giovedì 20 luglio 2017

Benson, Greene & Co: il culto di Baron Corvo tra i cattolici

di Luca Fumagalli

Un lettore si appassiona a un libro quando in esso trova tracce di sé. C. S. Lewis, facendo riferimento al suo diuturno rapporto con J. R. R. Tolkien, definì l’amicizia tra due persone pressappoco allo stesso modo.
A quanto pare, a giudicare dalla mole di scritti giunti sino a noi, numerosi autori e studiosi cattolici hanno trovato qualcosa di loro stessi nelle opere di Frederick Rolfe “Baron Corvo” (1860-1913). Strambo dandy del tardo decadentismo, morto in povertà a Venezia, Corvo è oggi ricordato soprattutto per Adriano VII, romanzo fantastorico di un Papa inglese che riesce a imporre la volontà della Chiesa alla litigiosa Europa moderna.
Mons. Robert Hugh Benson (1871-1914), uno dei tanti amici/nemici che avevano incrociato la strada dello sfortunato scrittore, fu colui che, per primo, si incaricò di mantenerne viva la memoria letteraria.
A Cambridge, infatti, pur non occupandosi direttamente della cappellania cattolica dell’università, Benson era riuscito grazie alle sue indiscutibili doti di predicatore a riunire intorno a sé un piccolo gruppo di zelanti studenti, i cosiddetti “Bensonians”. Oltre a Shane Leslie (1885-1971), ideatore del nome, la compagine era composta da Eustace Virgo (1861-1937), Vyvyan Holland (1886-1967), secondo figlio di Oscar Wilde, Ronald Firbank (1886-1926) e Jack Collins (1882-1912). Questi giovani eccentrici, alla ricerca di un’esistenza non convenzionale, lontana dalle rigide imposizioni dell’epoca edoardiana, trovarono in Benson un maestro che li spinse tra le braccia della Chiesa di Roma. Il motto del sacerdote, «l’anticonformismo è il sale della vita», fu la pietra su cui venne edificato il loro sodalizio.
I “Bensonians” furono i primi cultori della figura e dell’opera di Baron Corvo. Benson li introdusse agli scritti dell’amico con una tale passione che le lunghe conversazioni serali, intervallate dalla lettura ad alta voce delle pagine migliori di Rolfe, divennero presto per loro un appuntamento irrinunciabile.
Leslie, valente poligrafo e apologeta, nel 1923 fu il primo a redigere un articolo biografico sul conto dello scomparso scrittore, a cui fece vestire anche i panni di Baron Falco nel romanzo The Cantab(1926). Holland, Collins e Virgo potevano contare nelle proprie librerie diversi volumi di Corvo; Firbank ne coltivò lo stile e fuse nel protagonista del suo racconto lungo Sulle eccentricità delCardinal Pirelli (1926) i caratteri di Adriano VII e di mons. Benson.
Tra i lavori di Rolfe che i “Bensonians” preferivano vi era lo collezione di novelle italiane intitolata In His Own Image. Collins aveva definito il volume “il quinto Vangelo” e anche Benson aveva letto così tante volte i racconti da conoscerli quasi a memoria. Uno degli arazzi che decoravano la sua casa, quello raffigurante il Santo Graal, era ispirato a una delle storie.
Benson, oggi ricordato soprattutto per essere l’autore del bestseller Il Padrone del mondo, pagò il suo affetto per Rolfe vedendosi affibbiata dai delatori l’infame etichetta di omosessuale. Un’accusa naturalmente infondata, ancora più grave se si pensa all’assoluta continenza sacerdotale che contraddistinse tanto la vita quanto la narrativa del monsignore inglese.
Con la pubblicazione nel 1934 di Alla ricerca del Baron Corvo (The Quest for Corvo), il nome di Rolfe iniziò finalmente a circolare, prima tra i bibliofili, poi tra il più vasto pubblico dei lettori. La biografia, scritta da A. J. A. Symons e dedicata a Shane Leslie, è ormai diventata un classico del genere. Dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale, essa contribuì al fiorire di una pletora di studi dedicati al misterioso barone. Del resto Eustace Virgo, nel suo romanzo autobiografico Life at a Venture (1930), pubblicato con lo pseudonimo di E. V. de Fontmell, aveva profetizzato il successo postumo che avrebbe investito Frederick Rolfe: «Il povero diavolo è morto, ma la sua fama di genio, di letterato e di enigmatico mistero vivranno di nuovo».
Tra gli intellettuali cattolici della seconda metà del XX secolo che più si appassionarono alla vita e all’opera di Baron Corvo, Graham Greene (1904-1991) merita un posto d’onore. Il quasi premio Nobel definì provocatoriamente Rolfe «uno scrittore di genio» e da lui trasse un importante lezione per caratterizzare i personaggi dei suoi romanzi, costantemente in biblico tra peccato e redenzione.
Uno dei più importanti “Corvomaniaci” fu il monaco carmelitano Brocard Sewell (1912-2000), cultore del decadentismo inglese e co-autore di un brillante saggio sulla conversione di Rolfe (The Clerk Without a Benefice: A Study of Fr. Rolfe, Baron Corvo’s Conversion and Vocation). Sewell, che in gioventù militò tra i ranghi della Lega Distributista e che ebbe contatti con il partito fascista inglese, fu un accanito oppositore delle riforme liturgiche promosse dal Concilio Vaticano II. Nel post-Concilio, forse ferito da quella che percepiva come una resa della Chiesa alle logiche del mondo, perdette letteralmente la testa: si mise a contestare Paolo VI da posizioni progressiste e nel libro Vatican Oracle attaccò pubblicamente l’enciclica Humanae Vitae. Di conseguenza ebbe parecchi grattacapi con le autorità ecclesiastiche e trascorse buona parte degli ultimi anni della sua vita in esilio volontario in Canada.
Il maggior merito di Sewell nell’ambito degli studi corviniani è la curatela, insieme a Cecil Woolf, del volume New Quests for Corvo (1965), una collezione di articoli dedicati a Rolfe. Il libro era stato distribuito per la prima volta quattro anni prima in edizione limitata con il titolo Corvo 1860-1960. La Saint Albert’s Press, la casa editrice dei carmelitani britannici, si occupò dell’impaginazione e della stampa del testo, provvisto di imprimatur.
Altri ammiratori di Baron Corvo furono il monaco benedettino Sylvester Houédard (1924-1992), poeta e traduttore, esperto di storia delle religioni, e Alexandra Zaina (1921-2008), quest’ultima membro attivo della Latin Mass Society, un’organizzazione nata in Inghilterra con lo scopo di difendere la messa tridentina in opposizione alle innovazioni conciliari. Chi la conobbe racconta che l’amore per Corvo giocò un ruolo determinante a favore del suo conservatorismo liturgico.
L’americano Ralph McInerny (1929-2010), professore di filosofia presso la University of Notre Dame, nell’Indiana, oltre a essere stato uno dei nomi più importanti dell’intellighenzia conservatrice statunitense, scrisse alcuni saggi di approfondimento sui più importanti romanzieri cattolici. In Some Catholic Writers (2007), per esempio, si parla ampiamente di Rolfe, autore a cui McInerny dedicò anche un ciclo di conferenze.
Baron Corvo non mancò inoltre di essere segnalato in varie antologie letterarie come, per esempio, The World’s Great Catholic Literature di George N. Shuster (1980), e The Pen and the Cross di Richard Griffith (2010).
Frederick Rolfe rimane dunque una figura certamente complessa, un uomo dotato di molte personalità, alcune delle quali in perenne contrasto tra loro, annegate in un mare di frustrazioni e paranoie. Quel che è certo, però, è che nei suoi romanzi, negli articoli o nei saggi – che spesso completò senza la soddisfazione di vederli pubblicati – traspare ogni volta il suo sincero attaccamento alla Fede, l’aspetto più interessante della parabola esistenziale di Corvo, il motivo, in altre parole, per cui tanti cattolici hanno voluto omaggiare la narrativa di questo sfortunato scrittore che fu Papa nell’immaginazione, barone nella finzione e genio nella vita.

da: www.radiospada.org

mercoledì 19 luglio 2017

Don Divo Barsotti. Solo la santità salverà la Chiesa

di Lorenzo Bertocchi

Ci sono uomini di fede capaci di parlar chiaro, inafferrabili, autenticamente controcorrente, non per vezzo, né per orgoglio, ma profondamente liberi. Così si può dire di Don Divo Barsotti considerato un grande mistico del ‘900, fondatore della Comunità dei Figli di Dio, instancabile cercatore della Verità e capace di risvegliare spiriti assopiti fossero etichettati di “destra” o di “sinistra”. In questo forse un certo ruolo l’avrà giocato il suo “temperamento toscano”, quel carattere che il Card. Biffi – estimatore del Barsotti – ha definito “insofferente agli equivoci e amante delle posizioni chiare”1.
A testimonianza di questa sua libertà di pensiero e di azione si può ricordare la profonda amicizia con La Pira, il non facile rapporto con Dossetti, l’intenso incontro con Von Balthasar e le parole scritte a prefazione di un saggio sull’opera di Romano Amerio: “Io vedo il progresso della Chiesa a partire da qui, dal ritorno alla Santa Verità alla base di ogni atto”2. Queste parole scritte a 91 anni, poco prima della morte avvenuta nel febbraio 2006, sono di grande significato anche per risolvere la questione del “rinnovamento nella continuità” come chiave interpretativa del Vaticano II e probabilmente rappresentano l’ultimo avvertimento della “sentinella”.
La figura di Don Barsotti si offre in tutta la sua complessità: mistico, letterato, teologo, monaco, missionario, poeta, sacerdote, la sua vita è stata tutto questo, una vita attraversata dalla continua ricerca della volontà di Dio e perciò santamente travagliata. A colpo d’occhio la sua esistenza appare come divisa da un cancello da attraversare, un passaggio mistico tramite cui far comunicare il visibile con l’invisibile, in qualche modo fisicamente rappresentato dal cancello di Casa S. Sergio sulle colline di Firenze, cuore della Comunità da lui fondata e dove oggi riposano le sue spoglie mortali.
Don Divo nasce nel 1914 a Palaia in provincia di Pisa, settimo di nove figli; entrò in seminario all’età di undici anni e nel 1937, dopo un certo travaglio interiore, divenne sacerdote. Fino al 1947, anno della prima consacrazione in quella che diverrà la Comunità dei Figli di Dio, la sua vita si potrebbe sintetizzare con questa frase: “Dammi una missione, o Signore”3. Una notte di ottobre del 1944, fece un sogno in cui si trovò davanti ad un cancello con uno splendido glicine, ad aprirgli un monaco, alto, solenne, dai tratti orientali, che gli impedì di entrare, ma gli fece cenno di ascoltare un canto dolcissimo che proveniva dall’interno della casa, Don Divo riconobbe quel monaco in San Sergio di Radonez4. Dodici anni dopo, nel 1956, alla ricerca di una sede per la neonata Comunità, fece un sopralluogo ad una casetta nei pressi di Settignano, giunto davanti al cancello della casa Barsotti restò impietrito: il cancello era identico a quello del sogno, glicine compreso, inutile dire che quella fu scelta come dimora della Comunità e la paternità spirituale fu affidata inevitabilmente a San Sergio di Radonez. Non deve meravigliare il rapporto con questo Santo se si pensa all’influenza che il cristianesimo russo ha avuto sul Barsotti: più volte egli ha parlato dell’opera di Dostoevskij come l’incontro decisivo della sua vita, ma anche altri pensatori come Solov’ev e Berdjaev hanno avuto forte influenza su di lui.
Arriviamo così agli anni del Concilio Vaticano II, evento a cui Don Divo non parteciperà attivamente, ma che in qualche modo rappresenta un ulteriore spartiacque nella sua vita. Infatti, se fino ad allora Barsotti era considerato un innovatore – ebbe persino problemi con l’autorità ecclesiastica in merito ad alcune sue esegesi bibliche – dopo il Concilio fu sempre più critico rispetto alla ventata di novità che prorompeva da un certo “spirito conciliare”, al punto da essere bollato come “conservatore”. Egli stesso nel suo diario spirituale del 1980 parla di “congiura del silenzio”5 nei suoi confronti, isolato dal mondo teologico italiano, mentre paradossalmente veniva sempre più richiesto per varie predicazioni ed impegni in ambito ecclesiale.
Il fatto che il Concilio Vaticano II e il “post-concilio” rappresentino uno spartiacque nella vita di Don Barsotti emerge non soltanto dai suoi scritti o interventi, ma anche da alcune sue esperienze di vita. Innanzitutto mi riferisco all’incontro con due uomini che in diverso modo e misura hanno caratterizzato una certa interpretazione politica e teologica di quegl’anni.
Il primo personaggio è Giorgio La Pira, per il quale attualmente è in corso il processo di beatificazione, che fu membro dell’Assemblea Costituente della Repubblica italiana, deputato e poi sindaco della città di Firenze. L’incontro tra La Pira e Barsotti risale al 1939, quando i due cominciarono un sincero e profondo rapporto epistolare. Per Don Divo questo incontro fu importantissimo, infatti, grazie a questa amicizia cominciò una collaborazione con l’Osservatore Romano, ma più in generale trovò in lui un amico che lo aiutò e lo capì più di altri.
L’altra personalità con cui ebbe un intenso rapporto fu Giuseppe Dossetti, nel 1952 l’allora onorevole del Parlamento italiano invitò Barsotti ad un incontro vicino a Reggio Emilia al termine del quale, con grande sorpresa, chiese al “monaco” toscano di fargli da guida spirituale. Don Divo non rifiutò e lo accompagnò nella scelta religiosa che Dossetti intraprese di lì a poco, ma – come ricorda il Card. Giacomo Biffi – “si rese conto ben presto delle lacune e delle anomalie del pensiero dossettiano”6, al punto che arrivò a prendere le distanze da Don Giuseppe. Il motivo fu il pericolo che il direttore spirituale intravedeva nel rapporto con il Prof. Alberigo, alfiere della cosiddetta “Scuola di Bologna”, il cui cuore era l’Istituto per le Scienze Religiose fondato dallo stesso Dossetti negli anni ’50. E’ importante ricordare che a questa “Scuola” è attribuita una interpretazione del Vaticano II in chiave di discontinuità o rottura. Il Card. Biffi ci fornisce una testimonianza di prima mano per capire bene le ragioni di quello che accadde, infatti, due erano le riserve sostanziali che separarono Barsotti da Dossetti: “prima di tutto disapprovava un’ossessione primaria e permanente per la politica, che alterava la sua prospettiva generale; in secondo luogo deprecava l’insufficiente fondazione teologica di Dossetti. E – aggiunge l’Arcivescovo Emerito di Bologna – mi confidava, alla fine dei suoi giorni, di essere ancora molto preoccupato degli influssi che la “teologia dossettiana” continuava a esercitare su certe aree culturali della cristianità.”7
Il non facile rapporto con Dossetti ha sfumature diverse rispetto a quello con La Pira che Barsotti ha più volte definito “un santo”, un vero uomo di Dio, tuttavia notava che “una volta sindaco [di Firenze], rimase sì il santo che aveva conosciuto, ma poi mi sembra abbia avuto un calo.”8 In altri passi possiamo intendere meglio cosa possa significare questo “calo”, infatti, ribadiva di sapere benissimo “quanto era grande, che fede aveva…ma non basta per evitare di fare delle enormi stupidaggini in politica.”9
Il giudizio di Barsotti sul quel mondo politico-culturale che ha fatto dello “spirito del concilio” una bandiera emerge in maniera sorprendente dagli archivi inediti della Comunità dei Figli di Dio. La data è significativa, 9 maggio 1978, il giorno dell’assassinio di Aldo Moro, così scrive Don Divo: “E’ morto La Pira, oggi è morto Moro. Coloro che volevano il dialogo, che credevano nel dialogo. Non so di Moro, La Pira era un grande cristiano. Un periodo della storia finisce. Ritorna il momento della lotta, e sarà spaventosa; l’opposizione tra il male e il bene, tra Satana e Dio, riapparirà in tutta la sua violenza, e finalmente anche i cristiani saranno luce. Non più compromessi, manipolazioni particolari, alleanze equivoche. Finalmente potremo morire per la nostra fede.”10 La bruciante analisi su quelli “che volevano il dialogo”, ma che di fatto produssero “compromessi e alleanze equivoche” va oltre l’aspetto politico per calarsi in un contesto di fede, di lotta fra Dio e satana, come se finalmente le cose potessero di nuovo essere chiamate con il loro nome e i cristiani tornare ad essere luce, fino al dono totale di sé. Sorprende come questo commento sia ancora oggi di una certa validità, in particolare il bisogno di chiarezza appare sempre più urgente nell’ambito ecclesiale, per superare un periodo di divisioni e confusioni interpretative che nella pratica non hanno fatto altro che confondere vero e falso.
Se questo è il suo rapporto con alcuni esponenti di spicco di un certo mondo politico-culturale in seno alla Chiesa Cattolica, fa riflettere anche il suo legame con alcuni teologi protagonisti dell’epoca conciliare, mi riferisco ad esempio a J. Daniélou, H. de Lubac, L. Bouyer, von Balthasar, da cui ha tratto degli spunti, ma ha sempre conservato una vera autonomia. Per capire in che senso deve essere intesa questa autonomia basti citare quanto scriveva già nel diario del 1967: “Senso di rivolta che mi agita e mi solleva fin dal profondo contro la facile ubriacatura dei teologi acclamanti al Concilio. Si trasferisce all’avvenimento la propria vittoria personale, un’orgogliosa soddisfazione che non ha nulla di evangelico”11. Poi nel 1979 un giudizio lacerante: “Tutti gli insegnamenti del Concilio, tutta l’azione della Chiesa, tutto è sospeso nel vuoto se la Chiesa non ha più il coraggio di rendere testimonianza della divinità del Cristo. I veri responsabili della crisi del mondo sono i teologi”12. Tra tutti i contemporanei fu von Balthasar quello con cui Barsotti strinse un più convinto rapporto di amicizia e stima reciproca, mentre l’opinione negativa più evidente mi pare quella su Theilard de Chardin: “E’ il pensatore che sta dietro a molti degli errori che inquinano la teologia (e la mentalità) moderna. E’ stato il maestro di certi periti ed esperti conciliari.”13
Nel 1970 Don Barsotti aveva dato alle stampe “Dopo il Concilio. Crisi nella Chiesa?”, un agile libro dal titolo inequivocabile che conteneva una disamina attenta di ciò che si andava piano, piano maturando. Rispetto ai teologi e più in generale alla teologia, Don Barsotti metteva un punto fermo sottolineando come “la novità di una teologia che rinnega la teologia del passato, non è più una novità cristiana.”14 Molti indicano che in questo libro ci sia tutto sommato un giudizio positivo dell’evento conciliare, ma a ben guardare vi sono contenute preoccupate analisi che poi nel tempo assumeranno toni sempre più circostanziati e allarmati.
Il tema della liturgia è un evidente esempio di questo, infatti, nel testo del 1970 veniva definito sapiente “il Concilio che apre la liturgia alla lingua nazionale e materna e sprona alla creazione di nuove melodie, di nuovi canti e nello stesso tempo non ripudia il latino, non getta a mare il canto gregoriano!”15 Nel 1984 però, intervistato da Messori, le sue parole assumono tutt’altro tono: “si ha l’impressione che la riforma [liturgica] abbia portato a qualcosa di ancor meno vitale di quanto c’era prima.”16 Così nel 1996, sulla rivista Rogate Ergo, il grido di allarme si fa denuncia: “Non possiamo accettare la riforma liturgica così come è stata introdotta…Non vuol dire proprio nulla la lingua volgare…Il problema non è di capire sul piano intellettuale, ma di compiere un incontro reale con Cristo. E non vedo nella Liturgia di oggi qualcosa che stimoli questo incontro.”17 E’ evidente che con il passare degli anni le riserve sull’evento conciliare, alla luce dei fatti che si andavano dispiegando nel post-concilio, cominciano a prendere il sopravvento nell’analisi che Don Divo compie sulla situazione della Chiesa e sul Concilio Vaticano II.
Nel 1988, in un intervista concessa ad Antonio Socci, Barsotti esprimeva in modo schietto il suo punto di vista: “forse il Concilio non ha sottolineato abbastanza la sostanziale estraneità della Chiesa al mondo”18, mentre egli richiamava spesso la frase “nel mondo, ma non del mondo” per indicare che la Chiesa è un segno, ma segno di una Presenza salvifica che è tutt’altro rispetto ad un mero “fatto sociale”. Non a caso egli ha mostrato particolare difficoltà proprio nei confronti della Costituzione pastorale “Gaudium et spes” di cui, già nel diario del 1974, sottolineava “l’ambiguità evidente” ed “estremamente grave”19. Questo non deve stupire, nel 1967 in tempi non sospetti, Don Divo faceva una riflessione tormentata, ma acutissima a riguardo di una certa “ossessione” di dover rinnovare il cristianesimo per farlo stare al passo con i tempi. “Il problema vero di un rinnovamento del cristianesimo – concludeva – non è un problema di tecnica, è un problema spirituale.”20 Su questo tema ritorna più volte indicando che “si vorrebbe fare della Chiesa uno strumento della vita sociale”21 e sottolineava ancora che “una della pagine più tristi degli ultimi decenni è un documento dell’ultimo Concilio, nel quale si magnificava l’umanità di oggi e ci si apriva ad un ottimismo che si è dimostrato fallace”22
Mentre sulla “barca di Pietro” la tempesta infuriava la “sentinella” non nascondeva neanche le responsabilità di certi prelati che presi da timore o da una insana necessità di risultare graditi al mondo, omettevano di svolgere in pieno il loro ruolo. Di fronte al dilagare delle varie teologie che “nascono e muoiono, ma non danno assolutamente quella sicurezza che dava prima l’insegnamento della Chiesa”23, Barsotti non esitava a richiamare i Vescovi al loro compito più importante: ““mi dicano quello in cui devo credere e quello che devo rigettare”24 Al fine di fare chiarezza sulla questione del “rinnovamento nella continuità” come modo di interpretare il Concilio, alcuni richiamano proprio la necessità di poter distinguere in modo autentico ciò che è in “continuità” da ciò che non lo è.
Sull’importanza dell’autorità occorre dire che Don Divo non ha esitato a parlarne nemmeno predicando gli esercizi spirituali al Papa, infatti, sorprendentemente nel 1971 fu chiamato da Paolo VI a predicare in Vaticano. Il tema fu quello del “sacerdozio” e così parlò anche dell’importanza del potere donato direttamente dal Signore ai suoi ministri e più in generale alla Sua Chiesa, autorità che specialmente in quegli anni era facilmente misconosciuta, “infatti, dilagava l’anarchia…nelle chiese del Nord Europa ci si faceva beffe del Santo Padre. Ed io – dirà poi Barsotti – non ho mai capito come si potesse essere così duri con Lefevbre (che sbagliava, ma pur sempre sul piano disciplinare) e lasciar correre chi, come Kung, Curran, Schillebeeckx, metteva in discussione il dogma.”25 Il problema del riconoscimento dell’autorità lo aveva affrontato anche a riguardo dei famosi avvenimenti del 1967 nella parrocchia dell’Isolotto di Firenze, vera avanguardia di quel catto-comunismo che poi fece breccia in molti ambienti ecclesiali. All’Isolotto il parroco – Don Enzo Mazzi – si mise in aperto contrasto con il Card. Florit e Barsotti si sentì indirettamente chiamato in causa, infatti, fu il predicatore degli Esercizi per l’Ordinazione di quel sacerdote e “il predicatore degli Esercizi si sente sempre interiormente legato e solidale con i sacerdoti che accompagna all’altare. L’ultima volta che parlai a Don Mazzi – diceva Barsotti nel 1970 – gli dissi che avevo paura per lui; oggi debbo dirgli che solo l’obbedienza nella vita presente, salvaguarda l’amore e l’umiltà.”26
D’altra parte per lui la “tensione tra libertà e autorità” è risolta solo dall’obbedienza come atto di amore, inoltre diceva spesso che dove c’è il Vescovo c’è la Chiesa, ma nella misura in cui quel Vescovo vive in comunione con il Papa. Il tema è ancora oggi di scottante attualità.
In conclusione diciamo che i diari spirituali di Don Divo Barsotti testimoniano come il tema della “ricezione” del Concilio è stato per lui assai tormentato: nel 1967 era preoccupato per l’eccessiva lunghezza e il linguaggio dei documenti, nel 1979 lo infastidisce il continuo richiamarsi al Concilio per voler mutare ogni cosa, nel 1983 stigmatizza la visione troppo ottimistica della storia umana, nel 1989 si preoccupa per il fatto “che non hanno voluto condannare l’errore e hanno preteso di rinnovare la Chiesa quasi che il “loro” Concilio potesse essere il nuovo fondamento di tutto.”27
Per ciò che riguarda il dialogo interreligioso manifestò direttamente a Giovanni Paolo II – che pur stimava moltissimo – le sue perplessità in occasione dell’incontro di Assisi 1986. La sua preoccupazione era per quel tipo di approccio ecumenico con cui “si rischia di non far più differenza” e così “il popolo non può più rendersi conto di quello che è specifico del cristianesimo.”28
Finalmente nel 1990 offre il suo travagliato atto di Amore alla Chiesa: “Nel Concilio non possono essere stati insegnati errori, anche se può essere stata taciuta la verità. E se le direttive non fossero opportune, si impone tuttavia l’obbedienza.”29
Eppure Don Divo può essere considerato anche un precursore del Vaticano II, soprattutto penso al suo insistito richiamo alla santità rivolto ai laici. Lungi da lui fare riferimento alla testimonianza con toni moralistici, egli era veramente persuaso che il vero rinnovamento della Chiesa, e quindi anche il ruolo giocato dal Concilio, può realizzarsi solo dai santi. A questo proposito, predicando a Paolo VI, citava coloro che “attuarono” il Concilio di Trento: Carlo, Filippo, Ignazio, Francesco Saverio, Teresa, Giovanni della Croce, e “guai se rompiamo il legame che ci unisce alla Chiesa di sempre. Non posso riconoscere la Chiesa di oggi se questa non è la Chiesa del Concilio di Trento, se non è la Chiesa di Francesco e di Tommaso, di Bernardo e di Agostino. Io non so che farmene di una Chiesa che nasca oggi. Se si rompe l’unità la Chiesa è già morta. La Chiesa è viva soltanto se, senza soluzione di continuità, io sono nella Chiesa uno con gli Apostoli per essere uno con Cristo.”30
Chissà che proprio Don Divo Barsotti non sia parte di quella nuova schiera di Santi che un giorno qualcuno ricorderà perché capaci di rinnovamento in quanto radicati nella Tradizione.
da: Sentinelle del post Concilio, Cantagalli, Siena.


1 G. Biffi “Memorie e digressioni di un italiano cardinale”, Ed. Cantagalli, Siena 2010, pag. 492
2 dal commento di Don Divo Barsotti al testo di Enrico Maria Radaelli, “Romano Amerio. Della verità e dell’amore”, Marco Editore, Lungro di Cosenza, 2005, commento pubblicato on-line su http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/45538
3 A. Colzi, Una Comunità e il suo fondatore: Don Divo Barsotti, Editrice Shalom, Camerata Picena (AN), 2006, pag. 66
4 San Sergio di Radonez, monaco russo morto il 25 settembre 1392, è il Santo più venerato in Russia, ebbe visioni della Beata Vergine Maria, fondatore di molti piccoli monasteri, padre di tantissimi monaci, ebbe molta influenza sulla storia russa.
5 Citato in S. Albertazzi, Sull’orlo di un duplice abisso, Edizioni San Paolo, Milano 2009, pag. 37
6 G. Biffi, Op. cit., pag. 492
7 Ibidem, pag. 493
8 A. Colzi, Op. cit., pag. 298
9 D. Barsotti, I cristiani vogliano… Op. cit., pag. 196
10 V. Luccarelli, “Non sono più io che vivo…”, stampato in proprio dalla Comunità dei Figli di Dio, pag. 240
11 D. Barsotti, Battesimo di Fuoco, Rusconi Editore, Milano 1984, pag. 58
12 citato in S. Albertazzi, Op. cit., pag. 86
13 D. Barsotti, I cristiani vogliano essere cristiani, a cura di P. Canal, Edizioni S.Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2006, pag. 164
14 D. Barsotti, Dopo il Concilio, Ed. Messaggero Padova, 1970, pag. 90
15 D. Barsotti, I cristiani vogliano… Op. cit., pag. 56
16 Ibidem, pag. 168
17 Ibidem, pagg. 269-270
18 Ibidem, pag. 181
19 Cfr. D. Barsotti, L’attesa. Diario 1973-1975, SEI Torino, 1995, pagg. 213-214
20 D.Barsotti, Battesimo di…, Op. cit., pag. 85
21 D. Barsotti, I cristiani vogliano essere… Op. cit., pag. 182
22 Ibidem, pag. 233
23 Ibidem, pag. 80
24 Ibidem, pag. 272
25 Ibidem, pagg. 183-184
26 D. Barsotti, Dopo il Concilio…Op. cit., pag. 48
27 Cfr. S. Albertazzi, Op. cit. pagg. 88, 89 e 90
28 D. Barsotti, I cristiani vogliano essere… Op. cit., pag. 257
29 citato in S. Albertazzi, Op. cit., pag. 91
30 D. Barsotti, Le responsabilità dei Preti. Prediche al Papa, Edizioni S. Paolo, Cinesello Balsamo (MI), 2010, pagg. 105-106

da: www.libertaepersona.org

martedì 18 luglio 2017

Boni sitis si potestis in Regno Christi

di Luca Fumagalli

Dedicato a tutti quelli che cercano ogni giorno di viver da Cristiani Cattolici, nonostante tutto.

Scrivo queste poche righe con le lacrime agli occhi e anche con una certa rassegnazione poiché penso che comunque non cambierà molto nel cosiddetto mondo “tradizionalista una cum e non una cum” che, bene o male, condivide la stessa Messa.
Sono forse il più folle e lunatico “tradizionalista” che abbia frequentato e che frequenta diverse realtà conservatrici e che, negli anni, anche se con fatica, ha provato a voler bene davvero ad ogni singolo fedele. Alcuni se ne sono andati, diversi sono ritornati o hanno abbandonato la Fede, altri ancora hanno seguito false convinzioni teologiche; qualcuno, per il gusto di cambiare, ha girovagato per seminari e per realtà così diverse tra loro che alla fine è ritornato all’origine o si è arreso al modernismo.
Spesso, però, la colpa di tutto ciò non è solo dei fedeli instabili, ma anche delle attenzioni che gli altri credenti o i sacerdoti hanno nei confronti dei nuovi arrivati. È vero che le cappelle e le chiese ove si celebra la Messa di sempre hanno preti certamente più in gamba di quelli delle parrocchie “normali”, ma è altresì vero che a volte manca un po’ di comprensione umana verso coloro che magari si sono accostati a questa realtà solo da poco e che non sanno ancora quali siano le regole e gli atteggiamenti da avere per vivere bene la Fede Cattolica autentica.
Io, purtroppo, l’ho imparato solo da poco, nonostante sia tra i vecchi conservatori: con la durezza o la rigidità a tutti i costi verso coloro che vorrebbero vivere meglio la loro Fede, si ottiene solo l’effetto opposto.
Poiché siamo uomini e donne liberi, se forziamo il prossimo a fare qualcosa che non gli piace, pur essendo giusta, o lo attacchiamo senza usare un po’ di misericordia, non lo guadagniamo a Dio ma rischiamo di allontanarlo. Alcuni santi come Filippo Neri e don Bosco, che spesso viene citato durante gli esercizi spirituali di sant’Ignazio, ce lo ricordano molto bene. Il primo infatti soleva ripetere: «Non fate i maestri di spirito e non pensate di convertire gli altri; ma pensate a regolare prima voi stessi»; e il secondo: «Amate ciò che amano i giovani, affinché essi amino ciò che amate voi. Per evitare rivalità ed ostilità io debbo tenere il metodo finora seguito: fare senza dire. Dite ai giovani che li aspetto tutti in Paradiso. Noi qui facciamo consistere la santità nello star molto allegri».
Nelle nostre piccole realtà, simili a volte all’Isola che non c’è, manca il concetto di comunità che invece ben si realizza, anche senza un fondamento Cattolico serio, nelle parrocchie. È vero, veniamo da posti diversi, spesso molto distanti tra loro, tuttavia i mezzi di comunicazione attuali ci danno enormi possibilità che ritengo andrebbero sfruttate. Se è vero che non siamo obbligati a sentirci una comunità, è pur vero che di questo passo si tornerà molto presto a chiese domestiche: quando i legami non si saldano tutto finisce. Chi impedisce ai fedeli di trovarsi dopo la Messa tra loro per qualche Agape conviviale o contattarsi tramite i moderni strumenti tecnologici per scambiare due chiacchere o recitare il Rosario e le preghiere del mattino e della sera?
Se alcuni santi non si vergognavano di pregare nei posti più impensati, persino in bagno, perché non utilizzare i media per fini utili e nobili indipendentemente dal luogo ove ci troviamo? Chi ci impedisce di ritrovarsi per organizzare insieme le vacanze invernali o estive?
Impariamo a fare comunità e a rispettarci tra noi. È vero, le posizioni teologiche sono molto importanti, però converrete con me che se uno sceglie un tipo di Messa sta già facendo un buon passo verso la Verità. Purtroppo l’unica cosa certa è che questo è forse il periodo storico più buio che la Chiesa abbia mai vissuto. Sarebbe pertanto utile che coloro che hanno la stessa visione comincino a vivere come se facessero parte di una comunità, “una cum” i primi, “non una cum” i secondi. Quando e se questa disputa verrà risolta, allora entrambi potranno riunirsi e pregare insieme per poi un domani far rinascere le parrocchie di una volta.
Non vorrei che questo venisse preso come un articolo sentimentalista. Piccole o grandi comunità che creino legami di preghiera, di amicizia e di vera fratellanza e, chissà, magari anche proposte lavorative condivise, secondo ritmi cristiani, sono importantissime.
Alla fine di tutto, però, ciò che importa davvero è la Santità. Non stanchiamoci mai di averla come chiodo fisso e tutto intorno a noi, nonostante fatiche e tribolazioni, si trasformerà in gioia.
Amiamoci gli uni gli altri come Lui ci amati e impariamo che non c’è amore più grande del dare la vita per i propri Amici. Senza vergogna, sine timore, creiamo legami seri di amicizia tra noi e saremo luce del mondo e sale della terra, poiché la nostra amicizia sarà l’immagine della Sua. Questo ce lo ricorda Pio XIII che cita a sua volta sant’Agostino: «Se vuoi vedere Dio, hai a disposizione l’idea giusta: Dio è Amore. Ma se non ami il fratello che vedi, come puoi amare Dioche non vedi?»
Amiamo i nostri amici e ancor più i nostri amici cattolici, altrimenti come potremmo esser credibili difronte agli altri? «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,16)
Prima di salutarvi, vi dedico questa poesia di Jorge Luis Borges, da me rielaborata in Catholicstyle, sperando possa piacervi e nella speranza che possiate condividerla con coloro a cui più volete bene e che magari chiamate Amici o Amiche.

Non posso darti soluzioni
per tutti i problemi della vita
Per i tuoi dubbi o timori ti dico confida in Dio,
poiché io posso solo ascoltarli e dividerli con te
Non posso cambiare né il tuo passato
né il tuo futuro
Però quando serve starò vicino a te
Non posso evitarti di precipitare,
solamente posso offrirti la mia mano
perché ti sostenga e non cadi
La tua allegria, il tuo successo e il tuo trionfo
non sono i miei
Però gioisco sinceramente quando ti vedo felice
Non giudico le decisioni che prendi nella vita
Mi limito a consigliarti e a stimolarti sulla via del Bene
e aiutarti se me lo chiedi
Non posso tracciare limiti
dentro i quali devi muoverti,
Però posso offrirti lo spazio
necessario per crescere
Non posso evitare la tua sofferenza,
quando qualche pena ti tocca il cuore
Però posso piangere con te e raccogliere i pezzi per rimetterlo a nuovo.
Non posso dirti né cosa sei né cosa devi essere
Solamente posso volerti come sei, pregare perché viva ogni tuo giorno da Cristiano
ed essere tuo amico.

P.S. un ricordo nella Preghiera.

da: www.radiospada.org

domenica 9 luglio 2017

La Romanità della Chiesa: da Cesarea di Filippo al dominium mundi

di Giuliano Zoroddu

I Vangeli non sono racconti fantasiosi, ma resoconti storici: pertanto gli Evangelisti nell’opera di fissazione scritta dell’ευαγγέλιον (euanghélion, buona novella) si presero cura di indicarci tempi e luoghi di avvenimenti realmente accaduti. Mi occuperò qui dei luoghi, di due luoghi particolari e del loro perché. Non so se coloro i quali mi leggeranno, si siano mai posti la domanda sul perché Nostro Signore Gesù Cristo nell’atto di conferire a san Pietro il primato di governo sul Collegio Apostolico e su tutta la Chiesa, abbia scelto proprio Cesarea di Filippo e il Lago di Tiberiade. Nell’economia della salvezza nulla è senza senso: pare pertanto ragionevole pesare che non senza il consiglio della divina Provvidenza colui il quale avrebbe fissato la sua Cattedra episcopale in Roma sia stato esaltato al culmine apostolico proprio in due località strettamente legate non già all’Impero Romano in generale, ma all’Imperatore stesso. Partendo da questi presupposti, vorrei condividere con voi alcune riflessioni sulla Romanità della Chiesa a livello e spirituale e temporale, che potrebbero tornare utili per barcamenarci fra i flutti di questo nostro tempo sconquassato.
Cesarea di Filippo (attuale Banyas, Israele) fu costruita dal tetrarca Erode Filippo sul sito dell’antica Panea, alle fonti del Giordano, in onore di Augusto, cui pure dedicò un tempio che troneggiava dall’alto della rocca. Qui, verso la metà dell’anno 29, Gesù costituì Simon Pietro, che per primo lo aveva riconosciuto come “il Cristo, il Figliuolo del Dio vivente” (Matth. XVI, 6), pietra basilare (in aramaico Kepha = Roccia) della Chiesa che avrebbe fondato. Come fa notare l’abate Ricciotti l’immagine usata da Gesù fu agli uditori “tanto più chiara davanti alla visione della roccia materiale che sostiene il tempio dedicato al signore del Palatino” 1. Tiberiade invece fu fondata da Erode Antipa nel 20 d.C. in onore dell’imperatore Tiberio con lo scopo di farne il centro del Regno di Galilea. Sulle rive del lago che da essa trae nome il Risorto apparve agli Apostoli e confermò a Pietro il ministero di pascere tutto il suo gregge (Cfr. Ioann. XXI, 1-17).
I due avvenimenti, narrati il primo da san Matteo e il secondo da san Giovanni, insegnano con chiarezza adamantina la dottrina cattolica secondo cui “il primato di giurisdizione in tutta la Chiesa di Dio fu promesso e dato immediatamente e direttamente da Cristo Signore al beato Apostolo Pietro […] ed al solo Simon Pietro diede Gesù, dopo la sua Risurrezione, la giurisdizione di sommo Pastore e Rettore su tutto il suo ovile” 2. Il succitato passo giovanneo infatti, nella sua versione greca, parla di “τὰ ἀρνία” (agnelli = fedeli), “τὰ πρoβὰτια” (pecorelle = chierici), “τὰ πρόβατα” (pecore madri = vescovi), il che fa esclamare al Crisostomo aver sparso il suo preziosissimo Sangue il Cristo “per redimere quelle pecorelle, che affidò a Pietro e ai suoi successori” 3. Che in san Pietro fossero riconosciute queste prerogative primaziali ce lo attesta indirettamente il suo coapostolo Paolo il quale tre anni dopo la sua conversione si recò a Gerusalemme al solo scopo di “vedere Pietro” (Gal. I, 18) . Commenta il Padre Sales, Professore di Sacra Scrittura all’Angelicum e Maestro del Sacro Palazzo sotto Pio XI: “benché chiamato ed istruito immediatamente da Gesù Cristo, san Paolo credette suo dovere di visitare san Pietro, non per imparare da lui il Vangelo, ma per conoscerlo e rendere omaggio al Capo del collegio apostolico e di tutta la Chiesa. In queste parole si ha una conferma del primato conferito a san Pietro, come riconoscono tutti i santi Padri” 4. Siccome poi nell’anno 42 il Principe degli Apostoli e Vicario di Cristo, fissò in Roma la Cattedra definitiva del suo Episcopato, consacrandola infine col suo stesso sangue nel 64, la Chiesa di Gesù Cristo ha – oltre a quelle di Unità, Santità, Cattolicità e Apostolicità – la nota della Romanità. Si badi bene a non considerare quest’ultimo come una carattere minore, esclusivo magari della sola Chiesa Latina o un residuo di una mentalità “esageratamente” romanocentrica, anti-protestante e anti-bizantina: al contrario esso è il carattere che racchiude in sé gli altri poiché essi “si riscontrano solo nella Chiesa che riconosce per capo il Vescovo di Roma, successore di san Pietro” 5. Pertanto il dottissimo Leone XIII, riprendendo il pensiero di san Cipriano 6 , con lapidaria sentenza ci insegna che “la causa efficiente dell’unità nel Cristianesimo è la Chiesa Romana” 7 e non può essere altrimenti se crediamo fermissimamente con sant’Ireneo (un orientale del II secolo, mica Umberto di Silva Candida!) che con questa Chiesa “per una [sua] più forte supremazia – (po[ten]tiorem principalitatem) – è necessario che concordi ogni Chiesa” 8. Esso è il carattere che maggiormente mette in evidenza come nell’unità del Cristo non vi sia differenza fra Giudeo e Greco, fra circoncisi e incirconcisi, onde al Corpo Mistico di Lui si può applicare ciò che il pagano Claudio Rutilio Namaziano cantava di Roma idolatra: “Fecisti patriam diversis gentibus unam […] urbem fecisti, quod prius orbis erat” 9. Dopotutto, rigettata che fu Gerusalemme deicida e votata alla distruzione, la Città Santa della Nuova ed Eterna Alleanza è Roma: “Roma è la nuova Sion, e romano è ogni popolo che vive di fede romana” 10. Pietro quando arrivò a Roma ne iniziò la pacifica conquista, lo aiutò in seguito san Paolo e, migrati essi al Cielo, proseguirono l’opera le schiere dei Martiri che finalmente uscirono dall’oppressione dietro ai labari di Costantino Magno, vittorioso non già per gli auspici dei demoni dell’aria ma per la potente virtù della Croce di Cristo. Lo stesso avvenne in ogni parte dell’impero, senza che le massime autorità di esso ne fossero pienamente consce, quantunque “crescesse per tutto l’Oriente l’antica e costante opinione che fosse scritto nel destino del mondo che dalla Giudea sarebbero venuti, in quel tempo, i dominatori del mondo” 11. L’Urbe era “ignara dell’autore della sua elevazione” 12 dirà san Leone Magno: eppure tutta la sua grandezza era un dono di Dio, come ben ci spiega sant’Agostino nel De civitate Dei. Augusto non ebbe la minima idea che sotto il suo regno Dio s’era fatto Uomo nascendo dalla Vergine; Tiberio che pure, come ci dice la Tradizione 13 , voleva inserire il Nazareno nel Pantheon, non riconobbe in lui l’unico vero Dio da cui deriva ogni potestà e per cui i re regnano; gli altri, chi più chi meno, perseguitarono la Chiesa. Ma lo stesso santo Pontefice rivolgendosi alla stessa Urbe, ormai liberata dai lacci del diavolo, le ricorda: “[Pietro e Paolo] ti hanno innalzata a tanta gloria, che, divenuta nazione santa, popolo eletto, città sacerdotale e reale e, per la Sede augusta del beato Pietro, la capitale del mondo intero, stendi la tua supremazia, grazie alla religione divina, assai più lontano che non fu per la dominazione terrena” 14. Per inciso, non si può non accennare a quanto fu foriera di discordia la distinzione fra vecchia e nuova Roma operata al momento della fondazione di Costantinopoli: “Gl’Imperadori fecero quella distinzione per stare a pari con Augusto: i Patriarchi per non comparire da meno di san Pietro. Ma come agl’Imperadori bastava, ad argomento di distinzione, il non esservi più seggio imperiale nell’antica Roma, ai Patriarchi non bastava, perché in quella era il papale seggio. Quindi un irragionevole studio a distinguersi dai Latini; e si afferrarono alla barba, alla moglie, al pane col lievito nell’eucaristia, e, quel che è peggio, al non voler credere lo Spirito Santo procedente dal Figliuolo” 15. Ma torniamo al nostro tema. L’impero di Roma battezzato in Costantino e Teodosio entrò nell’impero di Cristo e sebbene il trono occidentale cadde sotto i colpi dei Barbari, l’Impero, giusta la sentenza dell’Angelico Dottore “non è cessato, ma da temporale si è mutato in spirituale” 16 dimodoché, per citare colei che scoprì la tomba e le reliquie di san Pietro, “all’impero caduco fondato da Augusto, subentrò l’impero perenne della Chiesa universale, cioè cattolica” 17. Ma chi è il capo di questo impero spirituale certo, ma incarnato? Capo invisibile è ovviamente il Cristo “Rex regum et Dominus dominantium” (Apoc. XIX, 16), sommo Sacerdote, Re e Profeta, Autore del Sacerdozio e del Regno; Capo visibile è il suo Vicario che con Cristo fa una cosa sola e che partecipa della medesima plenitudo potestatis di Lui. È un po’strano pensare che quell’uomo di Betsaida, il pescatore impetuoso e tenero al contempo, sia stato elevato a tanta dignità da superare, nella potenza del suo Signore, la possanza di quelli che Virgilio celebrò come i padroni del mondo e di esserne in un certo qual modo e soprattutto nella persona dei suoi successori, l’erede. È difficile da credere, lo ammetto, ma ascoltiamo l’Apostolo: “Le debolezze del mondo ha scelto Dio per svergognare i forti, e le cose vili del mondo e le spregevoli elesse Dio, le cose che non son nulla, per annientare le cose che sono; acciocché nessun individuo si glorii al cospetto di Dio” (1Cor. I, 27-29). E pienamente consapevole di ciò la Santa Chiesa nell’ultimo responsorio del secondo Notturno del Mattutino dei santi Pietro e Paolo, canta: “Tu es pastor ovium, princeps Apostolorum: tibi tradidit Deus omnia regna mundi”.
Tutta in questo senso si orientò la magnifica costruzione del cerimoniale papale: la persona Papæ (l’istituzione divina e non l’uomo peccabile) con la fronte redimita dal sacro triregno (evoluzione del frigium), rivestita del manto e dei sandali rossi (insegne regio-sacrali di origine etrusca) e servita da clero e laicato, da Vescovi e Principi, si manifestava, quale veramente era (ed in teoria è), l’apice, oltre che della Chiesa Universale, della Società temporale, l’apice della città della terra indirizzata alla città del Cielo, l’apice del Regno sociale di Nostro Signor Gesù Cristo. Per cui se l’Imperatore si trovava a Roma era chiamato a servire il Sommo Pontefice durante le funzioni, a tenere la briglia o la staffa durante le processioni a cavallo, a rendere a Cristo in lui l’omaggio della devozione e dell’obbedienza nella fede. Possiamo ben dire che il Papato è l’unica autorità “mondialista” secondo Dio, che la società da esso vivificata – la Christianitas – sia stata incarnazione nella storia della Verità rivelata, antica e sempre giovane al contempo. Per questo contro di esso si son scagliate e tuttora si scagliano le frecce di coloro che non militano sotto i vessilli di Cristo Re: Foziani di ogni nazione, Protestanti di ogni setta, Massoni di ogni obbedienza, Cesari neri e rossi di ieri e di oggi, rivoluzionari, mondialisti, sionsisti, omosessualisti, comunisti, e tutti coloro che sotto varie bandiere sono emissari e strumenti, più o meno consapevoli, del Demonio. Ovviamente ciò non poteva piacere ai modernisti che durante e dopo il Concilio operarono lo smantellamento barbaro, sacrilego ed eretico di tutta questo mirabile edificio teologico e politico, proprio di quella Chiesa che marchiarono come “costantiniana”. Se proclamando “l’ordine dei vescovi […] soggetto di una suprema e piena potestà su tutta la Chiesa” 18 si minò la costituzione monarchica della Chiesa e affermando che “la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa” 19 si ripudiava la signoria di Cristo sulla società, abolendo de facto la lingua latina si attentava alla Tradizione della Chiesa e alla vita stessa dei fedeli. Lo riconobbe lo stesso Papa Montini parlando della Messa nuova: “Non più il latino sarà il linguaggio principale della Messa, ma la lingua parlata.[…] un grande sacrificio: perdiamo la loquela dei secoli cristiani, diventiamo quasi intrusi e profani nel recinto letterario dell’espressione sacra […]. Abbiamo, sì, ragione di rammaricarci, e quasi di smarrirci: che cosa sostituiremo a questa lingua angelica? È un sacrificio d’inestimabile prezzo” 20. Ma avendo deciso “la Chiesa del Concilio” di guardare “il mondo un po’ come Dio stesso guardò dopo la creazione la stupenda e sconfinata opera sua” 21 (dimenticando – verrebbe da dire – quella cosuccia che è il peccato originale) non si poteva presentarsi agli altri come i detentori dell’unico messaggio salvifico rivelato una volta e per sempre. Così la mannaia bugnian-montiniana distrusse il cerimoniale romano; la teatralità woytjliana svuotò la persona di Pietro e impose quella di Simone; il pontificato ratzingeriano, “sintesi hegeliana” tra Cattolicesimo e Modernismo, con l’invenzione del “Papa Emerito” ha dato il colpo mortale (se fosse possibile!) alla monarchia petrina. Sull’attuale Regnante preferisco esprimermi concisamente, evidenziando soltanto il becero “trionfo” di un pensiero anti-giuridico, anti-razionale (molto più antico di Papa Francesco) che avendo come fine la creazione di una “Chiesa” spirituale (eterea), ripropone l’odio gnostisco per la materia, l’odio in ultima analisi di Lucifero contro l’Incarnazione del Verbo.
Ma se noi oggi volessimo vedere l’unica rappresentazione plastica che è scampata alla distruzione o all’oblio più cupo, possiamo guardare la Cathedra Petri e meditare su di essa. Sto parlando dell’antico seggio (dalla dibattuta datazione) che si conserva come reliquia preziosa nella Cattedra berniniana. Chiamata anche “Sella gestatoria apostolicæ confessionis” è decorata con delle formelle raffiguranti le dodici fatiche di Ercole e non a caso. Il Pontefice Romano è infatti il vero Re-Sacerdote, costituito da Dio nel suo oggi eterno “su tutte le nazioni e i regni, perché sradichi, distrugga, disperda, dissipi, edifichi e pianti” (Ier. I, 10). Perciò egli è “servus qui super familiam constituitur […] Vicarius Iesu Christi, successor Petri, Deus Pharaonis: inter Deum et hominem medius constitutus, citra Deum, sed ultra hominem: minor Deo, sed maior homine: qui de omnibus iudicat, et a nemine iudicatur” 22, erede dei Cesari di Roma, cui tutti debbono obbedire perché a lui, nel Cristo, si riferiscono le parole del Profeta: “Cadent a latere tuo mille, et decem millia a dextris tuis […] retributionem peccatorum videbis. […] Super aspidem et basiliscum ambulabis,et conculcabis leonem et draconem” (Ps. XC, 4, 7-8, 13) 23. Il Papa è “τὸ κατέχον” di cui parla san Paolo (Cfr. 2Thess. II, 6.7), ciò che trattiene il sopravvento del regno dell’Anticristo e non, come da qualche decennio lo si presenta, il capo delle religioni, il rappresentate di un tanto indefinito quanto inquietante “sacro”, certo gradito alle oscure officine.
Sono pienamente conscio che dinnanzi allo sconsolante spettacolo odierno, le mie parole possono sembrare quelle di un illuso nostalgico, se non di una persona illusa e totalmente avulsa dalla realtà. Nient’affatto! Io credo che nel mondo in cui viviamo, assaliti dalla ciurma del mondialismo massonico anticristiano e antiumano e giustamente schifati da una gerarchia apostata, dobbiamo fare come la Vergine e l’Apostolo san Giovanni: dobbiamo stare presso la Croce. Davanti allo spettacolo orrendo di un Dio catturato, torturato e ucciso, i più persero la fede e abbandonarono il Maestro: così oggi allo stesso modo davanti allo spettacolo di una Chiesa avvilita da cinquant’anni e più di modernismo e oggi più mai da una gerarchia che scade nel becero, molti sono portati a guardare con occhi di ammirazione verso il mondo sedicente ortodosso, il quale, non avendo avuto la catastrofe deuterovaticana, appare quasi un’oasi di fede immacolata e saldissima. Lungi da noi lasciare la vera Chiesa di Cristo quand’è in rovina per unirci a coloro che nulla hanno a che spartire con Cristo, avvinti come sono disgraziatamente dalle spire dell’eresia e dello scisma. In questo tempo siamo portati a fare la bella professione di Fede: “Sì, io credo che le porte dell’Inferno non prevarranno. È promessa di Gesù!”; e a proclamare con tutta la nostra forza: “Per nessun motivo diverremo traditori e per nessun motivo abbandoneremo la Fede di Roma, nostra Madre. […]Se ci fosse anche chiesta la vita, ebbene daremo la vita per la Fede” 24. Ascoltiamo san Pio X: “L’Oriente resterà sempre il paese dell’aurora e che le sue plaghe ridenti non cesseranno di mandarci il lume della natura; ma, poiché il Signore ha eletto Roma per essere il testamento della nuova alleanza, è di qua che spande i suoi raggi il sole della verità e della grazia come l’han proclamato di gran cuore gli stessi Orientali in tante occasioni” 25. Ovviamente “la Roma cattolica custode della fede cattolica e delle tradizioni necessarie al mantenimento della stessa fede, alla Roma eterna, maestra di saggezza e di verità” non “la Roma di tendenza neo-modernista e neo-protestante che si è manifestata chiaramente nel Concilio Vaticano II e dopo il Concilio, in tutte le riforme che ne sono scaturite” 26. Tra le macerie della desolazione morale o della catastrofe bellica una sola colonna sta in piedi: il Romano Pontificato. Angariato dalla Sinagoga e dagli Imperatori; attaccato da eretici e potenti d’ogni sorta, colore ed epoca, esso sta ancora lì (nella sublimità o nella bassezza di chi pro tempore ne è investito) a camminare, conculcandoli, sui mostri del mondo perfido. E questo perché “il Papa ha le promesse divine; pur nella sua umana debolezza, è invincibile e incrollabile; annunziatore della verità e della giustizia, principio della unità della Chiesa, la sua voce denunzia gli errori, le idolatrie, le superstizioni, condanna le iniquità, fa amare la carità e le virtù” 27. Teniamoci quindi ben stretti alla Cattedra di san Pietro perché come diceva san Girolamo a san Damaso: “Io non conosco Vitale, non ho nulla in comune con Melezio e mi è ignoto Paolino: chiunque non raccoglie con te disperde ciò che ha ammassato, poiché chi non è di Cristo è dell’Anticristo” 28. Solo se faremo nostra la dottrina che ci hanno insegnato la Santa Chiesa di sempre e i suoi Sommi Pontefici (e non “Patriarchi” un tempo collaborazionisti!) e in base ad essa condurremo la santa battaglia potremmo affrontare le sfide sempre più ardue, che il mondo moderno, ostile più che mai al nome cristiano, ci pone dinnanzi.

NOTE
  1. Giuseppe Ricciotti,Vita di Gesù Cristo, § 397.
  2. Concilio Ecumenico Vaticano I, Costituzione dogmatica “Pastor æternus”, n.1.
  3. San Giovanni Crisostomo, De Sacerdotio, lib. II, cit. in Leone XIII, Satis cognitum, 29 giugno 1896.
  4. Padre Marco M. Sales OP, La Sacra Bibbia – Il Nuovo Testamento, Scuola Tipografica Salesiana, Torino, 1925, Vol. II, p. 245.
  5. San Pio X, Catechismo Maggiore, n. 162.
  6. San Cipriano di Cartagine, Epist. XLVIII ad Cornelium, n. 3. ; Epist. LIX ad Cornelium, n. 14.
  7. Leone XIII, Satis cognitum, 29 giugno 1896.
  8. Sant’Ireneo di Lione, Avdersus hæreses, lib. III, cap. 3, n. 2.
  9. Claudio Rutilio Namaziano, De Reditu, I, 63, 66.
  10. Cardinale Eugenio Pacelli, Discorsi e panegirici.
  11. Svetonio, Vita Vespesani, IV.
  12. San Leone Magno, Sermo LXXXII (al. LXXX). In Natali apostolorum Petri et Pauli, cap. II.
  13. Cfr. Giustino, Prima Apologia, 35; Tertulliano, Apologetico, 5 e 21; Eusebio di Cesarea, Storia Ecclesiastica, II, 2.
  14. Ivi, cap. I.
  15. Luigi Tosti, Storia dell’origine dello scisma greco, Le Monnier, Firenze, 1856, Vol. II, pp. 5-6.
  16. San Tommaso d’Aquino, In 2.am ad Thessalonicenses, c. II, lect. 1.
  17. Margherita Guarducci, Il primato della Chiesa di Roma. Documenti, riflessioni,conferme, Rusconi, 1991, p. 141.
  18. Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica “Lumen gentium” sulla Chiesa, cap. III, n. 22.
  19. Concilio Ecumenico Vaticano II, Dichiarazione “Dignitatis humanæ” sulla liberta religiosa, cap. I, n. 2.
  20. Paolo VI, Udienza generale del 26 novembre 1969.
  21. Paolo VI, Discorso al patriziato e alla nobiltà romana, 13 gennaio 1966.
  22. “il servo che è posto a capo della famiglia […] il Vicario di Gesù Cristo, il successore di Pietro, il Dio del Faraone; che è posto in mezzo fra Dio e gli uomini; al di qua di Dio, ma al di là dell’uomo; minore di Dio, ma minore dell’uomo; su tutti giudicante, ma da nessuno giudicato” (Innocenzo III, Sermo II in consecratione Pontificis Maximi, PL. Col. 658).
  23. L’aspide, il basilico, il leone e il drago sono raffigurati anche nel basamento della Cattedra del Laterano.
  24. Cardinale Iuliu Hossu, Vescovo greco-cattolico di Cluj-Gherla dei Romeni (1885-1970).
  25. San Pio X, Discorso ai prelati orientali giunti a Roma per il XV centenario di San Giovanni Crisostomo, 13 febbraio 1908.
  26. Monsignor Marcel Lefebvre, Dichiarazione del 21 novembre 1974.
  27. Pio XII, Discorso ai fedeli in occasione della Messa di riparazione per la condanna del Cardinale József Mindszenty, 20 febbraio 1949.
  28. San Girolamo, Epistola XV. Ad Damasum papam., 2.
da: www.radiospada.org

venerdì 7 luglio 2017

Chesterton e Waugh: ridere per non dimenticare

di Luca Fumagalli

Apparentemente G. K. Chesterton ad Evelyn Waugh non hanno nulla in comune. Nati in epoche diverse, entrambi portavoce di una poetica personalissima che si sostanzia in uno stile inconfondibile, l’unico punto di contatto tra i due sembrerebbe essere la conversione al cattolicesimo.
In realtà tra loro esiste un legame profondo, a partire da alcuni dettagli biografici condivisi come, per esempio, la passione per il disegno e il cammino di conversione intrapreso dopo aver accarezzato per qualche istante l’ipotesi del suicidio.
Chesterton e Waugh sono, per così dire, l’alfa e l’omega del primo periodo della letteratura cattolica inglese del ‘900, quello che attinge a piene mani dalla tradizione teologico-culturale di Newman e Manning e che si conclude idealmente con il Concilio Vaticano II (criticato aspramente da Waugh) e con il passaggio di testimone a Graham Greene e a una nuova generazione di autori di stampo progressista.
Waugh, del resto, ammirava l’opera di Chesterton, in particolare la ballata Lepanto, un’appassionante cavalcata lirica sulle orme di Don Giovanni d’Austria e della flotta cristiana che sconfisse quella turca nel 1571. A Chesterton, che ebbe occasione di conoscere di persona, l’autore di Ritorno a Brideshead dedicò inoltre un intero ciclo di conferenze.
Quello che più lega i due scrittori è soprattutto lo sguardo con cui l’uno e l’altro indagano la realtà, uno sguardo che si manifesta nei poli, diversi ma complementari, della nostalgia e del sorriso.
Al pari di Guareschi, Chesterton e Waugh sentivano infatti di vivere in un mondo che era loro estraneo. Dietro le ideologie più in voga non potevano non cogliere i semi di future tragedie, ed entrambi si dettero da fare per opporvisi, penna alla mano, attraverso la letteratura o la carta stampata. Quello che a loro stava più a cuore era ricordare allo spaesato cittadino dell’Europa moderna che era ancora possibile credere in quella Verità che solo la Chiesa cattolica aveva avuto il coraggio di custodire intatta nel corso di due millenni di storia.
Di conseguenza i loro scritti sono intrisi della nostalgia dell’Eden, di quella Itaca celeste che è la patria di ogni uomo. Ulisse e il suo metaforico viaggio di ritorno a casa sono evocati da Chesterton nelle pagine inziali de L’osteria volante, dove l’isola greca diventa il simbolo della resistenza all’invasione islamica, a ciò che è anti-umano; Waugh, da parte sua, dà a tutto questo una connotazione più architettonica che geografica. La vecchia dimora signorile di Bridehsead, secondo alcuni il vero protagonista del suo più noto romanzo, è il correlativo oggettivo della coscienza dei personaggi, il polo attrattivo a cui questi ultimi tenteranno in ogni modo resistere ma che, alla fine, li costringerà a una resa benefica che ha il gusto della salvezza eterna.
Il «Contra mundum» gridato a squarciagola da Charles e Sebastian in Ritorno a Brideshead, lungi dall’essere lo slogan di una ribellione post-adolescenziale, è il vessillo sotto cui si trovano a militare Chesterton e Waugh, una sfida lanciata alle convenzioni e alla banalità. E tutti e due, per fronteggiare un universo in declino, decidono di usare il sorriso, un arma oltremodo raffinata, il modo migliore per intrattenere e far riflettere il lettore.
Se Chesterton eccelle nell’arte del paradosso, Waugh opta per la satira, per una risata malinconica, a denti stretti, che sfocia a volte negli estremi dello humor nero. Il suo stile canzonatorio, però, non ha nulla di nichilistico, e la presa in giro non è mai separata dalla pietà e dalla compassione, a evocare le vie misteriose che imbocca la Provvidenza divina per raggiungere i suoi scopi.
Ancora oggi, dunque, Chesterton e Waugh sono due autori che meritano di essere letti e riletti. Quando il mondo sta lentamente scivolando nell’abisso, solo chi freme per un senso, solo chi cerca la verità, solo chi vive di una speranza concreta può permettersi, infine, il lusso dell’allegria.

da: www.radiospada.org

giovedì 6 luglio 2017

Potenza e atto in P. Louis Boyer

di P. Louis Boyer

La dottrina dell’atto e della potenza, coi princìpi e le applicazioni che ne derivano, costituisce la caratteristica e il fondamento della metafisica di Aristotele.
I. NOZIONI. – Le nozioni di atto e potenza sorgono dall’analisi fenomenologico-metafisica del movimento, inteso nel suo significato più ampio, come sinonimo di cambiamento o divenire. E’ questo, del cambiamento, un fatto di universale ed immediata evidenza empirica. L’essere che noi osserviamo ci si presenta, in tutti i momenti del suo sviluppo e della sua espansione, legato a un divenire molteplice e incessante per cui non è assolutamente identificabile con l’Essere uno, eterno, immobile, descritto da Parmenide. D’altra parte, ugualmente inconsistente di fronte alla ragione e all’esperienza era la posizione dì Eraclito, che, affermando il primato del movimento, nel puro divenire assorbiva anche l’essere: non è infatti concepibile il cambiamento se non in un soggetto che abbia una permanenza ontologica al di là delle sue successive perfettibilità. Occorre adunque riconoscere, con la positività del divenire, la realtà dell’essere.
Ora il divenire suppone, come suo principio e possibilità intrinseca, la potenza Si prenda l’esempio dell’artefice che scolpisce la statua: perché questo nascere, questo “divenire” della statua sia possibile, occorre anzitutto ci sia nell’artefice un potere reale, un principio dinamico che, messo in esercizio, trarrà all’essere la statua; è questa la potenza attiva. Inoltre anche nel marmo ci dev’essere una possibilità, un potere a divenire statua sotto lo scalpello dell’artista; è questa la potenza passiva. Entrambe, la potenza attiva e la passiva, costituiscono il “terminus a quo” del movimento che per esse si realizza, mentre trapassano all’atto: è in atto l’artefice quando esercita la sua arte, è in atto la statua quando è balzata fuori dalla possibilità, inerte per se stessa, del blocco di marmo. Così l’atto è la realtà o la perfezione, il fine e il termine del cambiamento; la potenza attiva ne è il principio dinamico; la potenza passiva è la capacità di passare all’atto; il movimento o cambiamento è il passaggio dalla potenza all’atto, o, meglio, l’ “atto dell’essere in potenza, in quanto è in potenza”. Atto e potenza sono, come si vede, nozioni prime e elementari che non ammettono definizioni propriamente dette, ma si impongono chiaramente al pensiero dall’analisi del divenire colto nell’esperienza.
Dai megarici in poi si è inclinato spesso a non riconoscere se non l’atto, e a negare l’esistenza della potenza. Ma è chiaro che un architetto, anche quando non sta costruendo, è diverso da chi ignora l’arte di fabbricare, ed è diverso proprio perché egli ha il potere di fabbricare bene; come un violinista non cessa di essere un artista, anche quando ha cessato di suonare. Vi è più: se tutto fosse atto, senza potenza, tutto starebbe fermo, non ci sarebbe più nessun movimento, nessun cambiamento, nessun progresso, nessuna evoluzione. Non sarebbe dunque sopprimere poco, il sopprimere la distinzione della potenza dall’atto (Aristotele, Metaph., IX, 3, 7).
II. PRINCIPI – I princìpi che scaturiscono dalle nozioni di atto e di potenza e che reggono tutto il campo dell’essere sono molteplici; eccone i principali.
1° L’atto e la potenza dividono l’ente: cioè, ogni ente è solo atto o è composto di potenza e di atto Poiché si parla di ente, infatti, si parla di una realtà che è, e che conseguentemente ha almeno la perfezione di essere : è dunque un atto Se ora quel medesimo ente rimane capace di progredire, di cambiare, di muoversi, si trova dunque in potenza al termine di quel progresso, di quel cambiamento o movimento qualsiasi: è dunque composto di atto e di potenza. Se l’atto fosse tutto attualità, sarebbe tutto perfezione, tutte le perfezioni, Dio; Dio solo è atto puro. Ogni altro ente è composto di atto e di potenza. Si può parlare di una potenza pura (così viene descritta la materia prima dagli scolastici), ma essa non è affermata come un ente, bensì come puro principio dell’ente materiale, insieme con l’atto specifico o forma (vedi).
2° La potenza e l’atto sono realmente distinti: infatti, se la potenza in un ente non si distinguesse realmente ma solo concettualmente dall’atto, quell’ente è realmente tutto atto e solo atto, e dunque realmente non ha un principio reale di cambiamento: sì ricadrebbe nell’errore dei megarici.
3° Connesso coi precedenti ed applicato poi in molti casi è il principio che l’atto, nell’ordine in cui è tale, non viene limitato o moltiplicato se non è ricevuto in una potenza reale, dimodoché nell’ordine in cui esso è puro, è infinito ed unico. Eccone la ragione: l’atto non si limita da se stesso, perché nel suo concetto non entra la limitazione Si pensi, ad es., la bellezza, e si supponga che ciò che è pensato in quel concetto venga realizzato separatamente, senza determinarsi in una cosa bella, ma rimanendo la bellezza stessa: è chiaro che la bellezza stessa è una sola, e che non è bella in certo grado, ma contiene in sé la fonte di tutti i gradi di bellezza. Per pensare la bellezza limitata o moltiplicata, occorre metterla in diversi soggetti, ì quali sono tante potenza reali a riceverla, e ricevendola a limitarla secondo la loro capacità.
Questa concezione è sostanzialmente quella che informa i dialoghi di Platone; nel Fedone dove egli dice che il bello è ciò per cui le cose belle sono belle o nel Simposio, dove, trascese le bellezze inferiori, egli parla di una bellezza che sta in sé e per se stessa, eternamente unita con sé sola, mentre le altre cose sono belle per partecipazione di essa; è la concezione implicita nella dottrina dell’atto puro di Aristotele e specialmente nella sua identificazione del primo Essere con l’atto d’intelligenza in sé sussistente (Metaph., 12, 7); è la concezione di s. Agostino quando afferma : “Si potueris sine illis quae participatione boni bona sunt, perspicere ipsum bonum cuius partecipatione bona sunt… perspexeris Deum” (De Trinitate, VIII, c. 3, n. 5), ossia: “Est itaque bonum solum simplex et ob hoc solum. incommutabile, quod est Deus. Ab hoc bono creata sunt omnia bona, sed non simplicia, et ab hoc mutabilia” (De Civitate Dei, XI, c. 10, n. 1); è quella che s. Tommaso così scolpisce : “Nullus actus invenitur finiri nisi per potentiam quae est eius receptiva ” (Compendium Theologiae, c. 18).
I due ultimi princìpi non sono però ammessi da tutti gli scolastici. Molti di essi – col Suarez – pensano che un atto possa esso stesso essere potenza relativamente ad un grado superiore del medesimo atto e che l’atto possa essere limitato senza entrare in composizione con una potenza reale distinta, bastando a tale sua limitazione il carattere di contingenza. Tra gli altri princìpi, citiamo ancora che l’atto è anteriore alla potenza; che l’atto e la potenza sono nello stesso genere; che da due enti in atto non può farsi un ente che sia uno: queste ed altre asserzioni sono richieste dalle stesse nozioni sopra esposte.
III. APPLICAZIONI. – I concetti di atto e di potenza sono utilizzati dagli scolastici in molte posizioni così filosofiche che teologiche. L’uso di essi però è diverso secondo che si ammette o che si rigetta il principio che l’atto non si limita e non si moltiplica se non è ricevuto in una potenza reale. Alla luce di questo principio difatti viene, tra le altre, illustrata la dottrina della creazione, dottrina che la filosofia antica forse ignorò, o tutt’al più appena intravide, e sulla quale gli scolastici fecero, dopo s. Agostino e s. Tommaso la più diretta e la più decisiva applicazione dei princìpi dell’atto e della potenza. Il passaggio dall’uno ai molti, la coesistenza dell’infinito o perfetto col finito, la possibilità di esseri contingenti diventano in qualche modo intelligibili. L’atto di essere è in Dio puro da ogni potenzialità, uno e perfetto, ma può venire comunicato ad esseri molteplici e limitati, secondo i diversi gradi di potenzialità che entreranno nella loro costituzione. E’ concepibile una gradazione ontologica, al vertice della quale sta l’atto puro, trascendente, infinitamente distinto dall’universo di cui è causa immobile; e a Lui subordinati, in scala discendente, a misura che hanno meno di atto e più di potenza, gli altri esseri, dallo spirito puro o angelo ai corpi inanimati. E’ la concezione platonica della partecipazione, ma chiarita e completata, come l’hanno permesso le analisi dei princìpi aristotelici e come l’ha suggerito o confermato la rivelazione cristiana.
Spiegata dalla teoria della potenza e atto è pure un’altra dottrina importante nella filosofia tomista: la distinzione reale tra l’essenza e l’esistenza negli esseri creati. L’esistenza essendo la suprema attualità, se il suo atto non venisse ricevuto in una potenza che lo limiti, sarebbe unico ed infinito; sarebbe lo stesso Essere assoluto e perfetto, Colui che è, Dio. Ogni essere limitato dunque è necessariamente composto dall’atto di essere e dalla potenza e capacità di essere che conviene alla sua natura, cioè è composto di essenza e di esistenza. Parimenti lo stesso principio conduce ad assegnare nel mondo dei corpi come principio d’individuazione quell’elemento dell’essenza che è la materia prima. Essendo i corpi moltiplicabili nella stessa specie, l’atto che dà la determinazione specifica, cioè la forma sostanziale, si trova moltiplicato ed in ciascuno dei molti in cui esiste viene limitato. E’ dunque necessario che esso attui una potenza od un soggetto potenziale, il quale lo limiti e ne permetta la moltiplicazione. Tale soggetto potenziale è nella filosofia aristotelico‑tomista la materia prima, la quale, ricevuta la quantità, si può dividere in molti soggetti potenziali di altrettante forme della medesima specie.
Altra conseguenza importante: la distinzione reale ammessa nella filosofia tomista tra l’anima e le sue facoltà. L’anima è in atto poiché è l’atto del corpo vivente. Se fosse identica alla sua facoltà, anche le facoltà sarebbero in atto. Ma una facoltà in atto sta nell’esercizio del suo agire. Ora l’esperienza dimostra che le nostre facoltà non sono sempre in atto ma che passano dalla potenza all’atto; sono dunque distinte dall’anima, la quale è sempre in atto. L’essere che è la sua facoltà è anche il suo atto, ed è atto puro.
La semplicità di Dio, malgrado l’unione in Lui di tutte le perfezioni, s’illumina alla considerazione delle esigenze dell’atto puro. Ciascuna perfezione deve trovarsi in Dio puramente atto: se non lo fosse, riterrebbe in sé quella potenza passiva che non può trovarsi in Dio, che è l’atto puro. Ma quello che è puramente atto non è altro che l’atto puro. Se dunque ciascuna perfezione s’identifica in Dio con l’atto puro, una perfezione s’identifica realmente con tutte le altre, e non entra nella natura divina, nell’ordine dell’assoluto, nessuna distinzione reale: Dio dunque è semplice.
Nel mistero dell’Incarnazione, molti teologi ritengono che l’assunzione della natura umana da parte della persona dei Verbo si spiega con l’attuazione di questa natura dall’Essere personale del Verbo o almeno che quest’attuazione segue necessariamente all’assunzione; e ciò, sia che l’attuazione introduca una qualunque realtà creata o che risulti soltanto dall’unione con l’atto increato. Questi esempi (altri potrebbero venire elencati) dimostrano di quante conseguenze e applicazioni siano fecondi, in filosofia e teologia, i princìpi circa la potenza e l’atto.

BIBLIOGRAFIA.: Aristotele, Metaph_ IX; s. Tommaso, in h. loc. id., De ente et essentia, cap.5; SuArez, DisPutat. Metaph. disp. 31, C 43; G. Mattiussi, Le XXIV tesi della filos. di s. Tommaso d’A. approvate dalla S. Congregazione degli studi. Roma 1917, Pp. 1-15; P. Descoqs, Essai critique sur l’hylémorphisme, Parigi 1924, pp. 124-70; G. Manser, Das Wesen des Thomismus, Friburgo in Br. 1931, 2. ed. 1935; L. Fuctscher, Akt und Potenz,Innsbruck 1933; I. Gredt, Doctrina thomistica de Potentia et actu vindicatur, in Acta Pont. Acad. Rom. S. Thomae, nuova serie, i (To­rino 1939), pp. 33-49; C. Boyer, Valde ruditer argumentantur… ibid., pp. 129-38; A. Rozwadowski, Limitatio actus et Potentiae in doctrina s. Thomae, ibid., 6 (ivi 1946), pp. 87-102.

da: www.radiospada.org

mercoledì 5 luglio 2017

Filosofia di una Rivista storica ‘politicamente scorretta’

Il trimestrale ‘Storia Verità’ (Nuova Aurora Editrice Sas) è nato 20 anni fa per colmare un vuoto e per combattere, con gli strumenti dell’intelletto e in virtù dell’amore per la libertà di espressione, il ‘conformismo’ storiografico che ha inquinato, a nostro parere, a partire dalla fine del Secondo Conflitto Mondiale, buona parte il settore della storiografia, soprattutto quella riguardante l’epoca delle grandi ideologie, cioè il Novecento. Per decenni, infatti, i presunti detentori della ‘verità storica’ facenti riferimento a potentati politici e finanziari, hanno lavorato per ‘aggiustare’ la Storia e modellarla ad immagine e somiglianza di convinzioni ideologiche che nulla hanno a che fare con la suddetta ‘verità storica’, negando nel contempo dignità culturale e attendibilità non soltanto ai ricercatori ‘tradizionalisti’, ma a tutti coloro i quali non condividevano determinati principi interpretativi. In buona sostanza, i detentori del Potere, forti dell’appoggio supino e incondizionato della scuola e dell’università, hanno di fatto negato a più soggetti l’opportunità di esprimere liberamente e con cognizione di causa opinioni circa la Storia intesa come genesi non del tutto casuale della specie umana. Come spiega Alberto Rosselli, Direttore responsabile della testata (affiancato da Fabio Bozzo, in qualità di Direttore editoriale): ’Storia Verità’, che si avvale di uno staff di Collaboratori di livello (tra i quali - ne citiamo soltanto alcuni - Roberto De Mattei, Mario Bernardi Guardi, Giulio Alfano, Primo Siena, Marco Cimmino, Roberto Mauriello, Alexander Del Valle, Tommaso Romano, Piero Vassallo, Michele Rallo, Alain De Benoist, Luciano Garibaldi) può, al contrario, contribuire a ribaltare questo criterio o prassi di indagine mistificatorio e inadeguato, dando spazio alla rivisitazione obiettiva, e quindi non conformista, di eventi che hanno determinato, nel bene e nel male, quei cambiamenti epocali ai quali stiamo assistendo e dei quali, purtroppo, molti italiani non sono ancora in grado di darsi una spiegazione logica. Impossibilità determinata, come si è accennato, da decenni di disinformazione pilotata. Il tutto per offrire al lettore non certo soluzioni definitive, bensì un’opportunità di scelta e soprattutto strumenti che lo possano aiutare a decrittare il presente attraverso un’onesta e corretta comprensione del passato. La Storia non è, infatti, una disciplina morale, ma possiede una sua specifica etica che va rispettata. ’Storia Verità’’ (che dispone anche di una versione online: www.storiaverita.org) viene distribuita su abbonamento.


Alleanza cattolica per combattere la buona battaglia

di Domenico Bonvegna

Nell'ultimo numero della rivista Cristianità, organo ufficiale di Alleanza Cattolica, il  reggente nazionale, Marco Invernizzi, in occasione dell'uscita della terza edizione del Direttorio, presenta l'associazione. (Cristianità, n.384, marzo-aprile 2017)
Alleanza Cattolica nasce negli anni '70, il suo fondatore è Giovanni Cantoni, piacentino, ben presto si radica in tutto il territorio, attraverso la presenza di piccoli gruppi, chiamati “Croci”. I militanti dell'associazione si riuniscono regolarmente e cercano di avere la massima omogeneità culturale al fine di operare più efficacemente dentro gli ambienti dove sono presenti.
L'associazione fin dall'inizio ha inteso far parte del movimento cattolico, portando però il suo contributo originale. Alleanza Cattolica è stata sempre attenta al mondo conservatore internazionale, guardando ai pensatori della scuola cattolica contro-rivoluzionaria, primo fra tutti il pensatore cattolico brasiliano Plinio Correa de Oliveira.
Il primo numero della rivista Cristianità, ha ripreso l'antico motto dell'azione cattolica, del periodo risorgimentale: “preghiera, azione, sacrificio”. Lo studio della Storia è fondamentale, non per nulla, Cantoni era convinto che “chi sbaglia Storia sbaglia Politica”.
Fin dalla nascita diventa fondamentale la questione risorgimentale, in particolare, l'associazione, ha criticato i presupposti ideologici del Risorgimento che hanno condotto all'imposizione forzata dell'unificazione nazionale; un tema che rimarrà sempre presente nelle riflessioni dell'associazione. Infatti in occasione del
150° anniversario dell'unità d'Italia, Alleanza Cattolica ha significativamente promosso una serie di convegni intitolati:“Unità si, Risorgimento No”.
All'inizio della sua attività è riuscita a “pescare” uomini e donne attraverso il “coagulo” culturale e politico dell'anticomunismo. In quegli anni era questo il maggiore problema che suscitava grandi reazioni soprattutto tra il mondo giovanile. Fu,“un anticomunismo, 'pensato', - scrive Invernizzi - ricco di spessore culturale, che la destra politica del tempo comprese poco e che la Democrazia Cristiana avversò profondamente, peraltro ricambiata”. In quegli anni molti giovani,“si raccolsero così attorno all'aquila dal cuore crociato, simbolo dell'associazione, attratti da un cristianesimo militante e sincero”. Quei giovani si convertirono, abbandonando progressivamente le loro origini ideologiche, approdando alla Chiesa cattolica e al suo insegnamento, attirati in modo particolare dalla “bianca signora” di Fatima, ma non solo.
Ma nella Chiesa quei giovani trovarono la divisione.“Si, la Chiesa era allora divisa – scrive Invernizzi -  intorno a un tentativo di riformarla per renderla più capace di convertire il mondo moderno”. Questo tentativo era il Concilio Vaticano II (1962-65). Sono gli anni del post-Concilio, anni difficili, come quelli attuali del resto. Le difficoltà riguardavano“l'interpretazione dei documenti conciliari, che tutti citavano enfaticamente o criticamente, ma che pochissimi avevano letto integralmente”. Cosa che hanno fatto un gruppo ristretto di militanti, ispirati dal caro amico scomparso, Enzo Peserico. Invernizzi ci tiene a precisare l'episodio, presso la parrocchia di don Pietro Cantoni, hanno letto e studiato insieme in una estate umida la Lumen gentium, la Gaudium et spes, la Dignitatis humanae e così via, tutto il Vaticano II.
Contemporaneamente l'associazione si smarca dal movimento tradizionalista del vescovo Marcel Lefebvre, e della sua Fraternità S. Pio X, che nel frattempo si era allontanato dalla Chiesa per aver nominato senza autorizzazione, quattro vescovi. Rompendo con questo mondo, Alleanza Cattolica, rimane sola, perché il mondo cattolico ufficiale, in particolare, le parrocchie,“continuò a guardarla con sospetto e con distacco”. E così,“quei giovani, che nel frattempo erano diventati adulti, impararono che cosa significa essere disprezzati da destra e da sinistra, con eguale e metodica intensità”. Anch'io, ho sperimentato qualcosa di simile. E' capitato, dopo il mio trasferimento in Sicilia, nel decennio di intenso apostolato socio religioso nei territori della riviera jonica messinese. Nelle parrocchie apparivo come uno che faceva troppa politica, mentre negli ambienti politici, sembravo troppo religioso.
Intanto il mondo va avanti, nella Chiesa arriva il Papa polacco, il grande Giovanni Paolo II , e molte cose cambiano, in pratica la Chiesa ridiventa missionaria e soprattutto viene finalmente apprezzata quella Dottrina Sociale che per troppo tempo era stata messa ai margini. Nell'associazione si raccomandava la lettura e lo studio del Magistero di Giovanni Paolo II, ma anche degli altri pontefici recenti. Perché il Papa è come un “prete speciale” da amare e da seguire nel suo magistero, a volte da accogliere e da accettare con e nonostante la sua cultura, con le debolezze che ogni uomo, anche un Papa, possiede in misura maggiore o minore”.
Invernizzi ricorda i passaggi più importanti dell'attività controrivoluzionaria dell'associazione. Dopo il cosiddetto sessantotto, in Italia vengono approvate le leggi sul divorzio e dell'aborto, che hanno distrutto la famiglia italiana. Alleanza Cattolica è in prima fila nelle battaglie referendarie per cancellare le inique leggi. Poi è la volta delle“resistenze dimenticate”, soprattutto nei Paesi comunisti, siamo negli anni '80, l'associazione costituisce un'apposita sezione italiana, della “Conferenza Internazionale delle Resistenze nei Paesi Occupati”, La CIRPO, fondata in Francia dal giornalista francese, Pierre Faillant de Villemarest. L'associazione attraverso incontri, convegni, da spazio a uomini e donne che erano stati abbandonati dai potenti dell'Occidente. Tra queste resistenze, il reggente nazionale ne privilegia una in particolare, che è ancora attuale, quella libanese. Il Libano, la “Svizzera del Medio Oriente”, oasi di pace e libertà, a partire dal 1974, ha subito, forse anche per colpe sue, una interminabile e feroce guerra civile, che costò la morte di un'intera classe dirigente di cristiani, soprattutto maroniti.
Poi arriva l'”Ottantanove”. Con la caduta del Muro di Berlino, cambiano gli scenari europei e mondiali. Nel frattempo in Polonia, attraverso l'esperienza di “Solidarnocs”, il popolo polacco diventa protagonista e soprattutto mette a nudo la fragilità del regime comunista. Il governo del generale Jaruzelski, in tutti i modi cercò di reprimere il sindacato libero e la resistenza pacifica degli operai polacchi, ma alla fine prevale il popolo. Una grande mano è stata data da San Giovanni Paolo II che influenzò molto il capo dei rivoltosi Lech Walesa e tutto il movimento di Solidarnocs. Alleanza Cattolica ha seguito con attenzione questi cambiamenti epocali; con la fine del comunismo, non era finita la storia, come qualcuno aveva scritto. Esaurito il tempo delle ideologie ora c'era da affrontare la “dittatura del relativismo”, come aveva più volte spiegato il cardinale Ratzinger prima, papa Benedetto XVI poi. Ora bisognava affrontare la IV fase della Rivoluzione, la rivoluzione culturale antropologica, in interiore homine. Inoltre, prende il sopravvento, la questione bioetica. L'uomo rimane nudo e viene attaccato direttamente dalla nuova ideologia: il gender.
Intanto,“La fine della guerra fredda (1946-1989) aveva favorito il risveglio di civiltà e di culture, oltre che di religioni, che non erano mai scomparse, ma che adesso, venuta meno la dominante geopolitica della divisione fra est e Ovest, assumevano un ruolo sempre più importante nello scacchiere internazionale”.
In tutto questo profondo mutamento geopolitico si inseriva il risveglio dell'Islam, a partire dalla rivoluzione avvenuta in Iran nel 1979. L'11 settembre 2001, con l'attacco alle Torri Gemelle di New York, i movimenti terroristici islamici lanciano il più grande attacco all'interno di un territorio occidentale, innestando una serie di reazioni e di guerre in Afghanistan e in Iraq, dalle quali ancora non siamo usciti.
Giovanni Cantoni, commentava l'operazione, “Libertà Duratura” lanciata dal presidente Bush per combattere il terrorismo, nella prospettiva del “meglio americano che dimmi”, anche se non si faceva illusioni. Ormai era chiaro che “il secolo XX si è chiuso con la fine della malattia, l'utopia socialcomunista, e, né poteva essere diversamente posto il carattere letale del morbo, con la contestuale morte del malato, il mondo occidentale e cristiano”. Cantoni spiegava che ormai la cristianità, come società che faceva riferimento a una cultura e ai costumi cristiani non esisteva più, bisognava prenderne atto.
Nel 1989 non era imploso solo il mondo comunista, ma anche lo stesso mondo moderno, senza vincitori.
In questo periodo il fondatore di Alleanza Cattolica ci invita a studiare con attenzione gli storici delle civiltà come Arnold Tonbee, ma soprattutto lo svizzero, Gonzague de Reynold . Quest'ultimo sostiene che la prima cosa da fare è “accettare il nostro tempo”, senza inveire contro. Dobbiamo accettarlo. E' la Provvidenza che ci ha messo qui per compiere la nostra opera. Pertanto, non possiamo continuare ad essere cantori di una cristianità che non c'è più. “La nostra missione non consiste assolutamente nel difendere quanto è già morto[...]”.
In pratica secondo Invernizzi, “non ci si può permettere di vivere accanto al cadavere rimpiangendo quando il defunto era giovane e forte, né si può pensare di restituirgli la vita: bisogna seppellirlo con onre e ricostruire, cioè educare i futuri uomini che ancora nascono perché siano il lievito del mondo futuro”.
A questo punto anche per Invernizzi, si pone la fatale domanda: Che fare? Intanto occorre comprendere il mondo “post-moderno” nel quale viviamo dopo il 1989. Non è più quello delle ideologie che promettevano“l'uomo nuovo”, ora è il tempo del relativismo e dell'insignificanza, del 'pensiero debole e della 'post-verità', nel quale le persone sono molto più condizionate dalle sensazioni che dai principi, dalle immagini piuttosto che dai contenuti”. Lo scriveva già tanti anni fa, lo stesso de Reynold: “i fenomeni ai quali assistiamo oggi sono estremamente complessi[...]”.
Secondo il reggente nazionale occorre avere presente che “l'obiettivo più importante è aiutare le persone a capire e ad abbandonarsi alla Verità e che la condanna” dell'errore è funzionale a questo scopo”. Il pensatore svizzero aveva intuito che bisogna sempre e comunque condannare gli errori. Ma nei confronti di quanti le applicano o le subiscono […] pratichiamo la carità nella sua forma la più elevata e la più difficile: la sua forma intellettuale. Cerchiamo di capire prima di condannare. Negli errori peggiori vi è talora una particella di verità necessaria, che si nasconde: cerchiamo di liberare questa particella”.

Ci vogliono uomini preparati e delicati per la Contro-Rivoluzione del XXI secolo. Ormai “la fortezza cattolica è la sola a resistere.[...] ponetela dietro a voi come un appoggio”- scrive de Reynold – entrate nelle trincee del mondo nuovo”. Un mondo che va fatto non atteso. A questo punto Invernizzi descrive la società di oggi che non è più quella straordinaria rete sociale di corpi intermedi, che era sorta dopo l'Unità d'Italia, fatta di banche, casse rurali, società operaie, università, di famiglie di parrocchie. Dopo il sessantotto, le persone sono diventate individui, bisognosi di tutto. Nello stesso tempo dopo il Concilio Vaticano II la Provvidenza, ha fatto nascere i movimenti ecclesiali, sono nati degli ambienti, bisogna costruire “ambienti favorevoli alla conversione […] dove la proposta della Contro-Rivoluzione può diventare comprensibile”. Recentemente un esempio di ambiente straordinario è quello nato dopo i due Family day, con il Comitato “Difendiamo i nostri figli”. L'unica cosa che non va bene è assistere rassegnati alla scomparsa di un mondo, giudicando impossibile ogni nuova evangelizzazione e quindi pensando che la Contro-Rivoluzione sia una bella idea ma irrealizzabile. Ma se si prendono veramente sul serio le parole della Madonna a Fatima: ”Infine il mio Cuore immacolato trionferà”, allora possiamo vincere ogni tipo di battaglia.