martedì 31 gennaio 2017

La musica italiana premiata ad Hollywood

di Carmelo Fucarino

Carmelo Fucarino
Sullo splendido Red Carpet dell’Hard Rock Cafe di Hollywood il 9 novembre 2016 ha sfilato Gianni Ephrikian, compositore e direttore di orchestra italiano, in occasione del premio ricevuto in riconoscimento del suo talento e delle qualità artistiche della sua produzione. Per l’Associazione Producer’s Choise Honors si è trattato di un anno particolare: ha compiuto venticinque anni di attività, che ha voluto festeggiare con un premio speciale del LAMA (Los Angeles Music Awards). La selezione ha coinvolto tutti i più di 2000 candidati che si sono cimentati in questo concorso del Venticinquennale di attività. Gianni Ephrikian si è classificato fra i Top Ten della categoria di migliore produttore musicale del venticinquennale (Best of 25 LAMA Music Producer1991-2016).
Compositore e direttore d’orchestra, Gianni è figlio d’arte. Il padre Angelo Ephrikian, di origine armena e figlio della diaspora in conseguenza del terribile genocidio, perpetrato tra il 1915 e il 1916, esecrato recentemente da Papa Francesco, fu giustamente definito “l’archeologo degli spartiti”. Egli infatti ebbe il merito di avere dissepolto, dall'inizio del 1947 fino alla sua prematura morte nel 1982, dalla polvere ammuffita degli archivi della Biblioteca di Torino i manoscritti originali autografi delle partiture di Antonio Vivaldi, ben 520 capolavori eclissati del "Prete Rosso", lì sepolti dopo una rocambolesca avventura di lasciti. Fu un'opera, lunga ed infaticabile, giustificata dalla sua passione ed esperienza nel dar vita e voce allo straordinario patrimonio di musica barocca attraverso un titanico lavoro di trascrizione manuale e di revisione critica degli spartiti. Ne testimoniano la sovrumana impresa il suo Istituto Italiano Antonio Vivaldi del 1947, il corpus dell’intera opera strumentale pubblicata da Ricordi, le registrazioni della sua casa discografica Arcophon sorta nel 1960. Fu anche raffinato direttore di orchestra dell’AIDEM di Firenze, dei Filarmonici di Bologna e dei Solisti della Scala e compositore di eccellenti opere strumentali, attività certificate dai prestigiosi riconoscimenti nazionali ed internazionali (biografia di Alessandra Cruciani, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 43, 1993).
Il figlio Gianni Ephrikian non avrebbe potuto seguire altra strada con questo eccezionale input. Però, compiuti da bambino gli studi di teoria, solfeggio e pianoforte, nonostante fin dalla nascita fosse vissuto immerso nella musica barocca, sul finire degli anni ’50 fu preso dalla malia di quella musica nuova che trascinava i giovani di quell’epoca e si inserì in quel clima rivoluzionario del rock and roll. L’esperienza dei gruppi rock lo assorbì per alcuni anni e lo condusse a sperimentare vari strumenti, la batteria, la chitarra, il basso elettrico. Era l’immersione in quella frenesia musicale che aveva incantato i giovani della sua età. Era la preparazione alla ricerca musicale che nei primi anni Settanta avrebbe condotto alla sua vera passione, quella per la musica orchestrale che emerse e si impose nella sua attività e nella sua professione di musicista. Aveva trovato la sua vera strada che non ha più abbandonato. Quella spensierata scorribanda giovanile gli sarebbe stata comunque di base, avrebbe gettato dei semi e prodotto le radici che sarebbero maturate e trasformate nella nuova ricerca musicale. La prima esigenza fu la costituzione di uno studio di registrazione ad altissimo livello tecnologico, per potere registrare con una certa libertà ed indipendenza. Il secondo passo fu la formazione di un gruppo concertistico. Ovvie le difficoltà iniziali, il graduale ampliamento di organico, dal piccolo quartetto fino a giungere alla formazione di una vera e completa orchestra strumentale. È stata non solo una questione di maestri che sapessero impegnarsi in un’attività così ardua e in un piccolo paese di provincia, di confine ed eccentrico, alla periferia delle linee di programmazione musicale nazionale, come Treviso. Si trattò anche di entrare nel complesso strumento compositivo delle partiture e dell’orchestrazione e di trovare partecipazione e collaborazione di artistici, che sono stati numerosi e in tanti generi musicali. Superate queste difficoltà, il momento di consolidamento e di progettazione stabile è stato la creazione di una sua etichetta discografica, la Holly Music, sotto la cui sigla ha prodotto svariate compilation, da lui orchestrate e dirette. A dare nuovo slancio è stato l’incontro con il chitarrista Massimo Scattolin e con il clarinettista Fabio Battistelli che hanno propiziato la creazione di una propria orchestra, la “Venetian Dream Ensemble”, che riassume il luogo mitico, quello esistenziale della musica vivaldiana (chi non ricorda lo strappacuore Anonimo veneziano di Benedetto Marcello) e le speranze, possiamo dire, i loro “sogni nel cassetto”. Da qui è nato il cd “Sensations”, 14 brani composti da Gianni Ephrikian e Massimo Scattolin, orchestrati e diretti da Gianni. Essi sviluppano dei temi e dei ritmi coinvolgenti attraverso un loro originale sound. Inoltre intessono una varietà di soluzioni armoniche e di coinvolgimenti emotivi. L’avvio è dato dalla malinconia di “Angeli”, per poi distendersi in una sequenza in cui si alternano la fuga pianistica di “Vertigo”, la dolcezza sognante del “Love Theme”, la insistente voce della primavera, quasi al centro della compilation l’omaggio alla città dei sogni, Venezia a piena orchestra, accompagnata dal primo piano dei tocchi della chitarra, per perdersi nell’inno a canto aperto all’Oceano, o fra l’ondeggiare dei Pensieri al vento e le modulazioni vibranti di “Trasparenze”, per un improbabile nostalgico e triste ritorno “Verso casa” Ma ognuno può ricavare riverberi e risonanze e accenti del proprio profondo, nell’alternarsi di pathos e mediazioni sonore. La particolarità della musica sta proprio nella soggettività del sentire empatico.
Ma è soprattutto nuova nel panorama italiano la sua produzione concertistica, la cui qualità artistica è stata riconosciuta e premiata proprio ad Hollywood. Non saprei a quale dare la precedenza nelle preferenze delle sue tre “suites for brass, orchestra and electric guitar”. Quell’attacco di Water for Africa (6,62), dal bassissimo fino all’esplosione, il lacerante richiamo di una natura ostile, fino alla ricerca del bene che si dispera nel rintocco e si oscura nella voce cupa dei tamburi per riprendere poi quel tema triste e angoscioso, insistente ritmato dai suoni amorfi della batteria, una estenuante visione di dune e deserto, di visi e anime perdute che alla fine appaiono in una sequenza vocale, puro suono che si autoesalta e poi scompare sotto l’incalzare cupo e sonoro degli ottoni e il dialogo incalzante dei violini che prolunga in crescendo quella brama di vita e di esistenza. L’inno alla terra attraverso il suo arcano respiro (The breath of the earth, 5,12), che tante suggestioni melodiche e artistiche ha suscitato, procede invece glorioso e possente nel tripudio degli ottoni nel loro dialogare che afferma la bellezza della vita e si complica negli accordi della chitarra, nella liquidità dell’organo, un dialogo che vuole affermare attraverso il battito della batteria, l’intrusione di chitarra languida e le trombe osannanti la grandiosità della Terra, espressa in quel sottotitolo esplicativo “orchestral documentary nature”. Sognante l’avvio della chitarra e sottofondo orchestrale riverberante di Pensieri nel vento (3,49) per poi scompigliarsi in insistenti suoni di piano, in una diversa esposizione rispetto al brano della compilation, ampia e distesa, dialogante come l’ingarbugliarsi di pensieri sognanti. Per chi vuole immergersi nell’atmosfera spagnola basta abbandonarsi alle interpretazioni del Concierto de Aranjuez e del Double Concert di Astor Piazzolla, con il tocco della chitarra di Massimo Scattolin.
Di ritorno dagli States il sindaco di Treviso ha voluto offrire in dovuto omaggio il Teatro Comunale, per accogliere il figlio carico di allori e per far conoscere ai suoi concittadini la sua musica, ma anche per ricordare i suoi figli benemeriti, - pochi ormai ricordano Giovanni Comisso, premio speciale Viareggio del 1952 con Capricci italiani e Premio Strega del 1955 per Un gatto attraversa la strada. È stata l’occasione per dare un segno di riconoscenza a tutta la famiglia, a cominciare dal padre ingombrante e grandioso, e aggiungere anche la figlia non meno celebre che ha riempito il cuore di un’intera generazione con le sue coinvolgenti interpretazioni, la Laura Ephrikian delle nostalgie giovanili di tante generazioni di italiani.

venerdì 27 gennaio 2017

Terremoto del 1930, quando lo Stato c’era: così di Crollalanza ricostruì tutto

di Antonio Pannullo

La storia e le opere di Araldo di Crollalanza, di cui ricorre proprio in questi giorni l’anniversario della morte, ne fanno un protagonista della vita politica italiana del secolo scorso. Fu deputato per tre legislature nel Regno d’Italia con il Partito nazionale fascista e, nella Repubblica, per ben otto legislature, dal 1953 al 1986, con il Movimento Sociale Italiano. Ma soprattutto fu ministro dei Lavori pubblici nel governo Mussolini dal 1930 al 1935, e legò il suo nome a due importanti realizzazioni: la ricostruzione dopo il terremoto del Vulture, in Basilicata e Campania, del 1930, e la bonifica delle Paludi pontine. Il terremoto del Vulture, avvenuto il 23 luglio del 1930, colpì in particolare le province di Potenza, Matera, Benevento, Avellino e Foggia, interessando 50 comuni. Fu il comune di Melfi quello più colpito. Ebbe una magnitudo del 6,7 e causò oltre 1400 morti. Praticamente la stessa violenza del terremoto di Amatrice del 24 agosto scorso, anche se il numero delle vittime fu superiore. La zona colpita era costituita da piccolissimi centri sparsi sui vari rilievi, centri ubicati mediamente a 500 metri di altitudine, e collegati tra loro da strade sterrate tortuose e maltenute. Inoltre, pur essendo una zona da sempre interessata a movimenti simici, nel decenni precedenti non si era tenuto conto di ciò nella edificazione delle abitazioni, tanto che vi si trovavano case costruite con pietre di fiume legate da malta o da fango essiccato. Dopo la ricostruzione effettuata dal ministro di Crollalanza, le abitazioni resistettero anche al terremoto dell’Irpinia del 1980. Non appena si diffuse la notizia del sisma, Mussolini convocò immediatamente il ministro di Crollalanza incaricandolo di fare quanto necessario per portare subito soccorso alle popolazioni colpite, e decidendo altresì di utilizzare da subito l’esercito. Va tenuto presente che nel 1926 il governo fascista aveva varato una nuova legge sulle calamità naturali, che si rivelò ottima, tanto che i soccorsi funzionarono molto meglio rispetto a catastrofi precedenti. Vi era un treno allo Scalo San Lorenzo di Roma, sempre pronto, contenente materiale di primo soccorso: materiale sanitario, derrate alimentari, macchine movimento terra, tende militari e altro. Questo treno partì nelle prime ore del mattino (il sisma aveva avuto luogo poco dopo mezzanotte) e in poche ore giunse sul luogo iniziando il difficile lavoro dell’emergenza. Il ministro di Crollalanza giunse poche ore dopo, facendo pressione sul governo per uno stanziamento adeguato, giacché le case da ricostruire erano moltissime. Riuscì a ottenere uno stanziamento di 160 milioni di lire. Era il 3 agosto, ossia 11 giorni dopo il terremoto. Furono installate dall’esercito migliaia di tende, e di Crollalanza insisteva per avere qualcosa di più duraturo. Così fu deciso di costruire mille casette asismiche, ossia corrispondenti agli standard asismici dell’epoca, per non far trovare la popolazione esposta ai rigori invernali. L’acqua potabile era assicurata da autobotti provenienti da Foggia e Avellino e altri grossi centri della zona. Entro ottobre, tra mille difficoltà legate al trasporto in quelle zone, alla manodopera, al rincaro dei materiali da costruzione ad altri problemi logistici, 961 casette furono realizzate. Si pensò anche agli orfani, oltre mille, che furono nmandati nei vari convitti o affidati a famiglie della zona, per evitare lo sradicamento dal territorio. Il sussidio statale per la ricostruzione, grazie a varie leggi, tra cui quella Mussolini del 1928 e quella sulla bonifica, poté raggiungere anche l’85 per cento del costo globale. Vi furono poi lentezze burocratiche dovute ai contrasti tra il Banco di Napoli, che doveva erogare i mutui, e lo stesso ministero dei Lavori pubblici circa la stima dei danni. In quel caso il governo non fu abbastanza energico, malgrado le continue insistenze di di Crollalanza e dei prefetti.
Di Crollalanza spinse per avere più finanziamenti
Va tenuto presente che il sisma avvenne quasi 90 anni fa, e che i mezzi e le infrastrutture erano quelli di allora. Quello che è preoccupante è che nel 2017 non si è riusciti a preservare i danneggiati dall’inverno, nonostante la qualità della teconologia e dell’organizzazione abbia quasi un secolo di esperienza in più rispetto ai “pionieri” del 1930 come di Crollalanza, al quale va comunque riconosciuto, oltre all’impegno personale fortissimo, anche un non comune rigore e capacità organizzativa, come dimostrerà negli anni successivi sia nelle bonifiche sia nella riqualificazione del lungomare di Bari, dove ancora oggi c’è una statua che ne ricorda i grandi meriti. Di Crollalanza dopo l’armistizio aderì alla Repubblica Sociale Italiana e dopo la fine della guerra fu arrestato e trascorso oltre un mese in carcere. Ma ovviamente l’indagine su un galantuomo come lui si chiuse in fase istruttoria con il completo proscioglimento. Ci piace concludere questo ricordo con le parole che Indro Montanelli gli dedicò sul Giornale il giorno dopo la sua morte, il 19 gennaio 1986:”Di Crollalanza non fece mai mostra di se, mai partecipo a spedizioni punitive, mai si fece un partito o una clientela personale, mai brigo per carriere politiche. Di origine valtellinese anche se nato a Bari, aveva nel sangue le «cose», e fu fascista solo perché il fascismo gli consentiva di farle. Bari e in gran parte figlia sua (e tale ha continuato a sentirsi anche dopo il fascismo). Fu lui a istituirvi la Fiera del Levante e 1’Universita. Fu lui a trasformare il Tavoliere delle Puglie e a farne una delle zone piu fertili del Sud (una volta Di Vittorio mi disse: «Senza Crollalanza io non esisterei perche i miei genitori non avrebbero nemmeno avuto la forza di procrearmi»). Cio che in sei anni aveva fatto, come podestà di Bari, sul piano regionale, lo ripete, come ministro dei Lavori Pubblici, su quello nazionale. La costruzione della direttissima Firenze-Bologna e opera sua, come lo fu tutto il riassetto dell’Agro Pontino, lo sviluppo di Littoria, la nascita di Aprilia e Pomezia. Eppure, di lui si parlava pochissimo. Non apparteneva alla Nomenclatura del regime, e lui non fece mai nulla per entrarci (…). Non fece mai parte del Gran Consiglio. Ma quando gli chiesi come vi si sarebbe comportato la notte del 25 luglio, mi rispose senza esitare: «Sarei stato dalla parte del Duce, e poi avrei fatto il possibile per impedire la condanna a morte di chi era stato contro». Lo aveva dimostrato, del resto, con la sua condotta. Dopo l’8 settembre, raggiunse Mussolini, ma rifiutò qualsiasi incarico politico. Cerco solo di creare un tessuto amministrativo per salvare il salvabile, e a qualcosa riuscì. Dopo il 25 aprile, non si nascose, e si lasciò arrestare e processare. Ma sebbene questo accadesse nel momento dei più accesi bollori epurativi, dovettero assolverlo in istruttoria: non una voce si levò ad accusarlo di qualcosa, e ogni indagine sul suo patrimonio risultò vana: I’uomo che aveva costruito città e redento province non aveva una casa, né un palmo di terra, né un conto in banca. Entrò, per coerenza nel Msi, e i pugliesi lo elessero senatore per sette legislature di seguito. Nessun suo collega degli altri partiti trovo qualcosa da obbiettare quando il presidente Fanfani propose di conferire a Crollalanza, in occasione del suo novantesimo compleanno, una medaglia d’oro. Fu l’ultima che lo vidi. Era commosso. Gli chiesi se del suo passato covava qualche rimpianto o rimorso. Mi rispose, a voce bassissima: «Uno solo, ma immenso: : in quei vent’anni potevamo fare 1’Italia, e non la facemmo». Ma se c’era un uomo a cui questo rimprovero non poteva essere mosso, era proprio lui”.
da: www.secoloditalia.it

Discorso di sua Santità Pio XII ai gruppi italiani di «rinascita cristiana»

Il movimento di « rinascita cristiana »
All’alba della storia della Chiesa, durante l’impero di Traiano, S. Ignazio di Antiochia scrisse un pensiero che affascina anche gli animi moderni, come la scoperta di un tesoro di esperienza due volte millenaria: « Nei tempi in cui è oggetto dell’odio del mondo, il cristianesimo non è affare di parole persuasive, ma di grandezza » (ad Romanos, 3, 3).
Questo passo dell’eroico Vescovo e Confessore della fede Ci torna alla memoria nel vedervi qui raccolte intorno a Noi, dilette figlie. Il vostro movimento di « rinascita » vuol essere l’espressione dello spirito, che dettò quel pensiero al martire di Cristo. E veramente, nella crisi religiosa del nostro tempo — la più grave, forse, che la umanità abbia attraversata dalle origini del cristianesimo —, la ragionata e scientifica esposizione delle verità della fede, per quanto efficace essa possa essere e sia in realtà, da sé sola non basta. E non basterebbe nemmeno la dose, troppo spesso così scarsa, di una vita cristiana fatta di convenzionale abitudine. È necessaria oggi la grandezza di un cristianesimo vissuto nella sua pienezza con perseverante costanza; è necessaria la balda e valorosa schiera di coloro — uomini e donne —, che, vivendo in mezzo al mondo, sono in ogni istante pronti a combattere per la loro fede, per la legge di Dio, per Cristo, con gli occhi fissi su di Lui come modello da imitare, come capo da seguire nel loro lavoro di apostolato. Tale è la norma che voi, dilette figlie, vi siete proposta.
Fermezza di fede 
– E innanzi tutto, voi volete essere anime di fede cattolica, piena ed integra. È stato dato anche recentemente al Cristianesimo il consiglio — se intende di conservare ancora una qualche importanza, se vuol superare il punto morto —, di adattarsi alla vita e al pensiero moderno, alle scoperte scientifiche e alla straordinaria potenza della tecnica di fronte alle quali le sue forme storiche e i suoi vecchi dogmi non sarebbero ormai che lumi del passato pressoché spenti.
Quale errore, e come esso scopre la vanitosa illusione di spiriti superficiali! Essi sembrano voler far entrare la Chiesa, come in un letto di Procuste, negli stretti quadri delle organizzazioni puramente umane. Come se la nuova configurazione del mondo, come se il dominio presente della scienza e della tecnica occupassero tutto il campo e non lasciassero più alcuno spazio libero per la vita soprannaturale, che da ogni parte trabocca! Esse non valgono ad abolirla o ad assorbirla; anzi quelle mirabili scoperte scientifiche (che la Chiesa favorisce e promuove) fanno risaltare, con maggior forza ed efficacia di prima, l’« eterna potenza di Dio » (Rom. 1, 20).
Ma il pensiero e la vita moderna debbono essere ricondotti e riguadagnati a Cristo. Cristo, la sua verità, la sua grazia, non sono meno necessari alla umanità del nostro tempo che a quella di ieri e di ier l’altro, di tutti i secoli passati e futuri. Tale è l’unica fonte di salvezza : la fede cattolica; non già una fede mutilata, anemica, edulcorata, ma in tutta la sua integrità, la sua purezza e il suo vigore. Alcuni potranno riguardare questa fede come una « stoltezza »; non è cosa nuova, era così anche ai tempi dell’Apostolo Paolo. Per voi invece è « virtù di Dio » (1 Cor. 1, 18), e voi bramate di comunicarla al vostro secolo con la stessa fiducia della vittoria, che animava i cuori dei primi cristiani. Noi lodiamo i vostri propositi. Voglia il Signore fecondarli con la sovrabbondanza delle sue benedizioni!
Fortezza di vita cristiana
– Alla fermezza della fede voi unite il coraggio di prendere sul serio la osservanza dei comandamenti di Dio e di tutta la legge di Cristo e della sua Chiesa.
Ed invero, non è questo un lieve merito, specialmente nelle presenti circostanze. Quando si guardano bene in viso le condizioni in cui voi vi trovate, le odierne concezioni e abitudini di vita, il mondo moderno con le sue miserie e le sue sventure, ma anche con le sue seduzioni e il suo fascino quasi diabolico, la pressione tirannica di organizzazioni di una mostruosa potenza,. bisogna riconoscere che rimaner fedeli, sempre e dappertutto, senza riserve e senza transazioni, ai comandamenti di Dio, richiede giorno per giorno una padronanza di sé, uno sforzo costante, una abnegazione, la quale giunge talvolta fino a quell’eroismo, che è il segno caratteristico della testimonianza del sangue.
Abbiamo detto: senza riserve e senza transazioni; poichè chi potrebbe affermare che un’anima serve fedelmente Dio, se nel compimento delle pratiche cristiane manifesta uno spirito apertamente mondano, se porta in chiesa i suoi pensieri d’interesse, di vanità, di sensualità, se crede di giustificare o santificare una vita frivola e profana, perché v’inserisce qualche esercizio di una pietà tutta superficiale, quando anche non è una devozione puerilmente superstiziosa?
Ben a ragione perciò voi chiedete francamente: La parola di Cristo, « Se alcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, e prenda ogni giorno la sua croce, e mi segua » (Luc. 9, 23), vale, sì o no, anche oggi come in passato? Sì? Allora deve essere per noi la regola di vita. – E in tutta la sua condotta, così nei riguardi personali, come nelle relazioni sociali — matrimonio, famiglia, professione —, la donna, non meno dell’uomo, è forse libera di governare sé stessa arbitrariamente e a suo piacere? ovvero deve in ogni ordine di cose riconoscere che vi sono questioni, la cui soluzione dipende sempre dagli imprescrittibili ordinamenti di Dio? In questo caso, via ogni pusillanimità, ogni vano timore; se Dio ordina, non mancherà mai di dare col precetto anche l’aiuto per adempirlo.
Da ciò la vostra risoluzione; preparare la via al Signore, alla sua volontà un diritto sentiero (cfr. Is. 40, 3), innanzi tutto nella vostra propria vita, poi in quella del prossimo. Noi benediciamo questo vostro intento. Si degni Iddio di vivificarlo con la rugiada celeste della sua grazia!
Fiamma di zelo
– Tuttavia la fermezza della fede, il coraggio dell’azione ancora non bastano alle vostre brame; esse debbono accendere nei vostri cuori la fiamma luminosa e ardente dello zelo. Risolute come siete di praticare pienamente nella vostra vita di fanciulle, di spose, di madri, la legge santa di Dio, voi volete collaborare, nel campo in cui le circostanze, preparate dalla Provvidenza, hanno posto ciascuna di voi, a ricondurre le anime all’unico Signore e Maestro, a render loro, nella sottomissione alla volontà divina, nella docilità alla dottrina infallibile, nella santificazione mediante la grazia, la sola vera libertà che le affranca dalla umiliante servitù dell’errore e del male. Tale è il senso dell’intera opera della redenzione, e ogni apostolato, qualunque ne sia la forma, non è che una partecipazione a quell’opera redentrice di Cristo.
Il voler tirare una netta linea di separazione tra religione e vita, tra soprannaturale e naturale, tra Chiesa e mondo, come se non avessero nulla a che fare tra loro, come se i diritti di Dio non avessero valore in tutta la multiforme realtà della vita quotidiana, umana e sociale, è completamente alieno dal pensiero cattolico, è apertamente anticristiano. Quanto più dunque oscure potenze aggravano la loro pressione, quanto più si sforzano di bandire la Chiesa e la religione dal mondo e dalla vita, tanto più è necessaria da parte della Chiesa stessa un’azione tenace, perseverante, per riconquistare e sottomettere tutti i campi del vivere umano al soavissimo impero di Cristo, affinché il suo spirito vi aliti più largamente, la sua legge più sovranamente vi regni, vi trionfi più vittoriosamente il suo amore. Ecco ciò che si deve intendere per Regno di Cristo.
Questo ufficio della Chiesa è ben arduo; ma non sono che i disertori incoscienti o illusi coloro i quali, in omaggio a un malinteso supernaturalismo, vorrebbero ridurre la Chiesa nel campo « puramente religioso », come essi dicono, mentre con ciò non fanno che favorire il giuoco dei suoi avversari.
Contro simili correnti voi coraggiosamente reagite, come si addice ai nostri tempi. Perciò Noi abbiamo con soddisfazione preso conoscenza della vostra formazione, delle vostre esperienze, dei vostri felici successi. Noi elogiamo la vostra alacrità e invochiamo su di voi la pienezza della forza e della grazia di Cristo.
Aspetti vari di apostolato
– Per il vostro apostolato voi seguite la parola del divino Maestro: « Il regno di Dio non viene in modo da attirare gli sguardi » (Luc. 17, 20). Voi non volete agire con la esibizione di pubbliche manifestazioni; come, in generale, la parte che riguarda la organizzazione è destinata per voi a rimanere nell’ombra e a restringersi al puro necessario. Noi abbiamo in principio parlato di voi come di una schiera di assalto. Ma la vostra controffensiva si prepara e si eseguisce, non nel rumore e nell’agitazione, ma nella calma e nel raccoglimento, con la orazione silenziosa, con le rinunzie note solo a Dio, col costante buon. esempio, con la vigorosa professione delle vostre salde convinzioni e dei principi cristiani in una cerchia di persone che pensano e agiscono diversamente, con la lenta, continua, progressiva azione esercitata su di loro, per ricondurle, a poco a poco, a Cristo.
Senza dubbio, nessuna opera, qualunque essa sia, può avere stabilità e durata senza un minimo di organizzazione. Tuttavia questa, per quanto indispensabile, rimane sempre un mezzo, e soltanto un mezzo, di apostolato. Parimente le pubbliche manifestazioni hanno il loro valore, anzi in alcuni casi possono essere necessarie, specialmente là ove le forze avverse se ne valgono con grande apparato a scopo di propaganda. Ma per il fine, a cui tende il vostro movimento, voi avete scelto il retto metodo di lavoro; la via, per la quale avanzate, è sicura e potete seguirla fiduciosamente.
La modestia, la discrezione, che convengono all’esercizio del vostro zelo, non sono punto passività né snervante monotonia. Tutt’altro! Ciascuna di voi, applicata all’opera comune, vi deve venire col. suo carattere, col suo temperamento, coi suoi doni, coi suoi mezzi personali. Che anzi il concorso di queste qualità così svariate dà alla vostra amichevole collaborazione la sua armonia e i suoi speciali lineamenti. Tutte potete e dovete mettere in valore l’apostolato della vita esemplare, della preghiera, del sacrificio. Ma appunto qui, al di là di ciò che è per ciascun fedele stretto obbligo, rimane un largo campo, dentro il quale le possibilità fisiche, assai differenti di ognuna, e la generosità di animo, con cui — supposto sempre un sano giudizio e una retta intenzione — corrispondete agli impulsi della grazia, debbono determinare la giusta e conveniente misura della vostra azione.
Questa diversità nella misura e nella forma del bene trova la sua applicazione nell’ordine così materiale come spirituale. A quelle tra voi, cui le condizioni economiche o altre favorevoli circostanze o una speciale ingegnosità e attitudine permettono di esercitare l’apostolato della carità a favore dei bisognosi, Noi diciamo con S. Paolo: «Non lasciatevi vincere dal male, ma vincete nel bene il male» (Rom. 12, 21). Allo spirito di calunnia, di bassa delazione, d’invidia, di odio, di crudeltà, di oppressione, voi opponete, senza stancarvi, la bontà e l’amore, l’amore nel cuore, l’amore sulle labbra, l’amore nelle opere delle vostre mani.
Come potremmo Noi a questo punto omettere di rivolgere una Nostra paterna parola allo stuolo delle « Damine della Carità », qui presenti, che hanno tenuto di recente con ottimi risultati un Congresso per rendere il loro lavoro più efficace e più rispondente alle necessità odierne del povero? Vada dunque anche a voi, sempre deste soccorritrici degli indigenti, l’espressione della Nostra compiacenza, del Nostro incoraggiamento e dei Nostri voti, affinché il vostro Padre e Fondatore S. Vincenzo de’ Paoli, fulgido astro di bontà e di soccorso per ogni sventura, vi ottenga con sempre maggior larghezza lo spirito di misericordia, di generosità, di carità, di saggezza.
Rimane da considerare l’apostolato nel senso proprio della parola, l’apostolato dell’azione personale, immediata sul prossimo, per guadagnarlo a Cristo. Non è cosa da tutti. Occorrono speciali qualità, una preparazione, una formazione, che non possono essere se non il privilegio di una « élite ». Tuttavia, anche ciò supposto, la capacità per tale apostolato religioso è ben differente secondo le persone. Studiatevi dunque di conoscere voi stesse, per divenire, ognuna a suo modo, messaggere di Dio. Ma, qualunque sia la maniera e, per così dire, il tratto personale di ciascuna, il carattere dominante, che dovete imprimere in voi tutte, è quella grandezza spirituale così magnificamente esaltata dal martire Ignazio.
Voi vi siete prefisse alti scopi, dilette figlie! Avete quindi bisogno di uno zelo illuminato e generoso, di una incrollabile fiducia in Dio, di un abbondante e potente aiuto dall’alto, per attuarli e svolgerli con persistente lena. Fate vostra umilmente la preghiera del Salmista: « Viam mandatorum tuorum curram, cum dilataveris cor meum » (Ps. 118, 32): Correrò, o Signore, la via dei tuoi precetti, quando avrai allargato il mio cuore! E vi lasciamo, quasi augurio finale, le parole del Principe degli Apostoli : « Il Dio di ogni grazia, che ci ha chiamati all’eterna sua gloria in Cristo Gesù, con un po’ di patire vi perfezionerà, vi conforterà e vi darà vigore. A lui gloria e impero nei secoli » (1 Petr. 5, 10-11).
Con tale voto e speranza impartiamo di cuore a voi tutte, alle opere vostre, alle vostre famiglie, a tutte le persone che vi sono care, in pegno dei più eletti favori celesti, la Nostra Apostolica Benedizione.  fonte: Sito della Santa Sede  

martedì 24 gennaio 2017

La poesia filosofeggiante di Giacomo Leopardi

di Maria Patrizia Allotta

   
Che Leopardi sia uno dei massimi esponenti della letteratura internazionale nessuno potrebbe metterlo in discussione, che sia anche filosofo, invece, è stato ed è a tuttora motivo di accesi dibattiti.
   Infatti, relativamente alla dimensione filosofica rintracciabile nell’opera leopardiana non tutti i critici sono d’accordo, tanto che si potrebbe parlare di due tendenze sostanzialmente opposte: da un lato ritroviamo il vecchio filone della cultura laicista italiana che intravede un senso filosofico scarsamente significativo e, comunque, poco profondo, originale, costruttivo; dall’altro, invece, rintracciamo valutazioni estremamente positive circa il filosofare leopardiano.    
   Infatti - sebbene la qualifica di ‘filosofo’ gli sia stata attribuita già in vita dalla cerchia degli amici che conoscevano bene alcune sue opere e sia stata variamente espressa in alcune pagine dello stesso Leopardi dove ricorre l’espressione «il mio sistema filosofico» e nonostante lo stesso Giordani nel Proemio al terzo volume dell’edizione postuma delle sue Opere lo ricordi come «sommo filosofo» - per Francesco De Sanctis, solo per fare qualche esempio, la creazione lirica, è l’unica produzione genuina e sinceramente autentica del Leopardi, modesta e artefatta appare, invece, quella filosofica; così pure per Benedetto Croce il quale aggiunge, tra l’altro, che la poesia del recanatese pur oscillando tra filosofia e letteratura, non riuscì mai, a tenere la rotta dell’autentico logos.
  Per Giovanni Gentile, all’opposto, soprattutto nelle Operette morali, Leopardi appare come valido e interessante filosofo, così come per Adriano Tilgher il quale sostiene che proprio nello Zibaldone esiste una filosofia che certamente non è né sistematica, né elaborata, né procede per astrazioni, ma fortemente immediata,  comunicativa, costruttiva.
   Nel dopoguerra si assiste ad una sostanziale rivalutazione della filosofia leopardiana, grazie prevalentemente agli apporti della critica storicistico-marxiana, la quale mette in risalto la produzione posteriore al ’30, rinforzando la pregevolezza del poeta impegnato e progressivo contro quello isolato e solitario dell’idillio.
   In tal senso  saggi interessantissimi sono quelli scritti da Cesare Luperini  Leopardi progressivo; da Walter Binni  La nuova poetica leopardiana;  da Sebastiano Timpanaro  Alcune osservazioni sul pensiero di Leopardi e da Carlo Muscetta  Schizzi, studi e letture,  contributi questi ora menzionati, contrassegnati da una decisa matrice ideologica, che individua nel Leopardi un pensiero fortemente concettuale, che non solo non è da ostacolo alla sua poesia, ma piuttosto è il suo vitale nutrimento, pensiero concettuale, tanto profondo, che può essere elevato al rango di filosofia.
  Interessanti anche gli studi condotti da Emanuele Severino - non storicista né marxista - il quale magistralmente ha saputo mettere in luce notevoli elementi comuni tra il pensiero del nostro poeta a quello di altri indiscussi grandi filosofi europei, evidenziando che se è vero che la riflessione filosofica non prevede scomparti predeterminati ma piuttosto una straordinaria espressione dello spirito umano dai confini mai fissi, allora possiamo sostenere con estrema serenità che Leopardi è un grande filosofo perché ha fatto della semplice parola verbo di speculazione.    
    Quindi, mentre per alcuni studiosi Leopardi - pur possedendo le attitudini e gli strumenti culturali, le competenze e le abilità - non può essere considerato filosofo per il fatto che la sua volontà di speculazione è alterata già in potenza - sollecitato da motivi biografici e storico-culturali - avendo assunto sin dall’inizio un atteggiamento valutativo ostile nei confronti dell’esistenza e dei valori più alti e nobili che questa manifesta, valori molto spesso considerati alla stregua di miti o peggio inutili illusioni, per altri, Leopardi è un autentico esistenzialista capace di affrontare soprattutto questioni legate alle tematiche di ordine pratico-morale, quali per esempio, l’indagine sulle ragioni prime e la cause ultime della vita, il senso dell’esistenza, se è possibile raggiungere la felicità, quali sono i veri valori esistenziali, se dopo la morte ci attende qualcosa o ci aspetterà il nulla eterno. 
   E soprattutto lo Zidaldone - che riconduce direttamente a pensieri sull’anima, sulla metafisica, sulla religione, sulla natura, sulla morale, sulla scienza, la conoscenza, il linguaggio, sui problemi antropologici, sociali e politici, sull’universo definito da Lui stesso “un bruscolo in metafisica” - ben potrebbe configurarsi come vero trattato filosofico, pur non essendoci una struttura portante sistematica e organica, come d’altronde in molti altri intellettuali più comunemente definiti filosofi.
  Né si può negare che manchi a Leopardi lo stile filosofico e la forma e la sostanza del filosofare, tanto che alcune sue pagine, specie quelle relative alla Teoria del piacere, sono di tale inclemenza e concretezza che sembrano stilate dalla penna di Hume, Leibiniz, Locke.
   E in effetti, molte pagine scritte dal Leopardi, potrebbero sembrare poco inerenti agli sviluppi della filosofia del XIX secolo, solo ad una lettura fugace e poco attenta, o a chi non ha avuto la fortuna di studiare la storia del pensiero dalle origini ad oggi, perché, in realtà, la sua speculazione non solo riprende tematiche e problematiche tipicamente tradizionali, ma si apre verso nuovi orizzonti meditativi che saranno motivo di dissertazione dei filosofi a lui contemporanei o successivi quali, per esempio, Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger. 
    Per esempio, disseminati nei vari scritti, si celano magistralmente nozioni basilari appartenenti alla storia della filosofia greca, tra cui anche i concetti di “materia” e di “natura” che inevitabilmente riconduce al termine ellenico “physis” e al suo “divenire”, concetto quest’ultimo molto radicato nel nostro poeta il quale molto prima di Nietzsche, quasi sottovoce, sommessamente, cautamente, ritorna ai greci e rientra appieno nella trattazione del pensiero Occidentale.
   Infatti, nel nostro Giacomo è da notare il nucleo concettuale legato al “divenire” e al “nulla”, nucleo sviluppato poi, in modo pregevole, dal soprannominato pensatore tedesco, secondo il quale il “suddetto carattere transeunte degli enti ne presuppone uno di incondizionata innocenza: il realizzarsi delle cose e la loro distruzione è puro fatto, puro accanimento senza perché, il gioco della natura che non può essere vinto da alcuna arte dei (…) mortali. E accanto a questa evidenza inoppugnabile, ossia all’argomento del “divenire”, e come conseguenza di essa, sta quella per cui tutto è nulla: tutte le cose dell’esistenza provengono dal nulla e ad esse fanno ritorno e quindi, per via del loro essere nulla, passato e futuro sono nulla, un solido nulla.
   Esso stesso è principio di ogni essere, dunque, e perciò - esattamente come nel Leopardi il quale nelle Operette morali scrive testualmente: Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obiettivo il morire. Non potendo morire quel che non era, perciò dal nulla scaturiscono le cose che sono. (…) tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta, e un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso - non si può porre alcuna verità incontrovertibile e assoluta, nessun principio di conoscenza, nessuna verità”. (E. Severino). 
    E sempre sulla scia dei probabili insegnamenti del Leopardi, Nietzsche dirà che le illusioni dell’arte sono la condizione unica ed essenziale della sopravvivenza: “il vero mondo, egli scrive, è falso, crudele, contraddittorio! e noi abbiamo bisogno della menzogna per vincere questa verità, cioè per vivere. L’uomo deve essere per natura un mentitore, deve essere prima di tutto un artista”, un fingitore per dirla come Pessoa.   
   Però, mentre Nietzsche aggiungerà che al di sopra dell’uomo, che è destinato all’annichilamento, è possibile l’esistenza del “superuomo”, ossia di chi, valicando la natura di essere umano, esulta della totalità della vita, Leopardi, nel suo “pensiero eternamente in movimento”, che certamente muta a seconda dei periodi e delle vicissitudini provate, dà vita all’etica della solidarietà - che sarà il tema centrale della Ginestra - etica concepita come puro estremo messaggio filosofico da inviare a tutti gli uomini di buona volontà, messaggio che auspica l’alleanza fra gli esseri umani, come dire, una social catena capace di unire, in un unico abbraccio, i mortali affinché sia possibile fronteggiare l’empia natura, l’infelicità, il dolore e soprattutto la noia.
    Concetti, quest’ultimi che lo avvicinano straordinariamente a un altro grande filosofo quale è Schopenhauer secondo cui se per caso cessa il dolore, non subentra affatto il piacere, ma qualcosa di peggio, ovvero la “noia”.
   Il dolore, infatti, non esclude che l’uomo cerchi e speri di affrontarlo, mentre la noia è angoscia e disperazione. E allora, per Schopenhauer così come per Leopardi, la vita oscilla inesorabilmente come un pendolo tra il dolore e la noia, in un eterno meriggio privo di tramonto ristoratore dove, comunque, non c’è spazio per la felicità che è intesa come semplice assenza momentanea dell’affanno.
    Ma, a questa visione esistenziale certamente amara si contrappone la sopracitata etica della solidarietà, ovvero la necessità di un’autentica solidarietà umana di fronte al destino, etica la cui prima espressione filosofica la rintracciamo già nel 1827,  (prima ancora che nella Ginestra) nel Dialogo di Plotino e di Porfirio, basato sulla tematica relativa al suicidio e volto a specificare le ragioni che lo disapprovano come possibile soluzione al dramma esistenziale.
  Scrive Leopardi: "Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora". 

   Citazione questa che ci aiuta, comunque, non solo a sminuire la visione nichilistica leopardiana che appare oggi, più che mai, infondato luogo comune, insicuro stereotipo e inconsistente cliché, ma a lottare contro l’accusa di misantropia rendendogli difficile il titolo di filosofo.     

   Infatti, senza bisogno di ricorrere alla critica, in una famosa pagina dello Zibaldone, lo stesso Leopardi dissipa con forza i sospetti di nichilismo e misantropia di cui era fatto oggetto il suo pensiero, così scrivendo: "La mia filosofia non solo non è conducente alla misantropia, come può parere a chi la guarda superficialmente, e come molti l’accusano; ma di sua natura esclude la misantropia, di sua natura tende a sanare, a spegnere quel mal umore, quell’odio, non sistematico, ma pur vero odio, che tanti e tanti, i quali non sono filosofi, e non vorrebbero esser chiamati né creduti misantropi, portano però cordialmente ai loro simili (…). La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all’origine vera dei mali dei viventi."

   Ma non è tutto. Nella dialettica leopardiana negare la sua religione è negare la sua stessa poesia, che è preghiera cui nessuno risponde, ricerca senza alcun risultato, accusa che precipita nel vuoto e che pure misteriosamente risorge.
   Il rifiuto del poeta di credere - per dirla alla maniera di Divo Barsotti originale esegeta nel nostro Giacomo - è provocazione a Dio perché si riveli.
    Difatti, di fronte alle illusioni di questa vita, la sua filosofia diviene sì angoscia, smarrimento e solitudine, ma anche commovente trattazione teologica, epifania, emozionante testimonianza religiosa, dove per religione non si intende un inutile complesso di credenze e di pratiche relative alle cose sacre, ma piuttosto sentimento naturale, intenso, intimo, ineluttabile, che “induce l’uomo a superare la dimensione del sensibile e del temporale e percepire l’esistenza di una realtà superiore per trovare in essa la risposta ai più radicati dilemmi dell’animo umano: senso della vita e della morte, bisogno di verità e di amore, ansia di purezza e d’infinito” (D. Barsotti). 
     E in effetti, il suo vero credo, la sua profonda testimonianza per una ricerca di perfezione, il suo senso di purezza e d’infinito è quello dell’esserci - proprio alla maniera di Heidegger -  lasciando un segno, un’impronta, un’orma, attraverso le scelte, le possibilità dei rapporti, la progettazione, la trascendenza, i necessari dubbi.
     Mi piace concludere citando alcuni  frasi e aforismi leopardiani che ci fanno intendere, da soli e senza bisogno di alcun commento, la grande autenticamente dimensione filosofica di Giacomo Leopardi:
  
    …calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e ogni inganno puerile e ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell’infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera… 

***
Io non mi sottometto alla mia infelicità, né piego il capo al destino, e vengo seco a      patti, come fanno gli altri uomini […]. Né in questo desiderio la ricordanza dei sogni della prima età, e il pensiero d'esser vissuto invano, mi turbano più, come solevano.
Se ottengo la morte morrò così tranquillo e così contento, come se mai null'altro avessi sperato né desiderato al mondo.
***
Sono convinto che anche nell'ultimo istante della nostra vita abbiamo la possibilità di cambiare il nostro destino.

***
Tutto è follia fuorché il folleggiare. Tutto è degno di riso fuorché il ridersi di tutto.
-
***
Chi ha il coraggio di ridere è padrone del mondo.

***
Io non ho bisogno di stima, né di gloria, né di altre cose simili;
ma ho bisogno d'amore.

***
I momenti migliori dell’amore sono quelli di una quieta e dolce malinconia,
dove tu piangi e non sai di che…
***
Il desiderio che ha l’uomo di amare è infinito perché
l’amore, anche profondo o disperato, è sempre dolcissimo.
   Allora, alla luce dei frammenti, probabilmente la filosofia leopardiana manca di organicità e sistematicità, certamente è influenzata dal suo dolore e dalla sua sofferenza, ma sono proprio dolore e sofferenza che, anziché subordinare negativamente il suo pensiero (come vorrebbero gli idealisti e i romantici) faranno sì che egli indaghi intensamente e sentitamente sui problemi esistenziali della vita per mezzo della parola lirica, della poesia, del canto che rimangono autentico mezzo di rinascita, di resurrezione, di epifania.
  Restiamo convinti, dunque, che quello del Leopardi rimane, un “pensiero poetante”, o anche una “poesia filosofeggiante” di eccezionale valore, così come di eccezionale valore è egli stesso, “Il giovane favoloso” (così come lo definisce Mario Martone nel suo recente film) capace di entusiasmare lo spirito e accarezzare dolcemente ogni    cuore in ricerca.   

giovedì 19 gennaio 2017

L’angolo di Gilbert K. Chesterton – Grandezza e attualità di uno scrittore cattolico –

di Fabio Trevisan

.“Un vero soldato non combatte perché ha davanti a sé qualcosa che odia. Combatte perché ha dietro di sé qualcosa che ama”
Il 14 gennaio 1911 Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) pubblicava sull’Illustrated London News un articolo molto interessante ed incredibilmente attuale, dal quale è stata tratta la famosa citazione richiamata in corsivo. A chi volesse leggere integralmente l’articolo, assieme ad altri pezzi inediti in italiano, rimando alla fresca uscita del volume: “La Divina poltrona ed altre comodità” (Casa Editrice Guerrino Leardini), a cui la Società Chestertoniana Italiana e il Centro Missionario Francescano hanno dato considerevoli apporti nella cura del libro.
Sovente, come più volte ho cercato di documentare in questa rubrica, Chesterton viene citato in modo improprio e quindi stiracchiato a giustificazione anche di strampalate ed improvvisate teorie che nulla hanno a che fare con quanto il grande scrittore inglese intendesse realmente. Ribadisco quindi che il mio personale sforzo è quello di cercare di restituire a Chesterton quello che è di Chesterton, non isolando citazioni, aforismi o paradossi ma riportandoli oggettivamente nel contesto delle argomentazioni trattate.
Parlando quindi del vero titolo dell’articolo: “Natale e disarmo” (Christmas and Disarmament), Chesterton fece un’acuta riflessione sulla pace, riallacciandosi al canto degli angeli in cielo a celebrazione del Santo Natale. Ma che cos’era la “pace sulla terra”? Ecco cosa scriveva il grande saggista londinese: “La pace sulla terra potrebbe anche indicare un panico immoto, il giacere prostrati dinanzi a un tiranno universale…ma se noi facessimo un silenzio di vivi, un silenzio di milioni di schiavi muti e lo chiamassimo pace?”. Rammento che eravamo nel 1911 e quindi, antecedentemente allo scoppio della prima guerra mondiale, Chesterton inveiva contro la plutocrazia, collegandola alla guerra e all’imposizione di una desolata e squallida pace: “Mi sono abituato ai milionari che impongono la guerra. Ma se cominciano a imporre la pace mi ribello senz’altro”.
Qual era lo sbaglio essenziale dei milionari alla Carnegie posti sul banco degli imputati da Chesterton? La domanda era e resta importante, poiché in essa sta tutta la forza della validità della famosa frase iniziale riportata in corsivo. Nella risposta Chesterton avrebbe espresso, con un esempio, l’autentico sentimento di ogni vero soldato: “Un uomo ama un certo albero e venti uomini propongono di abbattere proprio quell’albero. Egli può uccidere i venti uomini, cosa che può essere davvero tragica; ma non odia i venti uomini; ama l’albero”. L’errore sostanziale che imputava ai plutocrati mondialisti era chiaramente questo: “Le guerre non cominciano mai per l’odio… (gli uomini)combattono perché amano, non perché odiano e finché i sostenitori della pace non avranno compreso e accettato questa radice affettiva dell’energia militare, tutte le loro parole saranno polvere nel vento”. Al posto del citato esempio dell’albero potremmo metterci tutto quello che piaceva a Chesterton, dagli attaccamenti cavallereschi alle cure domestiche, dall’amore per la patria a quello per i figli (anche se egli, pur desiderandoli, non poté averne alcuno), dall’amore per i colori della propria bandiera alle fattorie contadine. Egli desiderava che si coltivasse un intenso affetto, un sentimento dinamico e propulsivo per la difesa del bello e del buono.
Era conscio che non si poteva entusiasmare il popolo con un’idea puramente negativa di pace ed incitava, contro lo spirito dei milionari, a muovere la ragione e gli affetti: “Potresti rendere entusiasti gli uomini per qualche legame o qualità concreta che li lega gli uni agli altri e rende loro amici i loro nemici”. Invitava inoltre a “guardare indietro” per poter procedere avanti nella buona battaglia a salvaguardia di quanto di più prezioso ci era stato trasmesso, ad iniziare da quel Santo Natale nel quale Gesù Bambino si era rivelato e che stava come riferimento essenziale all’inizio dell’articolo. Il vero soldato poteva e doveva combattere contro tutti gli Erode di ogni epoca, a difesa di quell’Amore che per i nostri peccati era e rimane crocifisso.
Non solo, il soldato, come ogni uomo, combatteva giustamente per tutto ciò che anche umanamente ed orizzontalmente amava e che costituiva la sua storia, il suo passato, le sue radici.
da: www.riscossacristiana.it

mercoledì 18 gennaio 2017

Dal buio alla luce

In questi giorni a Dominus Production, che ha portato in Italia Cristiada e God’s not dead, propone in dvd un bellissimo film, Marie Heurtin. Dal buio alla luce di Jean-Pierre Améris. Il film racconta una storia vera, di rinascita, ambientata nella campagna francese di fine Ottocento.
Marie Heurtin è sordomuta e cieca sin dalla nascita, e perciò quasi certamente sarebbe destinata al manicomio, se i suoi genitori non si intestardissero nel tentativo di educarla, e se non decidessero poi di affidarla al convento delle suore di Larnay. Qui, malgrado l’iniziale opposizione della madre superiora, Suor Marguerite, una suora fragile nel fisico ma salda nello spirito, “ottiene la tutela della fanciulla e vive come missione personale la liberazione di quella piccola anima, che il buio delle sue incapacità ha reso selvaggia. Affrontando momenti di scoraggiamento e profonde crisi interiori, Suor Marguerite e Marie intraprendono un percorso intenso di amore e fiducia, superando i reciproci limiti” e diventando con la loro vita testimoni evidenti dell’amore, che, secondo la lezione di San Paolo, è “paziente” e “tutto copre, tutto spera, tutto crede, tutto sopporta”.
Piano piano Marie impara a scrivere a macchina, a giocare a domino, a lavorare a maglia; apprende la storia e la geografia e da creatura semiselvaggia che era, diviene una giovane donna, garbata e felice dell’esistenza, finché viene raggiunta dalla morte, a 36 anni di età, il 22 luglio 1921 ( http://shop.dominusproduction.com/prodotto/marie-heurtin-dal-buio-alla-luce-dvd-ita-libro-la-grande-storia-della-carita/ ).
Il film è nato in seguito alla visita del regista Jean-Pierre Améris all’Istituto Larnay a Poitiers, dove la protagonista dell’avventura visse nel XIX secolo. L’Istituto è ancora oggi operativo: “E’ difficile – ha scritto Améris – descrivere come mi sono sentito quando ho incontrato questi bambini che potevano comunicare solo con il tatto e che, appena sono arrivato, hanno manifestato il desiderio di toccare le mie mani e la mia faccia per conoscermi”.
L’ambientazione del film, un monastero della Francia, ci permette di riandare brevemente ad una bella pagina della grande storia della carità. Quella che riguarda, appunto, sordomuti e ciechi.
Nell’antica Grecia e nell’antica Roma i sordomuti erano sovente condannati all’infanticidio o alla schiavitù. Aristotele e molti altri pensatori ritenevano che essi non fossero in grado di comprendere idee astratte o concetti morali (non era chiara la connessione tra sordità e mutismo, e i sordomuti erano ritenuti malati mentali). E’ forse con sant’Agostino che abbiamo le prime testimonianze scritte in difesa della dignità dei sordomuti, ma dobbiamo aspettare molti secoli, per la precisione il XVI, per avere il loro primo grande educatore: il monaco benedettino spagnolo Pedro Ponce de Leon (morto nel 1584; nell’immagine in alto).
Sarà però la Francia, e non la Spagna, a divenire il paese in cui l’educazione dei sordomuti conoscerà ulteriori, fondamentali sviluppi. Nel 1753, a Parigi, l’abate Charles-Michel de l’Épée (sopra), visitando una famiglia, vide due ragazze che lavoravano in cucina, e che si esprimevano a gesti. Da quel momento de l’Epèe diventò il loro maestro e si sentì chiamato da Dio a dedicarsi integralmente a questa missione. Vendette tutti i suoi beni (era di famiglia ricca), e fondò così un Istituto Nazionale, riconosciuto da Luigi XVI, che è considerato la prima istituzione pubblica per l’educazione dei sordi al mondo. De l’Epèe si diede ad istruire i sordi con un “suo metodo mimico-gestuale, simile alla odierna lingua dei segni”. Tale metodo, che sarebbe divenuto in breve un modello in tutta Europa, consisteva nel “sostituire i suoni con i movimenti della mano e l’udito con la vista”, “senza trascurare il valore della espressione linguistica orale e scritta”. In breve l’opera del sacerdote francese avrebbe attirato l’attenzione di Caterina II di Russia e dell’Imperatore d’Austria Giuseppe II, che mandò a Parigi il sacerdote austriaco Stork, perché imparasse e creasse poi l’Istituto imperiale per sordomuti di Vienna. Dall’Italia, invece, giunse a Parigi il sacerdote italiano Tommaso Silvestri, che avrebbe aperto la prima scuola statale per sordomuti nel nostro paese, nel 1784, con la benedizione di Pio VI, a Roma.
Quanto ai ciechi, il primo personaggio di cui abbiamo notizia il cui operato segni una svolta nella loro educazione, è padre Francesco Lana de Terzi (1631-1687). Era, costui, un gesuita bresciano geniale ed eclettico: è ricordato come il padre dell’aeronautica, perché per primo ritenne che si potesse applicare il principio di Archimede non solo alla navigazione per mare, ma anche a quella per cielo. Sappiamo che costruì anche un piccolo modellino di pallone aerostatico che fece alzare in volo nel cortile dei Gesuiti di Firenze, anticipando così il volo (1709) di padre Bartolomeu de Gusmão, gesuita anch’egli, e quello dei fratelli Montgolfier. Ebbene per quanto riguarda i ciechi Lana de Terzi fu probabilmente il primo ad intuire che si potesse creare un sistema di segni non leggibili con gli occhi, ma percepibili al tatto. Nel 1676 inventò così un alfabeto di fili di seta e di nodi, che potremmo definire lineare, che anticipava, sebbene meno efficace, il linguaggio per ciechi di Braille (basato sui punti invece che sulle linee).
Dopo il padre de Terzi, l’altro grande apostolo dei ciechi fu ancora un francese, Valentin Haüy, che fondò la prima scuola per ciechi al mondo (Istituto per l’educazione dei giovani ciechi, Parigi, 1786). Haüy, che fu inventore di un metodo di lettura basato sulla riproduzione, a rilievo, delle normali lettere dell’alfabeto, era stato educato dai monaci agostiniani di Saint Just, insieme al fratello Renè (1743-1822), sacerdote, canonico di Notre Dame e padre della Mineralogia e della Cristallografia moderne. Valentin era, come il fratello, un uomo di fede e un ammiratore – e qui si chiude il cerchio- proprio dell’ abate de l’Epèe e della sua opera.
Inutile dire che anche Louis Braille, padre dell’alfabeto che da lui prende il nome, era un francese, che aveva studiato proprio all’Istituto di Parigi fondato da Valentin Haüy

da: www.libertaepersona.org

I Promessi sposi. Cinquantesimo anniversario dell’opera televisiva di Sandro Bolchi

di Marcello Giuliano

Nel 1967, esattamente cinquant’anni fa, Sandro Bolchi, autore di numerose trasposizioni televisive, realizza, forse, il suo capolavoro: I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni.
Della durata di complessivi 480′, otto puntate trasmesse dall’1 Gennaio 1967 al 19 Febbraio 1967, Bolchi dona al pubblico
un romanzo in cui immagine e parola già nella mente del Manzoni erano nate pressoché insieme. Francesco Gonin, infatti, del romanzo aveva curato l’editio princeps, pubblicata nel 1840.
Con la collaborazione di Riccardo Bacchelli, per la sceneggiatura, e di Giancarlo Sbragia, in qualità di narratore fedele del testo manzoniano, Bolchi porta in ambienti esterni il genio recitativo di attori di primo ordine, formati alla dura scuola del teatro, imprimendo alla televisione la svolta del secolo: mantenere la qualità del teatro, ambientando la scena anche fuori degli studi televisivi.
Essi tennero sospesi per otto domeniche, in prima serata, anche noi bambini di dieci anni. Fu la magia della bellezza.
Ancora, a distanza di cinquant’anni, non posso dimenticare la mia famiglia riunita per quest’evento, che impresse nel mio animo di piccolo, aperto alla conoscenza e all’amore, la bellezza di scene, vicende, espressioni, sguardi, silenzi, parole, panorami indimenticabili.
Così, e questa credo sia la più bella commemorazione di una simile opera immortale, lo scorso anno scolastico, cogliendo occasione da un lavoro teatrale su I promessi Sposi, realizzato da alcune mie colleghe di quinta elementare con i nostri vivacissimi alunni, ho proposto, in due ore concentrate, la visione di numerosi brani dell’originale televisivo in bianco e nero. Ma come già accadde in numerose classi per il favoloso bianco e nero, Marcellino pane e Vino, anche per il Manzoni-Bolchi, l’intera quinta fu trattenuta senza difficoltà sulle sedie per l’intera presentazione da noi antologizzata. I bimbi erano catturati dalla vicenda, dal pensiero, dallo scorrere calmo delle scene. Tutto parlava loro.
La magia di cinquant’anni fa si ripeteva, in un mondo frenetico e, forse, senza bussola, grazie al candore di quanti sanno ancora innamorarsi della bellezza perché in loro rinasce lo stupore, solo che se ne offra la semplice possibilità, senza mai stancarsi .
Uno stupore che si rinnovava al moto delle placidi e grigie acque del Lago di Como, o inanzi al volto di Lucia, come per la semplicità dei dialoghi di un fra’ Galdino. Ma questa, miei buoni lettori, sarà materia della prossima volta.
da:www.libertaepersona.org

lunedì 16 gennaio 2017

Palermo, la Magnifica Biblioteca riapre al pubblico

di Valentina Bruschi

Dopo otto anni, conclusi i lavori di ristrutturazione dell’edificio, degli storici scaffali lignei, del patrimonio librario e della quadreria, la Biblioteca Comunale finalmente riapre al pubblico nella sua interezza. Un capitale bibliografico di circa 400 mila volumi, quasi seimila manoscritti che documentano la cultura siciliana dal Medioevo al Novecento e il “Famedio” o “Tempio della fama dei Siciliani illustri” che consta di 371 ritratti (di questi, solo 10 sono femminili). L’ultimo è dedicato a Paolo Borsellino, acquistato dal Comune circa due anni fa, dopo un concorso indetto tra gli studenti dell’Accademia di Belle Arti. Un luogo di grande fascino, dove si respira storia e cultura, che conserva un tesoro sterminato, tra cui: una rara seconda edizione (1575) della celeberrima opera di Niccolò Copernico “De revolutionibus orbium coelestium”, inserita dall’UNESCO nell’elenco delle “Memorie del Mondo”; un’edizione del 1501 dei “Trionfi” del Petrarca a stampa su pergamena e il “Martyrologium”, il più antico manoscritto della collezione, un raro codice liturgico con le note a margine sugli eventi della vita legati ai sovrani normanni.
L’Assessore alla Cultura del Comune di Palermo Andrea Cusumano annuncia che nella Primavera del 2017 saranno organizzate iniziative per dare risalto ad alcuni dei volumi più pregiati, a cominciare dal Codice Resta, restaurato dall’Istituto Nazionale per la Grafica. Si tratta del celebre Libro d’arabeschi, di padre Sebastiano Resta, ritrovato nel 1984 tra gli scaffali lignei dall’allora direttore della Biblioteca Antonino Manfrè. Era rimasto in quella scaffalatura per almeno duecento anni, dimenticato. Inviato da Roma a Palermo intorno al 1690 da padre Resta, il più noto collezionista di disegni del XVII secolo in Italia, al suo amico e corrispondente padre Giuseppe del Voglia, un oratoriano della Congregazione dell’Olivella di Palermo, anch’egli dilettante di disegni e appassionato collezionista d’arte. Un volume importantissimo per la storia del collezionismo e per i disegni lì conservati, prodotti dai maggiori protagonisti di scuola tosco-romana dei secoli XVI e XVII – a cominciare dagli allievi di Raffaello, Giulio Romano e Perin del Vaga, a Francesco Salviati, Federico Zuccari, il Vignola e Pietro da Cortona, per citare solo i nomi più noti.
Soddisfatta la Direttrice, Eliana Calandra, che porta a conclusione un percorso più ampio di restauro iniziato quasi 19 anni fa e afferma: “abbiamo pensato di riaprire con delle visite guidate per tutto il mese di gennaio perché abbiamo il piacere di mostrare alla città la biblioteca nella sua nuova veste. Da febbraio riprenderà, invece, regolarmente la consultazione in loco”. Restaurate, tra le altre cose, le torri librarie e la sala Amari al piano terra, che si affaccia sul cortile, con le sue seicentesche librerie dipinte, che custodisce il deposito dei libri Preziosi e Rari. Un tempo ex cappella della Vergine del complesso dei padri Gesuiti, la sala in seguito fu dedicata a Emerico Amari, giureconsulto che ha lasciato tutta la sua collezione di libri alla Biblioteca. Al primo piano, le due sale di lettura storiche con le scaffalature lignee ottocentesche su due livelli e ballatoi percorribili da dove si affacciano i volti dei Siciliani illustri. In queste sale sono anche visibili i due mappamondi seicenteschi realizzati da Matthaus Greuter in cartapesta e pergamena.
Il complesso architettonico comprende anche il restauro delle due ex-chiese di San Michele Arcangelo e dei SS. Cripino e Crispiniano. La prima, d’impianto trecentesco, è usata per custodire i depositi librari mentre la seconda sarà utilizzata per attività culturali.
Due edifici che raccontano la stratificazione complessa di questa parte della città, sorta lungo le sponde del fiume Kemonia, interrato nel Cinquecento, che con la forza delle sue acque torrentizie aveva creato un complesso ipogeico nel sottosuolo, dove grotte e catacombe furono sedi di riti liturgici delle prime comunità di fedeli cristiani e non solo. Infatti, il complesso di Casa Professa, attiguo e parte della Biblioteca Comunale, è sorto proprio sopra l’antica chiesa della Madonna della Grotta e le chiesette appena nominate. Ancora, nella parte settentrionale di Casa Professa, sotto Palazzo Marchesi, si trova il famoso Mikveh, il bagno rituale ebraico. Fu proprio in questo luogo che, dopo l’espulsione dei Gesuiti dal Regno delle Due Sicilie, avvenuta nel 1767, il Re decise di trasformare il complesso cristiano in tempio laico, al fine di rendere il sapere più accessibile, in pieno illuminismo, e di favorire l’istruzione e lo studio.
Dal mese di gennaio 2017, la Biblioteca aprirà al pubblico nei seguenti orari: dal lunedì al venerdì ore 9.00-13.00 e mercoledì anche 15.30-17.30. Per tutto il mese saranno organizzate visite guidate su prenotazione a cura di personale interno (telefonare al numero 091-7407949; http://librarsi.comune.palermo.it).



domenica 15 gennaio 2017

Un triplo Cd rosso e sei libri

di Giuseppe Rusconi

I musici furori di Lorenzo Baldisseri, pianista rossoporpora. Poi testi sui Sinodi della Famiglia (Franco Ferrari); sulla via Appia (Paolo Rumiz ); sul piccolo mondo antico dell’alpe ticinese (Giuseppe Zoppi); sulla Svizzera, il “Paese più felice del mondo” (François Garçon); su un viaggio letterario in Vaticano (Christina Höfferer); sulla storia della famiglia Ruschi (dello stesso ceppo dei Rusconi e dei Rusca) da Como a Pisa.

UN TRIPLO CD DELLA LIBRERIA EDITRICE VATICANA PER LORENZO BALDISSERI, PIANISTA ROSSOPORPORA
Finalmente abbiamo avuto il tempo di aprire l’elegante cofanetto dal titolo “Florilegio musicale” (edito dalla Libreria editrice vaticana) e di ascoltarne con calma (e anche con curiosità) il contenuto: tre cd musicali, incisi da un pianista assai singolare che risponde al nome di Lorenzo Baldisseri, cardinale di Santa Romana Chiesa. Il porporato ha un ‘cursus honorum’ di tutto rispetto: nunzio a Haiti, in Paraguay, India, Nepal, Brasile, poi segretario della Congregazione per i vescovi e del Collegio cardinalizio, infine segretario generale del Sinodo dei vescovi e cardinale. Insomma è un vissuto di esperienze molto diverse tra loro ma sempre al servizio fedele della Santa Sede; connesso tale vissuto a un’acquisizione di conoscenze di persone e di fatti tali da rendere il settantaseienne toscano – volente o nolente – un uomo di potere all’interno delle Sacre Mura.
Baldisseri, da grand commis vaticano, è poco appariscente, ma opera molto, perlopiù silenziosamente. Sostiene un onere gravoso e forse questo spiega più di tutto la sua dedizione alla musica, a quella pianistica in particolare, perché sul pianoforte può trasporre quei sentimenti che normalmente non può esternare. Tre pianoforti, tre cd per il cardinale baccelliere in canto gregoriano e formatosi in pianoforte a Lucca, Roma, Asuncion e in Brasile. Non siamo critici musicali, perciò possiamo solo dirvi che abbiamo ascoltato con attenzione i 33 brani proposti, in cui l’illustre pianista (non dimentichiamoci: possiede tutte le caratteristiche dei toscani) è passato dalla dolcezza di tocco al furore che travolge, dai “Notturni” di Chopin alle “Polacche” del medesimo autore (cui la musica polacca dev’essere simpatica, poiché ritroviamo anche un brano nostalgico e solenne di un altro autore dell’Ottocento, Michael Kleofas Oginski), dalla “Canzonetta popolare” di Schumann al bachiano “Jesus bleibt meine Freude”, da Mascagni dell’ “Intermezzo dalla Cavalleria Rusticana” alla “Fantasia III in re minore” di Mozart, dalla “Danza espaňola” di Enrique Granados alle “Bachianas brasileiras” di Villa Lobos. E ancora ecco il “Valzer di Musetta” di Puccini, “Granada” di Albeniz, la “Consolazione n. 3” di Liszt , le “Csardas” di Vittorio Monti… Insomma: da un nunzio giramondo e un cardinale che il mondo se lo trova sulla porta dell’ufficio (o dell’Aula sinodale) non poteva che uscire un florilegio musicale di respiro pluralistico. Riconosciamolo: piacevole ad ascoltarsi.

“FAMIGLIA. DUE SINODI E UN’ESORTAZIONE. DIARIO DI UNA SVOLTA”, di Franco Ferrari, Edizioni Nerbini, Firenze, 2016
Fondatore e animatore dell’associazione cattolica ‘progressista’ “Viandanti”, Franco Ferrari ha seguito con attenzione lo svolgimento dei due Sinodi sulla famiglia, fino alla pubblicazione della controversa esortazione apostolica “Amoris laetitia”. Da quanto ha potuto e saputo osservare ha tratto materiale adeguato per questo suo “Famiglia. Due Sinodi e un’esortazione”, postillato dalla constatazione molto significativa “Diario di una svolta”. Volumetto di poco meno di 200 pagine, pubblicato presso le Edizioni Nerbini di Firenze, presenta un testo agile che rievoca in forma diaristica l’evolversi quotidiano dei lavori sinodali, come emerso sia dai quotidiani appuntamenti in Sala Stampa che dal dibattito rovente sviluppatosi nei media. Ferrari riferisce con onestà giornalistica di quanto ha visto e ascoltato, anche se comprensibilmente – in linea con i suoi ‘occhiali progressisti’ - pone l’accento su questo e non su quello, approvando o disapprovando (ma sempre con sobrietà) tale o tal’altra azione dei fronti contrapposti in aula (e anche fuori). Ad esempio esalta “la freschezza tedesca” nel primo Sinodo e, per quanto riguarda il secondo, si compiace del “pressing di papa Francesco” e storce il naso per le “pressioni mediatiche (o rossoporpora?)”. Nella conclusione definisce il doppio Sinodo “un lavoro intenso che darà molto frutto”. La prefazione è di Giancarla Codrignani, l’introduzione di Andrea Grillo, che - sotto il titolo “Cronaca di una svolta annunciata”- rileva tra l’altro che “in questa svolta è nato qualcosa di nuovo” e “muore anche qualcosa di vecchio”. Ovvero: “Muore l’ossessione di controllo, muore la preoccupazione integralista di un Vangelo ridotto a dottrina e di una dottrina identificata con una sola disciplina possibile”. In piena sintonia con papa Francesco.

“APPIA”, di Paolo Rumiz, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 2016
“Avevo portato a termine memorabili trasferte in bici, in barca, in treno, in corriera, perfino con un’utilitaria d’epoca, ma non avevo mai proposto qualcosa che avesse le scarpe come mezzo di locomozione. Al giornale dissero subito di sì”. Parola del giornalista Paolo Rumiz di “Repubblica” e l’itinerario stavolta è nientepopodimeno che la Regina viarum, l’Appia, oltre 2300 anni di vita, originariamente 360 miglia di ghiaia e selciati (poi divenuti 612 chilometri) da Roma a Brindisi. Ma, presa la decisione, ecco il grandinare dei dubbi dei conoscitori: “La strada non c’è più, si perde in campi di frumento e periferie, gli italiani se la sono mangiata. Troverai i campi liberi, la camorra e Gomorra, la grande sete, lo Stato che non c’è più… No, è pura follia”. E invece, osserva il tenace friulano Rumiz, “forse quella impercorribilità era un vantaggio. Anzi, il vantaggio. Significava che l’Appia forse non la faceva più nessuno (…) Fu la svolta. Essere il primo a rifare, dopo decenni di oblio, la prima via d’Europa, era un lusso. Provaci, dicevo a me stesso, il vero racconto sono proprio gli ostacoli”. Così, il 28 aprile 2015, Paolo Rumiz è partito da Roma, Porta Capena con altri ardimentosi (intercambiabili lungo il percorso), raggiungendo le rive adriatiche a Brindisi il 13 giugno successivo. Passando da Albano Laziale e Cisterna di Latina, Terracina, Fondi, Formia, Minterno e Capua. E poi Maddaloni, Benevento, Bisaccia, Melfi, Venosa, Gravina in Puglia, Altamura, Palagiano, Taranto, Oria e Mesagne. Un’impresa anche in chiave ‘meridionalistica’, sviluppatasi in 29 tappe, tra mille prevedibili difficoltà, trasposta giornalisticamente nelle 360 pagine di “Appia”, edito da Giangiacomo Feltrinelli.
“L’abbiamo ritrovata ricoperta di tangenziali, parcheggi, supermercati, campi da arare, cave, acciaierie, sbarrata con cancelli, camuffata con cento altri nomi, presa talvolta a picconate peggio dell’Isis” – rileva ancora Rumiz, lasciando ben immaginare le difficoltà registrate, miste però alla scoperta della variegata umanità incontrata e alla riscoperta di monumenti romani antichi e umiliati. Curiosità certo da una parte, dall’altra ineludibile “dovere civile di riconsegnare al Paese un bene scandalosamente abbandonato”. Da tutto ciò è nata anche la preziosa “tracciatura del percorso integrale della madre di tutte le vie”, grazie al fotografo Riccardo Carnovalini, autore dell’intera cartografia e dell’utilissima e dettagliata “Guida alle ventinove tappe” che occupa le ultime settanta pagine del libro. Per chi legge, le sorprese sono numerose. Le riflessioni fors’anche di più.

“IL LIBRO DELL’ALPE”, di Giuseppe Zoppi, Armando Dadò Editore, Locarno, 2016
Ecco la riedizione di un testo che abbiamo molto amato nella nostra infanzia, quando frequentavamo la scuola elementare di Giubiasco. Seconda metà degli Anni Cinquanta, quando Giuseppe Zoppi (1896-1952) era tra gli autori più in voga, ma anche più amati, nella Repubblica e Cantone del Ticino. Soprattutto per il suo “Libro dell’alpe”, una rievocazione della vita dello scrittore da bambino, che saliva sui “sette o otto alpi” della Val Lavizzara, “tutti a circa duemila metri sul mare, tutti aggrappati alle ultime vette ancora pezzate di neve, tutti fuori, in un certo senso, dal mondo”. Poi la fortuna ticinese del “Libro dell’alpe” – cui si incominciò a rimproverare una visione “idillica” della vita di montagna - declinò con l’entrata in scena di altri scrittori come Plinio Martini (“Il fondo del sacco”) o Piero Bianconi (“L’albero genealogico”) che nei loro libri evidenziavano con grande forza la realtà spesso faticosa della quotidianità contadina.
Ora il “Libro dell’Alpe” è stato ripubblicato dall’editore Armando Dadò: rileggerlo fa bene non solo alla memoria ma anche per una valutazione critica più rispondente al vero. Come scrive nell’introduzione Yasmine Tonini, “sebbene Il libro dell’alpe sia spesso visto come esempio della letteratura dell’idillio, numerosi sono i brani che si discostano da una visione luminosa e idealizzante dell’alpe”. Leggiamo lo stesso Zoppi nel primo capitolo, “La via”: “Per me che emigrai giovanissimo (…) questa via sassosa che, partendo proprio dietro casa mia, sale serpeggiando fra macigni e castagni, fu spesso occasione di gioia. (…) Ma per quelli del paese, per quelli che ci sono nati e ci vogliono morire, questa è la via della fatica, la via della croce, la via del calvario. Tutti, uomini e donne, ci sono passati cento e mille volte, chini sotto qualche grosso peso: fieno, legna, segale, patate, calce, cemento”.
Ciò premesso, si potranno gustare sotto una luce nuova anche i ricordi filtrati (e non solo piacevoli) di Zoppi bambino, racchiusi in 65 brani spesso brevi, da “La campana” all’ “Assalto al ciliegio”, da “Mirtilli” a “La giornata delle meraviglie”, da “La bianchissima” a “Polenta grassa”. Sostanziosa la parte fotografica, belle le illustrazioni di Giovanni Tomamichel.

“LA SVIZZERA. Il Paese più felice del mondo”, di François Garçon, Armando Dadò editore, 2016
Nella cosiddetta classifica mondiale della cosiddetta felicità (elaborata dal Word Happiness Report ONU) la Svizzera è sempre ai primi posti: prima nel 2015, seconda nel 2016 (superata dalla Danimarca…il che suscita pur sempre qualche interrogativo sui criteri di giudizio adottati). Non stupisce allora il titolo del saggio dello storico franco-svizzero François Garçon, edito da Armando Dadò in traduzione italiana. Nelle circa trecento pagine del volume (che riporta alla fine una ventina di tabelle comparative molto interessanti) l’A. analizza a suo modo – ma fondandosi su tutta una serie di dati statistici di varia provenienza – lo stato di salute della democrazia elvetica, che negli ultimi tempi sta riscuotendo una sempre maggiore ammirazione a livello di popoli europei, in parallelo al declino dell’Unione. Ciò a dispetto della mala fama di nazione profittatrice dei guai altrui e quasi simbolo dell’egoismo collettivo, come prescritto dall’ufficialità politico-economica-massmediatica europea. Non a caso nel volume di Garçon si parte da due fatti percepiti come traumatici da tale ufficialità: la crisi bancaria del 2009 a seguito delle misure prese dagli Stati Uniti e l’approvazione nel febbraio 2014 dell’iniziativa popolare contro l’immigrazione di massa (in verità preceduta da quella del novembre 2009 contro la costruzione di nuovi minareti). Come è potuto succedere questo in un Paese che – come scrive l’economista Mauro Baranzini nell’introduzione – “sin dall’Ottocento, ma in modo particolare fin dagli Anni Sessanta dello scorso secolo, ha saputo amalgamare nel miglior modo possibile da una parte le diversità (linguistiche, religiose, culturali, storiche e regionali) con la povertà delle risorse naturali (poche materie prime, spazio abitativo ristretto, assenza di accesso al mare, agricoltura deficitaria, ecc…)”?
Il saggio di Garçon si struttura in tre capitoli. Il primo è dedicato in positivo alla potenza industriale elvetica, al sistema fiscale, al mercato del lavoro. Il secondo alla “ricetta del miracolo svizzero”, in cui si evidenzia la possibilità di controllo popolare sull’operato del governo (“Agli occhi della gente la Svizzera è ormai diventata il Paese in cui i cittadini possono dire ad alta voce quello che pensano e poi vigilare sull’applicazione delle proprie scelte politiche”) e si rileva che “la chiave del benessere svizzero” è rappresentata dalla “diversificazione e qualità della formazione”. Nel terzo capitolo invece Garçon riflette su alcuni “problemi irrisolti”, promo fra tutti quello linguistico, con il dilagare dell’inglese che ha alterato gli equilibri tra le lingue ufficiali, a scapito dell’importanza di francese (e qui l’A. soffre palesemente) e italiano. Ne è derivato un certo appannarsi della coesione nazionale. Altro “problema irrisolto” quello del dualismo tra città e campagna, comune del resto a tanti altri Paesi europei. Grande attenzione Garçon la pone anche al fenomeno “Christoph Blocher”, il leader dell’Unione democratica di Centro (formazione di destra moderata) che è riuscito in pochi anni a portare il suo partito alla maggioranza relativa nella Confederazione. In conclusione un consiglio di Garçon ai critici europei: diano prova di curiosità e di umiltà, chinandosi a studiare il ‘sistema Svizzera’, Paese in cui “si trovano raggruppati tutti i meccanismi favorevoli all’innovazione tecnologica, al pieno impiego e alla stabilità politica a lungo termine”. Una constatazione forse un po’ troppo generosa, certo eccessiva nel suo entusiasmo, ma sostanzialmente non tanto lontana dal vero.

“VIAGGIO LETTERARIO IN VATICANO. Con la vespa rossa a Piazza San Pietro”, di Christina Höfferer, Libreria editrice vaticana, 2016
Chi è Christina Höfferer? Giornalista appassionata di cultura e di letteratura da viaggio, è da lungo tempo corrispondente a Roma della Radiotelevisione austriaca e del “Wiener Zeitung”. Per l’A. l’Anno Santo della Misericordia si è rivelato anche una buona occasione per indagare culturalmente più a fondo la realtà molto sfaccettata del mondo vaticano. L’ha fatto e ne è risultato un testo che soddisfa la curiosità del lettore di saperne di più su un ambiente assai spesso misconosciuto, quando non condannato pregiudizialmente. Tra i quindici agili capitoli (le pagine sono poco più di cento) ne troviamo di singolari come “Il posto fisso”, storia dell’ebrea Hermine Speier, accolta in Vaticano negli Anni Trenta su interessamento dell’allora direttore dei Musei vaticani Bartolomeo Nogara; o quello in cui Angelo Maria Arrigoni, “panettiere del Papa” (anzi la famiglia ha servito tutti i Papi a partire da Pio XI), racconta le sue esperienze. Ne citiamo un paio: “Quando il polacco Giovanni Paolo II salì al soglio pontificio, la famiglia Arrigoni chiamò gli appartamenti papali per chiedere come il nuovo papa avrebbe voluto il pane. La risposta è stata: Vuole il pane che mangiano i vostri lavoratori”. E papa Benedetto XVI “preferiva pane di farina integrale. (…) Quando era ancora cardinale, (…) è venuto sempre da noi a comprare il pane, vestito da semplice prete, senza mai dire di essere un cardinale. Era una persona molto, molto colta e molto umile”. Per quanto riguarda papa Francesco…leggete il capitolo! A una domanda conclusiva è difficile sfuggire: come mai, in tanta evidenza, nel titolo e in copertina c’è una vespa rossa parcheggiata appena fuori da Piazza San Pietro? Appartiene, come si saprà dal capitolo a lei dedicato, all’odierna ambasciatrice di Germania presso la Santa Sede Annette Schavan…ahimè – ma sarebbe falsa misericordia scordarlo - proprio la stessa ex-titolare dell’Educazione tedesca (!) che nel 2013 dimissionò, essendole stato revocato dall’Università di Dűsseldorf il dottorato conseguito nel 1980 con una tesi per un terzo plagiata…

“NIL DIFFICILE VOLENTI. Una vicenda millenaria: i Ruschi da Como a Pisa”, di Pietro Verissimo Ruschi, edizioni ETS, Carrara, 2015
Fino a qualche tempo fa ignoravamo l’esistenza del cognome “Ruschi”. Poi un fedele lettore di tal cognome s’è fatto vivo per segnalare l’imminente presentazione a Como di un libro di suo padre sulla storia dei “Ruschi”, che per i primi secoli coincide con quella dei “Rusconi” e dei “Rusca”: così erano chiamati indifferentemente dal XIII al XVII secolo i membri di una famiglia lombarda, che – radicata a cavallo dell’attuale frontiera italo-svizzera – dominò in periodi compresi tra il Duecento e il Quattrocento le odierne Como e Bellinzona (e pure Lugano e Locarno). L’autore del volume di oltre 200 pagine, ricco di fotografie (anche del castello di Montebello a Bellinzona), illustrazioni e note a piè di pagine, è Pietro Verissimo Ruschi, docente universitario, architetto (tra i suoi maggiori restauri la brunelleschiana Sagrestia Vecchia di San Lorenzo a Firenze), presidente del Comitato scientifico di Casa Buonarroti. I “Rusconi/Rusca/Ruschi” erano di parte ghibellina, per la qual cosa nello stemma di famiglia troviamo l’aquila, il leone e le bande di rosso in campo d’argento. Ampia e dettagliata l’introduzione riguardante le vicende del casato nei primi secoli. Poi quelli che oggi sono i “Ruschi” si trasferirono – dopo un primo breve soggiorno a Pisa - in Lunigiana, per poi tornare definitivamente nella stessa Pisa a metà del Cinquecento. E lì furono protagonisti nel corso dei secoli della vita politica e culturale non solo pisana, ma anche toscana. 

da: http://www.rossoporpora.org/