è illimitato quando essa si sviluppa come una quercia in un terreno libero e non come un fiore dentro un vaso.
Il mito di Amore e Psiche contiene la più bella metafora: l’amore è mistero. Non bisogna mai tentare di indagarlo, di spiegarlo, di analizzarlo o teorizzarlo. Occorre solo accettarlo nelle sembianze con cui si presenta, fidarsi e non accendere mai “la lampada”, perché nel momento in cui volessimo tentare di “conoscerlo” e farne un teorema o se volessimo penetrarne l’essenza, sarebbe perduto l’incanto. Ci sono cose che la sola ragione non può chiarire e che racchiudono l’imperscrutabile. L’amore è una di esse.
Un giorno, sul filo della memoria, s’affacceranno immagini degli attimi compiuti. Allora, nell’accostare a un volto le parole, ordiremo preziose trame. E tutto ci apparirà più bello.
La vita è un libro bianco dove è possibile scrivere qualunque cosa, anche la più inverosimile e assurda vicenda.
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Freud e la sua dottrina aprirono un nuovo orizzonte per indagare i problemi della psiche e finirono per addebitare al sesso frustrazioni e problemi irrisolti. Ora che il sesso non conosce più frontiere, ora che sono cadute le inibizioni, superati i sensi di colpa, fugati tabù e costrizioni, possiamo forse dire di essere più liberi e felici?
Mensch: groviglio di pene, nodo inestricabile di sofferenza e solitudine, somma di errori e incertezze, castello di speranze fallite e riconquistate.
Chi ha la sorte di vivere a contatto con i propri genitori non può sottrarsi alla pena di vederli invecchiare e avviarsi, giorno dopo giorno, alla meta ultima. Ed è un’agonia lenta, uno strazio dell’anima. Loro, che ci hanno sostenuto nella parabola ascendente, poco per volta, impercettibilmente, regrediscono a uno stadio di ingenuità e di ostinazione simile a quello dei fanciulli. Il loro fisico si corrompe, scema di forza e di volontà; la loro autorevolezza si arrende e si riduce a piglio petulante. Ma sopravvive in loro l’amorevole caparbietà di proteggerci, il desiderio di donarci l’unica ricchezza di cui sono rimasti possessori: la loro esperienza.
Arriva sempre il momento in cui bisogna fare i conti con il tempo che passa. Finita la stagione giovane e oltrepassata l’età di mezzo, giunge infine “il tempo terzo”. Non vecchiezza, ma età di riflessione, qualche volta di rimpianto, di prospettive “altre”. I giovani venuti dopo di noi hanno percorso il proprio cammino, li abbiamo visti studiare, lavorare, sposare e mettere al mondo nuove vite. Talvolta guardiamo indietro e ci stupiamo di avere vissuto tanto, perché dentro sentiamo di non essere ancora pronti a deporre le armi. Succede allora di poter avvertire un senso di inadeguatezza al nostro presente e di provare il timore di non doverci più attendere grandi cose dalla vita. Di sentirci disarmati e impotenti di fronte ad un tempo che ci ricorda la dolcezza del miele che abbiamo assaporato e al contempo ci lascia un retrogusto amaro per il mondo che avremmo voluto e che non è.  

venerdì 19 maggio 2017

Il progetto di Tommaso Romano: Una destra d'ispirazione cristiana

di Piero Vassallo

Il presente testo è l'esito di una lunga e avvincente conversazione con Tommaso Romano, uno fra i più autorevoli e geniali interpreti della destra felicemente non compromessa con l'azzoppante/incapacitante disordine finiano, ossia testimone di un pensiero non devastato e non depistato dal delirio al galoppo nel vuoto mentale.
L'ingente opera di Tommaso Romano contiene, oltre la esatta misurazione del malessere gongolante nell'area destra, assordata dai megafoni del nulla, la ragione dell'obbligo di restaurare la fedeltà della politica ai princìpi del diritto naturale. Obbligo scioccamente disatteso dal disordine mentale al potere nella destra, durante l'infelice, sgangherata e sconquassante segreteria di Gianfranco Fini.
Alla cultura della destra nazionale (ridotta al lumicino da una gestione incoerente e dispersiva, quasi al limite della flatulenza urlante) incombe l'obbligo di affermare e diffondere la tradizione cattolica, la sola atta a contrastare il desolante malessere di stampo laicista e massonico.
La destra – secondo la cultura fedele alla indeclinabile tradizione – è l'antidoto al sistema della menzogna, che avvilisce e avvelena gli italiani e abbassa la politica nazionale al livello di un umiliante sedile offerto alle incubose, dirompenti natiche della cancelliera di Germania.
Il fondamento spirituale della vera destra è, infatti, la fedeltà a quella sapienza cristiana, irriducibile ai teutonici furori, sapienza che ha attribuito alla nazione italiana, luce del Medioevo e intralcio alla rivoluzione, un indeclinabile primato spirituale e civile.
Ora la cultura della destra italiana è strutturalmente cattolica, ossia, giusta la definizione di Francisco Elias de Tejada, fedele a una tradizione spirituale, refrattaria alle chimere modernizzanti, che volano – indisturbate – nei circoli (o pii circhi) disorientati e paralizzati dalla strutturale fragilità, ultimamente al potere nel Vaticano.
Il compito di una destra fedele al primato, che compete alla nobile tradizione nazionale, è dunque la netta separazione della strenua conformità ai princìpi cattolici dalla sterile e vana tentazione di imitare le teologiche, modernizzanti acrobazie, messe in scena dalla volubilità del clero affarista e politicante.
L'orizzonte della destra è la risoluta confutazione degli errori generati dalla fantasticheria contemplante una nebbiogena confusione tra progresso temporale e progresso intellettuale.
Di qui la tenace e intelligente fedeltà di Tommaso Romano, in questo degno erede e continuatore dell'opera di De Tejada, oltre che testimone di un cattolicesimo immune dalle tentazioni al compromesso, voglie circolanti e scivolanti nei nudi e talora osceni corridoi del potere clericale.
L'attività culturale e politica svolta fedelmente da Tommaso Romano, infatti, percorre, con acuta e disciplinata intelligenza, una via divergente dal conformismo, fanfara che avvilisce e tormenta i margini e le cupole della Chiesa post-conciliare.
Da tale azione discende l'autorità, che ha fatto avanzare il pensatore ed editore Tommaso Romano nella prima e prestigiosa fila del cattolicesimo immune e refrattario ai suoni sgradevoli, prodotti delle trombe squillanti nei teatri occupati dalla disgustosa cagnara prodotta dai modernisti.
da: Contravveleni e Antidoti 
13 Maggio 2017

Questo è il mio commento che ho pubblicato sulla mia pagina facebook



Una testimonianza del grande Amico e straordinario pensatore Piero Vassallo, di Genova ,che da misura di un sodalizio che data ben 45 anni e che si e' sempre cementato in comuni orizzonti ideali e di azione tradizionale nella fedelta' anzitutto a Gesu' Cristo .Ormai fuori per mia volonta' da tutte le possibili e impossibili destre,il mio unico progetto,senza nulla rinnegare della mia formazione e del mio passato,e' fornire qualche idea a tutti coloro che non vogliono abdicare al nulla.Grazie con cuore Amico ,carissimo Piero,e grazie per quello che generosamente hai voluto scrivere,ammirazione per la tua coerente attivita' e per il tuo magistero vivo.

domenica 7 maggio 2017

Signorina Rosina: un libro di frontiera

di Antonio Pane 

Per prima cosa devo fare una confessione. Mi occupo di Antonio Pizzuto dal 1988, ossia da quando mi capitò di comprare a Firenze, in una bancarella di libri usati, Signorina Rosina. Dell’autore non avevo mai sentito parlare, ma il titolo vagamente ‘gozzaniano’ mi incuriosiva, e il prezzo era davvero modesto. Il libro mi sbalordì. Era bellissimo, ma di una bellezza aliena, senza termini di paragone con quanto conoscevo. Da dove era spuntato? Aveva dei precursori? E quali? Confesso che, dopo trent’anni di letture e di studi, non sono in grado di dare una risposta esaustiva a questa domanda. Confesso che ogni volta che rileggo Signorina Rosina (e lo ho riletto non so quante volte), mi sembra di leggere un libro nuovo di zecca, un libro che ogni volta torna a sorprendermi.
Sorprendente è anche la vita di Pizzuto, che non assomiglia certo alla vita di uno scrittore, come può essere quella di un Moravia o di un Pasolini. Pizzuto nasce a Palermo nel 1893. È il primogenito di un avvocato e di una poetessa, ed è nipote di Ugo Antonio Amico, una figura rappresentativa della cultura siciliana del secondo Ottocento, un fine letterato che fra i suoi estimatori può annoverare Carducci, Settembrini, Tommaseo, D’Ancona, Mazzoni. Il percorso educativo di Pizzuto non è molto diverso da quello del ceto benestante e colto da cui proviene. Comincia con una scuola elementare di impronta froebeliana, prosegue con il Ginnasio-Liceo e la facoltà di Giurisprudenza (dalla quale uscirà laureato con lode nel 1915) e si prolunga con la frequenza dei corsi di Filosofia e con una seconda laurea, sempre con lode, che arriverà nel 1922.
Altrettanto lineare è il suo iter lavorativo: nel 1918 entra per concorso nella Pubblica Sicurezza con il grado di vicecommissario e rimane alla Questura di Palermo fino al 1930, quando è chiamato al Ministero dell’Interno, con incarichi nella polizia politica e nella polizia internazionale. Nel 1945 è promosso vicequestore di Trento; nel 1946 diventa questore di Bolzano; nel 1947 è chiamato a dirigere la questura di Arezzo, dove rimane fino alla fine del 1949, quando, approfittando di uno ‘scivolo’, ottiene il pensionamento anticipato.
Da questa vita di burocrate, una vita simile a quella di tanti figli della nostra borghesia meridionale, viene fuori nel 1956 Signorina Rosina, il primo dei libri ‘marziani’ di Antonio Pizzuto, o almeno il primo pubblicato con il suo nome (nome leggermente modificato, in quanto all’anagrafe Pizzuto è registrato come Antonino). Signorina Rosina è però un esordio sui generis, perché il libro viene in realtà a coronare un quarantennio durante il quale Pizzuto ha prodotto – dopo una serie di incunaboli costituita da vari sonetti e novelle, dal romanzo Le aquile e da una «tragedia in cinque atti» – ben cinque opere narrative fatte e finite: la Sinfonia del 1923; la Sinfonia del 1927-28; Sul ponte di Avignone; Rapin e Rapier (composto tra il 1944 e il 1948); Così (allestito tra il 1949 e il 1952). Di queste opere, cui va aggiunto un altro gruppetto di novelle, solo Sul ponte di Avignone è stata pubblicata: è uscita nel 1938, ma sotto pseudonimo, ed ha meritato una recensione piuttosto cordiale di Adriano Tilgher. L’unico testo apparso prima di Signorina Rosina, con il nome anagrafico Antonino Pizzuto, è invece una traduzione: la traduzione, corredata di introduzione e note, dei Grundlegung zur Metaphysik der Sitten (Fondamenti alla metafisica dei costumi) di Kant.
Più che il punto di partenza di una regolare carriera letteraria Signorina Rosina è dunque uno spartiacque: tra il quarantennio di lavoro ‘sommerso’ e il ventennio di lavoro ‘alla luce del sole’ che produrrà altri nove libri narrativi e si concluderà con la morte nel 1976, che coglie Pizzuto mentre sta a imbastire un nuovo libro, significativamente intitolato Spegnere le caldaie.
Signorina Rosina è quindi un frutto maturo. Un frutto che presenta, come scrisse Contini, un autore «traumaticamente perfetto, rotondo come un uovo». Ma è un frutto avvelenato, un frutto ad alto potenziale esplosivo, una bomba capace di radere al suolo i monumenti del romanzo naturalista. Ed è curioso che questo atto eversivo sia perpetrato da un signore con una biografia da ‘conformista’, da onesto servitore dello Stato: un gentiluomo che realizza il suo ‘delitto’ con i modi sommessi, cortesi, inappuntabili, con l’aplomb di certi personaggi di Hitchcock. 
Antonio Pizzuto, Fondazione A. Mizzuto, Roma
Signorina Rosina è in primo luogo un attentato all’Unità. Il ‘crimine’ è obliquamente dichiarato nel capitolo quindicesimo, quando Compiuta legge in una lettera di Bibi che egli «stava cercando l’Unità» e, scambiando questa fantomatica Unità con il giornale di Gramsci, lo esorta «a guardarsi dalla politica, specie da quei cattivacci». Con questa battuta ‘alla Totò’, una di quelle battute di cui talvolta si serve per alleggerire un contenuto giudicato troppo serio per prenderlo sul serio, Pizzuto chiama segretamente in causa il primo punto del manifesto di poetica che accompagnava la Sinfonia del 1927-28 e che lo impegna a rinunziare «alla unità narrativa, all’unità di azione». Ma Signorina Rosina non si limita solo a sbarazzarsi delle famose unità aristoteliche. Signorina Rosina distrugge alla radice ogni pretesa di rappresentare la realtà come qualcosa che ci sta di fronte e che possiamo tranqu illamente riprodurre come un pittore riproduce un paesaggio. Signorina Rosina mette fuori gioco tutti i procedimenti, tutto l’armamentario del romanzo tradizionale (ossia gli strumenti che la maggior parte degli scrittori continua ad usare senza problemi); e li mette fuori gioco dando piena attuazione agli altri articoli della sua ascetica ‘professione di fede’. Il famoso manifesto del 1928 contemplava infatti, dopo la rinuncia preliminare all’Unità, «la rinunzia allo psicologismo e quindi, a uno studio dei personaggi; la rinunzia alla presentazione di un ambiente, di un mondo determinato e di conseguenza, la rinunzia a un colore fondamentale e dominante; la rinunzia a ogni tesi particolare; la rinunzia a considerare la realtà da un punto di vista meramente sensibile; la rinunzia a fare letteratura erotica; la rinunzia a limitare la narrazione nel tempo e nello spazio; la rinunzia a seguire una o altra formula determinata».
Di tutta questa attrezzatura romanzesca in Signorina Rosina non c’è traccia, come non c’è traccia del dialogato, una risorsa diegetica cui Pizzuto ha rinunciato a partire dal 1950. Ma, a dispetto di tutte le ‘rinunzie’, a dispetto di tutte le autolimitazioni che Pizzuto si impone, Signorina Rosina non è per nulla un deserto alla Beckett, dove il silenzio è saltuariamente interrotto da voci ‘fuori di testa’. Signorina Rosina è invece un ‘tutto pieno’, uno spazio gremito di figure, una giostra di eventi, un ininterrotto girotondo, in cui il finire di un’azione dà sempre la mano all’inizio di un’altra azione. Questo vuol dire che le otto rinunzie non hanno affatto abbassato il ‘tasso di narrabilità’ del mondo: lo hanno, al contrario, potenziato. Dopo questa ‘cura dimagrante’ il mondo è diventato più ricco, è diventato più vario. Le ‘rinunzie’ non fanno altro che esonerare l’autore dall’ obbligo del resoconto, dall’obbligo della completezza documentaria che induce a enumerare tutti gli oggetti presenti in una stanza o tutti gli antefatti di una data azione; le ‘rinunzie’ non fanno altro che conferire all’autore un’immensa libertà costruttiva, la libertà di scegliere i propri soggetti senza esserne condizionato, senza essere vincolato a una coerenza meramente esteriore.
La coerenza di Signorina Rosina, la sua mirabile coesione è di natura diversa. Signorina Rosina si può leggere, si deve leggere come una partitura musicale. Signorina Rosina non si propone di raccontare la vita di Compiuta, la vita di Bibi, la storia della loro relazione. Si può dire, semmai, che Signorina Rosina ‘enuncia il tema di Compiuta’, ‘enuncia il tema’ di Bibi, e declina questi temi in sontuose variazioni, e li fa rincorrere l’un l’altro, e li intreccia in molteplici modi, esattamente come accade in una fuga di Bach o in un quartetto di Beethoven.
Signorina Rosina si può anche leggere, si deve leggere come un film. Signorina Rosina è costruita a inquadrature parziali, a ‘scorci’ che invitano il lettore a integrare quel che manca, intervento che Pizzuto chiama «compartecipazione attiva» o, ricorrendo a un termine di Tommaso D’Aquino, «contuizione»: un intervento che è paragonabile a quello dell’occhio dello spettatore cinematografico, che mette in moto le immagini bloccate dei fotogrammi.

Pizzuto e Mauro de Mauro, 1967
Pizzuto può chiamare in causa il lettore perché aderisce alla dottrina di Cosmo Guastella, il filosofo siciliano di cui da giovane era stato devotissimo allievo, che afferma che la realtà è discontinua, consistendo in una successione di stati distinti, e che il movimento è una qualità attribuita alle cose dal nostro cervello. Questa concezione è alla base della breviloquenza di Signorina Rosina: un laconismo che nelle opere successive sarà portato alle conseguenze più estreme e il cui modello letterario si può far risalire ad autori latini come Tacito o Sallustio, che Pizzuto ammirava. Come esempio di concisione Pizzuto amava scherzosamente citare quel passo del Bellum Iugurthinum dove si dice: «Il tizio fu catturato. La sua testa fu portata al re». Un passo dove, come succede nel cinema, si salta l’evento centrale, l’eccidio, lasciando a chi legge la facoltà di immaginarlo.
In Signorina Rosina non ci sono eventi centrali, non ci sono passi antologici che si possono isolare, che possono esemplificare o riassumere la storia. Volendo usare una metafora topografica, Signorina Rosina si può paragonare a una città senza centro storico, una città dove si passa da una periferia a un’altra. Signorina Rosina è costruita ‘in orizzontale’, mediante la dislocazione ‘a macchia d’olio’ o, come dice Baldacci, ‘a muffe’, di frammenti più o meno estesi o di fili narrativi indipendenti; Signorina Rosina tesse una sorta di patchwork, compone un mosaico di spunti eterogenei, istituisce una radicale democrazia narrativa, una ‘coesistenza pacifica’ di azioni differenti, configura un mondo senza gerarchie, dove un’azione secondaria può diventare più importante dell’azione principale e lo sfondo può diventare più importante del primo piano.
In una lettera al suo amico ed editore Vanni Scheiwiller Pizzuto sostiene che l’essenza delle sue pagine sta nel ‘superfluo’, sta nelle ‘pieghe’. Gli stessi protagonisti di Signorina Rosina, Bibi e Compiuta, non rappresentano le ‘traiettorie di destini’ in cui Debenedetti faceva consistere la forma-romanzo, non rappresentano parabole biografiche, non documentano un qualsivoglia stato civile; Bibi e Compiuta restano, come scrive Contini, puri luoghi geometrici, «punti di convergenza». Ma allora, di cosa sono fatti i personaggi di Signorina Rosina? Di cosa parla Signorina Rosina?
La risposta è adombrata nell’incipit del quindicesimo capitolo, che riassume il contenuto di una lettera di Bibi, e che recita: «chi siamo noi così misteriosi, inconoscibili a noi stessi, che stiamo a farci qui realmente mentre ognuno passa come può e sa le sue ore». Il tormentoso interrogativo di Bibi rimanda di nuovo alla dottrina di Cosmo Guastella. Secondo Guastella la realtà consiste solo e soltanto nell’atto della percezione: esse est percipi. Se non si può ammettere una realtà indipendente dall’io che la percepisce, allo stesso modo non si può ammettere un io indipendente dalla realtà che percepisce. Alla luce di questa dottrina si capisce perché la scena in cui Bibi, nell’ultimo capitolo, va a farsi visitare dallo «specialista psichiatra» termina su una accorata invocazione: «questa è la mia angoscia, il mistero che sto vivendo, un dove e un chi imperscrutabili, mistero non solo fuori di me, ma in me».
Alla luce della dottrina di Guastella noi viviamo tra i fantasmi che noi stessi abbiamo prodotto, la nostra vita procede senza requie di percezione in percezione, ossia, come dice spesso Pizzuto, da un punto di arrivo a un altro punto di arrivo, non è altro che il «pergere in infiniti calchi offerentesi ogni dove» con cui Pizzuto conclude il suo libro intitolato Penultime e che segue, per questa ragione, quello intitolato Ultime. Con questo verbo latino coniugato all’infinito, un verbo che usato come intransitivo indica l’andare innanzi, il dirigersi, il marciare verso, con questo verbo pergere Pizzuto rappresenta plasticamente la nostra vita come un cammino ‘alla cieca’, come un cammino attraverso le nostre ombre. ‘Alla cieca’ perché ogni percezione vale per se stessa, perché non è possibile stabilire graduatorie tra le percezioni, non è possibile distinguere tra realtà e sogno, non è possibile ricondurre le p ercezioni alle loro cause efficienti. La nostra vita non è una catena di cause ed effetti, la nostra vita è un susseguirsi di percezioni ‘anarchiche’, di percezioni che non si lasciano ordinare, che non si lasciano addomesticare. Non a caso, all’inizio del romanzo più autobiografico di Pizzuto, all’inizio del Ponte di Avignone, il narratore definisce la propria esistenza «una successione discontinua di stati frammentari».
Questa scena precaria del mondo, questo panorama in perenne mutazione fa nascere quel che Pizzuto chiama «stato di dubbio»: vale a dire la condizione di chi rimane a bocca aperta dinanzi a uno spettacolo inesplicabile, la condizione dello stupore. Signorina Rosina vuol essere una testimonianza di questa meraviglia. E noi lettori siamo chiamati a parteciparvi senza chiedere spiegazioni, siamo chiamati a condividerla in semplicità, evangelicamente, da poveri di spirito. Le sue figure fuggevoli, le sue figure che sembrano eclissarsi nel momento stesso in cui appaiono, non sono importanti per se stesse, ma in quanto sono messaggere di un transito misterioso, di un universo insondabile; insondabile perché è in ogni istante un universo ulteriore, un universo che si autotrascende: perché l’ultimo sarà sempre il penultimo. Un universo che si risolve nella sua musica misteriosa: nelle risonanze, negli armonici di un accordo di cui non potremo mai rintracciare la fonte, di cui avremo sempre un’infinita nostalgia. Signorina Rosina non può che chiudersi su un suono, un suono che è tanto più enigmatico quanto più è banale, il suono delle bottiglie della centrale del latte che «cozzando tintinnivano come dei sonaglini».

Dialoghi Mediterranei, n.25, maggio 2017

sabato 6 maggio 2017

Il tempo sospeso

La materia: tra luci e ombre, trasparenza e ritmo
di Vinny Scorsone

È la prima volta che vedo le opere pittoriche di Francesco Maria Cannella e ho notato che in tutto il suo percorso, che sia appunto di pittura, fotografia o video, uno degli aspetti fondamentali è il senso del ritmo, della musica, di cui ogni suo lavoro è pregno. Nelle opere esposte in mostra, infatti, ogni tocco di colore, ogni tocco di pennello non fa altro che scandire un determinato ritmo visivo, cosa riscontrabile ed accentuata nelle sue opere di video-arte dove, spesso, sua è anche la musica. È in questo binomio, credo, inscindibile tra visione e musica, in questo volere coinvolgere lo spettatore con più sensi, che bisogna ricercare la chiave di lettura del suo lavoro. Le opere esposte (che abbracciano un arco di 8 anni circa) sono molto varie, non legate ad una stile unitario, questo perché Cannella stesso ha un temperamento molto eclettico che lo ha portato, negli anni, a sperimentare nuove tecniche. Egli ha sempre riversato sulle tele tutte le sue emozioni, tutto il suo modo di percepire la vita e di volerla a volte aggredire oppure semplicemente sfiorare. Ciò che mi ha colto un po’ di sorpresa è stato il gesto spesso istintivo del colore, la velocità di esecuzione. Difatti è proprio questa la dicotomia più tangibile nelle sue opere e che fa soprattutto la differenza tra i suoi video e la sua pittura. Cannella, in pittura, difatti, è molto materiale, ha bisogno di lavorare con la massa, con la cosa da toccare, qualcosa di concreto che lo riallacci probabilmente alla materia viva, a quello che è la terra; il suo essere nel mondo come creatura del mondo. C’è, nel suo percorso artistico e nella sua vita, questo bisogno di qualche cosa che non sia intangibile, qualche cosa di concreto con cui operare, fare, qualcosa di immediato da lasciare a futura memoria, semmai il digitale dovesse collassare. Ben altro il discorso, invece, è da fare relativamente alle sue opere di video-arte in cui la materia si dissolve e tutto è luce. Mentre nella pittura è tutto colore, è tutta sostanza, nei suoi video improvvisamente tutto invece è più etereo, più luminoso. Egli usa la luce come strumento primario dei suoi video e giocando con essa mette paradossalmente a fuoco le parti in ombra del genere umano, della vita di tutti i giorni. Ha questa capacità di riuscire ad utilizzare la macchina da presa come fosse un pennello. Fa della ripresa, del computer, i suoi attrezzi da pittore.  Cannella riesce a fare il pittore facendo il video-artista (alla fine della presentazione del libro si vedrà un suo lavoro di video-arte) e nelle sue opere si possono ravvisare sicuramente gli inizi di alcuni pionieri della video-arte come Nam June Paik, o il primissimo Bill Viola. Accade spesso, nelle sue opere, sia pittoriche che cinematografiche, di trovarsi di fronte ad una realtà un po’ offuscata. In una delle sue opere di video-arte Cannella parla di LIMBO, un mondo visto come se fosse attraverso una nuvola, in cui tutto è sospeso. Come se avesse il bisogno, probabilmente, giocando con le sfocature della macchina da presa, di annebbiare, di tramutare in pittura ciò che è reale. Riesce, semplicemente con dei movimenti ottici della sua digitale (creando una nuova tavolozza, questa volta di pixel e non di pigmento cromatico), a trasfigurare il reale dando vita ad un nuovo mondo, una sorta di spazio parallelo, una dimensione fatta di cose reali, oggettive che però improvvisamente perdono la propria concretezza. Essenzialmente Cannella non inventa, non crea dal nulla, ma sfrutta la realtà nella quale vive, seppure, in alcune opere vi siano dei rimandi a film di animazione, oppure all’arte e al cinema sperimentale (come alcune opere di Man Ray, alcuni artisti storici dell’animazione sperimentale, René Clair, Leonardo Carrano e il pioniere della computer-art che è John Whitney).
Il bagaglio culturale e visivo di Francesco Maria Cannella (ce ne possiamo rendere conto anche leggendo i suoi libri intrisi di tanti riferimenti alla storia stessa della letteratura e della filosofia) è molto variegato. E questa sensazione, questo bisogno di lavorare con la realtà trasformandola e piegandola un po’ al suo volere che fa di Cannella una sorta di pittore tecnologico. Oggi, più che mai, si parla di tecnologia applicata all’arte, e questo, credo che Cannella lo faccia e anche bene. Egli, essenzialmente, ha bisogno di comunicare e lo fa in tutti i modi possibili. Ha una grande forza espressiva nelle cose che fa, ma comunque sempre mediata, addomesticata dal mezzo. Mentre nei quadri tutto è molto istintivo, molto di getto, veloce, paradossalmente, invece, nei video la vita rallenta. Quello che, in teoria, dovrebbe essere più vivace, scandito, ritmato, resta sospeso poiché il suo è principalmente un tempo sospeso. Cannella sente il bisogno di soffermarsi ancora di più su determinati momenti della vita, su certe anime del mondo moderno, perché è questo ciò che si coglie in tutti i suoi lavori.; è lo spirito d’incertezza, di vacuità dell’esistenza umana, trattati in maniera sempre molto delicata, mai cruda - anche se i concetti sono sempre molto pungenti. L’artista, in questo caso, sembra farsi “paterno”, quasi come se porgesse la sua mano allo spettatore per condurlo piano piano nel suo mondo, un mondo fatto di assenze e affioramenti, di realtà e di finzione.