giovedì 31 agosto 2017

Principi di educazione cristiana in famiglia

di Andrea Fauro

In questi tristi tempi, in cui la Rivoluzione dilaga nella prassi educativa e in cui ideologie surreali fondate sulla gnosi come il Gender, affermano dogmaticamente che la specie umana non sia sessualizzata, che non si nasca maschi e femmine, ma che la sessualità(ridotta ad una serie di appetiti istintuali e comportamentali) dipenda da vari fattori mutevoli da soggetto a soggetto e in cui il singolo è protagonista nel processo di costruzione della propria identità sessuale (sic!), io mi schiero tra i reazionari della Brigata Chesterton per la difesa dell’ovvio, quindi mi prefiggo di mettere nero su bianco piccole pillole di pedagogia cristiana 1(e semplice buon senso) che saranno già note ad ogni madre e padre di famiglia cristiani ma che è sempre meglio ribadire, con buona pace di quel che pensano pedagogisti e strizzacervelli sul libro paga di Arcigay.
L’educazione di un figlio, insegna Pio XI, significa formarlo attraverso l’insegnamento di ciò che deve essere e la promozione di una condotta tale da permettergli di giungere con l’aiuto di Dio, in Paradiso. Scopo dell’educazione è quindi la Santità.
L’educazione è un’arte così nobile, difficile e delicata che San Gregorio Nazazieno la definisce “l’arte delle arti”.
L’atto educativo di un bravo genitore,educatore o insegnante si deve indubbiamente fondare su principi universali ma il modo di applicarli dipende da diversi fattori: il temperamento del bambino, il luogo in cui vive, il ruolo che dovrà occupare una volta adulto, il sesso ecc. Non si educa allo stesso modo una bambino timido e un bambino collerico così come non si educa allo stesso modo il figlio di un contadino in campagna e il figlio di un commerciante in città. Sono molte poi le differenze tra un bambino e una bambina: se Dio ha voluto donare l’uomo e la donna di qualità differenti è perché li ha destinati a ruoli diversi una volta adulti. Mentre l’uomo dona la vita, la donna l’accoglie a la sviluppa; Adamo ed Eva sono fatti a immagine di Dio ma solo ad Adamo è affidata la missione di governare la terra mentre ad Eva è affidata la missione di essere madre di tutti i viventi; possiamo concludere che la missione della donna consiste essenzialmente nella maternità mentre quella dell’uomo si riassume nell’autorità.
Per quanto riguarda le qualità naturali si constata che l’uomo è dotato di una certa altezza di vedute, di capacità di giudizio e di ponderazione, di un senso dell’astratto e dell’universale qualità che lo aiuteranno ad esercitare adeguatamente il suo ruolo di capo. La donna invece è dotata di una viva sensibilità, di intuizione, di delicatezza, di senso del concreto e di attenzione al dettaglio: queste qualità le permetteranno di esercitare al meglio il loro ruolo di madri.
Se i genitori comprendono queste differenze e questa armonia presente nel Creato, sarà più semplice concentrare i propri sforzi per aiutare il ragazzo a crescere in quelle virtù che gli permetteranno di essere un uomo e la ragazza a progredire in quelle virtù che faranno di lei una donna.
Educare i ragazzi alla virilità.Visto che il ragazzo una volta adulto sarà chiamato ad esercitare l’autorità (come marito nei confronti della moglie, come padre nei confronti dei figli, nei confronti dei dipendenti a lavoro, come sacerdote nei confronti dei fedeli ecc) occorre che l’educatore – che sia genitore, sacerdote, insegnante o altro – si sforzi di aiutarlo a crescere nelle Virtù in particolare la Fortezza, ad amare virilmente lo spirito di sacrificio, a fuggire dalla mollezza, ad avere un senso dell’onore e a provare un grande orrore per la vigliaccheria.
La forza di carattere non si ottiene in un giorno, occorre un lavoro perseverante: le piccoli e grandi croci con cui il Signore ci mette alla prova sono occasioni per santificarsi e per acquisire il dominio di sé e rafforzare il proprio carattere; in questi frangenti il ruolo dell’educatore è proprio quello di incoraggiare il ragazzo ad affidarsi a Dio, abbracciare la Croce e affrontare l’ostacolo senza scoraggiarsi ricominciando da capo qualora vi sia una caduta.
Sin da piccolo, il bambino va educato allo sforzo invitandolo a offrire i suoi sacrifici al buon Dio di modo che le sue piccole sofferenze, possano avere anche un valore soprannaturale; periodi particolari del Tempo Liturgico come Avvento, Quaresima, Settimana Santa sono ideali per abituare il bambino a fare piccole rinunce per amor di Dio.
Anche lo sport trova una sua importante collocazione in ambito educativo in quanto aiuta il bambino a consolidare la sua virilità, temprare lo spirito di sacrificio, la forza e nel caso degli sport di squadra, è utile anche a favorire uno spirito cameratesco. In genere è proprio attraverso la generosa attenzione ai propri doveri di stato in famiglia, con gli amici, a scuola(che deve essere cattolica e non laica) che il ragazzo si responsabilizza e si prepara ad essere uomo.
Piccoli lavori domestici come il montare un mobile o il riparare un lavandino possono essere invece un’ottima occasione per un padre di trasmettere al figlio il gusto del lavoro ben fatto, l’attenzione al bello e all’ordine.
L’attrattiva per la lotta e per l’uso della forza che caratterizza molti ragazzi va indirizzata non tanto verso l’appagamento dei propri interessi quanto verso la cura del più debole e il trionfo della giustizia, secondo una sana condotta cavalleresca fondata sulla cortesia in cui nessuna prepotenza verso il più piccolo o il più debole è tollerata.
Quando il ragazzo sarà in piena adolescenza, il padre(non la maestra, lo psicologo o il militante di Arcigay) gli insegnerà i misteri della trasmissione della vita e la bellezza del pudore; gli spiegherà che prima di dare ordini agli altri occorre sapersi dominare e non essere schiavi della propria sensualità. La conservazione della Virtù della Purezza esige dagli adolescenti delle lotte talvolta molto violente ma con l’aiuto della Grazia ne usciranno vincitori; i mezzi che potranno usare in questa battaglia sono: la preghiera quotidiana, la frequentazione dei Sacramenti, la mortificazione del proprio corpo, la fuga da immagini immodeste e dai discorsi cattivi. Più tardi i genitori mostreranno ai loro figli che le ragazze non sono oggetti di piacere ma creature a cui Dio ha dato la missione di essere madri : il ragazzo dovrà imparare a diffidare dalle ragazze superficiali e ad ammirare coloro che incarnano la Virtù della Modestia.
Infine due parole sulla Pietà: finita l’infanzia la vita spirituale rischia di divenire un tasto dolente in quanto negli adolescenti il fervore nella preghiera e la perseveranza nella condotta cristiana tendono ad affievolirsi. Compito dei genitori(in special modo del papà) è innanzitutto quello di dare l’esempio. Se il ragazzo vede il buon esempio del papà nell’assistere con devozione alla S. Messa, nel frequentare i Sacramenti, allora comprenderà meglio che con lunghe prediche, l’aspetto virile del Cattolicesimo e della preghiera che è lungi dall’essere roba da femminucce e tantomeno qualcosa da relegare all’infanzia ormai superata. Durante l’adolescenza il ragazzo è tentato di ribellarsi all’autorità, di mettere in discussione tutto, talvolta persino la Religione. Un uomo capriccioso però rischia di divenire un tiranno invece che un capo: con molto tatto e delicatezza ma con fermezza, è quindi compito dell’educatore piegare questa volontà ribelle al Bene; anche qui il ruolo del padre è insostituibile dovendo fungere da faro, inflessibile ai flutti del mare in tempesta dell’adolescenza .E’ bene sottolineare però che questa fermezza deve essere temperata dalla Carità, in quanto sarà costruttiva solo nella misura in cui il ragazzo sa di essere amato.
Educare la ragazza all’amore.
Visto che la giovane ragazza è chiamata ad essere madre, l’azione educativa dovrà rafforzare in lei la volontà nell’acquisire la virtù della generosità e della dedizione unite ad un santo orrore per l’egosimo. La ragazza sboccerà in donna solo nella misura con cui sarà capace di donarsi: l’abnegazione verso il marito la renderà sposa, l’abnegazione verso i figli la renderà madre, l’abnegazione verso Dio la renderà vergine. Questa disposizione d’animo è la stessa avuta dalla Vergine Maria il giorno dell’Annunciazione.

In famiglia non mancano le occasioni per corroborare questo spirito di servizio e di disponibilità come ad esempio nell’aiutare nelle faccende domestiche, nell’accudire i fratelli più piccoli ecc. Attraverso atti ripetuti di concreta generosità (le mamme devono cogliere al volo quelle occasioni utili per permettere alle figlie di mettere in atto la loro disponibilità) si evita che la figlioletta precipiti nel sentimentalismo o che si ripieghi eccessivamente in sé stessa e nelle sue fantasie. E’ nell’oblio di sé che le ragazze impareranno a dominare le tempeste dei sentimenti per lasciar spazio al buon umore e all’attenzione per l’altro. Queste qualità sono indissolubilmente unite alla modestia, virtù che sta alla donna così come il coraggio sta all’uomo. Dio infatti ha riposto nella donna il grande potere della seduzione: se la donna ne abusa per attirare a sé, cadrà e sarà occasione di inciampo per il prossimo. Se invece la utilizzerà per rendere gloria a Dio potrà santificarsi ed edificare il prossimo. I genitori insegneranno alla ragazza l’arte del nascondimento così come faceva la Vergine Maria in presenza del suo divin Figlio. La mamma ha il compito di preparare la figlia alla sua futura missione,bella ma difficile, di Regina del focolare domestico: la giovane sarà chiamata ad essere un giorno sposa e madre e quindi anche puericultrice,catechista,infermiera,cuoca,sarta ! Si capisce da questo quanto sia importante nell’educazione delle ragazze una formazione intellettuale che non sia svincolata dalla pratica.

La virtù della Modestia.
Questa bella Virtù si manifesterà innanzitutto nell’abbigliamento. La ragazza imparerà a non scoprire il suo corpo ma a coprirlo con gusto. Le ammirazioni che susciterà non deriveranno da un’attrazione carnale ma dalla bellezza e dalla grazia che susciterà la sua condotta. Quando la ragazza crescerà sarà questa volta compito della mamma (non della maestra, della psicologa, di una militante di un circolo Femminista) di spiegare le vie misteriose della trasmissione della vita, gli stessi cicli del corpo femminile le rammenteranno costantemente che lei non vive per sé ma per Dio e per i figli che vorrà donarle. Quando un giorno il Signore la chiamerà a consacrarsi interamente a Lui o a un ragazzo nel vincolo del Matrimonio, il suo cuore ormai ricco di virtù sarà pronto a rispondere come la Vergine: “Fiat mihi secundum verbum Tuum” e a ripeterlo ogni giorno della sua vita.
Un processo educativo non può dirsi completo se non affonda le sue radici su una solida vita spirituale. La psicologia femminile è portata per sua natura ad una profonda vita interiore così importante per poter, in futuro, trasmettere i rudimenti della fede ai figli! L’educatore dovrà vegliare costantemente affinché questa pietà non si fondi sul sentimentalismo ma su un preciso atto di volontà rendendola così più stabile e forte. Per contrastare il sentimentalismo sarà importante vigilare sulla sua fedeltà alla preghiera anche nei momenti di desolazione spirituale in cui Dio sembra assente.

Conclusione.
Le differenze tra ragazze e ragazzi non devono farci dimenticare che appartengono alla stessa natura umana ferita dal Peccato Originale e redenta da Gesù Cristo sulla Croce.
In questi tempi di lassismo educativo derivante dalle sovversive teorie pedagogiche partorite dal Sessantotto, ragazzi e ragazze chiedono ai loro genitori e ai loro educatori una carità ardente, una pazienza infinita ma anche una fermezza senza indugi e un vero e proprio spirito di immolazione. Il buon esempio deve essere il pilastro fondamentale di ogni processo educativo degno di questo nome: tutti i genitori e tutti coloro che lavorano a servizio della gioventù, devono tremare al pensiero di quanto bene e quanto male possa derivare dal loro esempio, consolandosi però con la meditazione delle parole di san Giovanni Bosco patrono della gioventù: “Chi lavora per salvare le anime, salva anche la propria.”

da: www.radiospada.org

Gödel e la dimensione ultraterrena

di Francesco Agnoli

Kurt Gödel (1906 – 1978) è considerato da molti il più grande logico di tutti i tempi. Albert Einstein stimava un privilegio unico poter discutere con lui, passeggiando per Princeton, di matematica, fisica, filosofia e teologia. I contributi che egli ha dato nei campi dell’intelligenza artificiale, della logica e della matematica (in particolare i teoremi di incompletezza), sono enormi.
Ebbene possiamo chiederci cosa pensasse Gödel di questa vita e di una vita ultraterrena. Per capirlo occorre andare ai suoi taccuini personali.
Gödel infatti non amava pubblicare la sue riflessioni su Dio, la Chiesa, il mondo ultraterreno in un contesto culturale, così pensava, impregnato del “pregiudizio materialista“.
Ma scrivendo per sè stesso, annotava proposizioni come queste: “il nostro mondo, con tutte le stelle e tutti i pianeti che contiene, ha avuto un inizio e, con ogni probabilità, avrà una fine, diventerà, cioè, letteralmente ‘niente’.
Ma allora perchè ci sarebbe solo un mondo?“.
E’ evidente che nei suoi ragionamenti Gödel teneva presente non solo la fisica del suo tempo (con la scoperta del Big Bang, della vita e morte delle stelle e con le ipotesi sulla morte termica dell’Universo), ma anche le Scritture, in cui l’universo materiale è definito come una realtà creata dal nulla e destinata ad una fine. Un’idea che era il contrario esatto di ciò che nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento professavano le ideologie materialiste dominanti (positivismo, comunismo…).
Per Gödel il mondo non è solo uno, e non è solo quello che noi siamo abituati a percepire: accanto al nostro mondo a 4 dimensioni (tre dello spazio e una temporale), sono possibili altri mondi e soprattutto è possibile, anzi quasi “necessaria”, l’esistenza di una dimensione ultraterrena. Del resto il pensiero umano è esso stesso svincolato dallo spazio (non ha altezza, larghezza, nè profondità) e, sebbene solo in parte, dal tempo(la freccia del tempo, infatti, ha una sola direzione, perchè il corpo può solo invecchiare, ma il pensiero può vagare, avanti e indietro)
Ecco alcune considerazioni del logico-matematico: “l’affermazione che il nostro ego consista di molecole di proteine mi sembra una delle più ridicole mai enunciate“; “Poichè l’ego esiste indipendentemente dal cervello, possiamo avere altre fasi di esistenza nell’universo materiale o in un altro mondo…“; “se il mondo è organizzato razionalmente e ha un senso” allora deve esistere un aldilà, “perchè quale sarebbe il senso di formare un essere (l’uomo), che ha un tale ventaglio di possibilità per il suo sviluppo individuale e per le sue relazioni con gli altri, e non permettergli di realizzarne un millesimo? E’ come se si costruissero le fondamenta di una casa, con molte difficiltà e molta spesa, per poi lasciar andare tutto in rovina“.
Per Gödel, come per i teologi medievali, che in parte conosce, l’uomo è fatto per la Verità e per l’Amore, ma su questa terra non vi accede che in modo incompleto. In attesa, appunto, di una completezza, di una pienezza paradisiaca (essendo il Paradiso il luogo della compiuta realizzazione dell’uomo, del suo innestarsi in Dio). Se esistono verità, relazioni, cose belle (come la matematica), esse non possono che darci una fondata speranza che Verità, Amore, Bellezza esistano in modo pieno.
In altre parole, ricorrendo a san Paolo, al suo celebre detto: “Adesso noi vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; allora vedremo faccia a faccia“, si potrebbe dire che qui vediamo i raggi del sole, la luce che esso proietta, le opere di Dio, mentre un dì vedremo il Sole, vedremo Dio, distintamente, direttamente, senza mediazioni. Per questo Gödel era anche attratto dalle esperienze in punto di morte, allorchè avverrebbe, per alcuni, la rammmemorazione completa, in qualche istante, della vita passata, dimostrando così, a suo dire, la possibilità della disgiunzione mente-cervello e la non esistenza del tempo per realtà spirituali pure, Dio, gli angeli e le anime umane, una volta senza corpo.
Per approfondire: Francesco Agnoli, Il misticismo dei matematici, Cantagalli, 2017.

martedì 29 agosto 2017

Premio “citta’ di marineo” 2017: Designati i vincitori. A Desirèe Rancatore il Premio Speciale Internazionale

Nel solco di una tradizione che si rinnova, il Premio “ Città di Marineo” è giunto alla sua quarantatreesima edizione, quest’anno curata dall’Amministrazione comunale.  L’Albo d’oro testimonia la partecipazione di centinaia di poeti provenienti da varie parti d’Italia e di prestigiose personalità della scienza, della cultura, dell’arte e dello spettacolo che con la loro presenza hanno dato lustro alla cittadina marinese.
Il premio speciale internazionale è stato attribuito al soprano Desirée Rancatore,  personalità di primo piano dell’opera lirica italiana.
Con tale riconoscimento la Commissione giudicatrice “ha voluto sottolineare l’omaggio della Sicilia ad un’artista che si è affermata in tutto il mondo grazie alle sue grandi qualità interpretative, capaci di trasmettere una vasta gamma di emozioni”. Nel corso della sua prestigiosa carriera, il talento dell’artista palermitana è stato riconosciuto a livello internazionale per il “brillio virtuosistico del canto che si unisce al temperamento drammatico di un soprano che, nell’assoluta padronanza della coloratura e dei sovracuti, accende forti passioni fra gli amanti della lirica”.
Nell’ambito della poesia edita in lingua italiana la giuria, presieduta da Salvatore Di Marco, e composta da Flora Di Legami, Giovanni Perrone, Ida Rampolla  del Tindaro, Tommaso Romano, Michela Sacco Messineo e Ciro Spataro, ha attribuito il primo premio a Marcella Delle Donne, con la silloge “Donne donne eterni dei”, Edizioni Manni.
Oltre ai vincitori sono entrati nella rosa dei finalisti i seguenti autori: Pasquale Attard, con la raccolta “Dal califfato al regno”; Francesco La Commare con la raccolta “Sal’è zucca”; Giuseppina Landolina, con la raccolta “Verranno i giorni di maestrale” e Pietro Moceo, con la raccolta “Voglia di libertà”.
Nella sezione opere inedite in lingua siciliana il primo premio è stato assegnato “ex aequo” a Pietro Valenti per la lirica “Na casa”  e Mario Tamburello per la lirica “Vita”
Nella sezione opere edite in lingua siciliana il primo premio è stato assegnato a Rino Cavasino con la silloge “Amurusanza”, edizioni Coazinzolapress. Nella stessa sezione sono risultati finalisti: Giuseppe Condorelli, con la raccolta “ N’zuppilu n’zuppilu”, Cinzia Pitingaro, con la raccolta “U respiru d’u paisi”, Gaetano Spinnato, con la raccolta “Ri ranni uògghju fari u picciriddu” e Antonietta Zuccaro con la raccolta “’Nta lu diariu di li mé ricordi”.
            La Commissione Giudicatrice, inoltre, ha deciso di assegnare una targa premio al poeta francese Jean Flaminien per l’opera straniera “L’homme flottant – L’uomo flottante” , tradotta in lingua italiana da Antonio Rossi, Book Editore - Ferrara.

            La cerimonia di premiazione avrà luogo in Marineo (Pa) domenica 3 settembre alle ore 18.

martedì 15 agosto 2017

Amore coniugale: per Thibon si basa su quattro fattori

di Teresa Moro

L’amore: chi ne parla, spesso non sa cosa sia; chi lo vive, non sa parlarne. Sembra paradossale, ma è così: l’amore è troppo grande e complesso per poter essere descritto. Se poi si parla di Amore con la “A” maiuscola, la questione si fa ancora più complessa.
Alcuni aspetti dell’amore si possono tuttavia descrivere, senza la pretesa di essere esaustivi e di abbracciare l’esperienza di ognuno. Lo ha fatto per esempio il filosofo Gustave Thibon, enucleando quattro pilastri dell’amore coniugale nel libro Ce que Die a uni, trad. it. Quel che ha unito (Società Editrice Siciliana, Mazara del Vallo (Trapani) 1947).
In apertura Thibon chiarisce la differenza tra innamoramento e amore: il primo, fondato essenzialmente sui sentimenti, è precario e sfuggevole; il secondo, invece, passato attraverso inevitabili prove e fatiche, ha la caratteristica della stabilità e si presta a durare negli anni.
Definito questo, il filosofo sostiene che l’amore degli sposi deve basarsi su quattro pilastri: passione, amicizia, sacrificio e orazione.
PASSIONE, «poiché non possiamo concepire il matrimonio senza una attrazione sessuale reciproca, assunta, coronata e superata dallo spirito, che impone di adattarsi ai gusti e agli appetiti sessuali dell’altro, assai differenti nella donna e nell’uomo». Una passione che nasce dall’istinto, ma che viene trasfigurata dalla parte più nobile di noi e che impone un’accoglienza reciproca dei bisogni: l’uomo ha mediamente più bisogno di “sfogare gli istinti”, mentre la donna ricerca nell’unità fisica, in massimo grado, una tenerezza e una sintonia emotiva.
AMICIZIA perché, ancora prima che amanti, i due coniugi devono essere alleati verso un percorso di crescita umana (e spirituale) e di unione sempre più profonda, in una conoscenza dell’altro sempre più completa. Un’amicizia, dunque, che «insegni loro ad amarsi e a rispettarsi reciprocamente, incitandoli a penetrare nell’anima dell’altro, correggendo e dominando la tensione insita nel dualismo sessuale».
SACRIFICIO, perché le cose belle costano e vivere 24h/24 a stretto contatto con una persona, condividendo le scelte quotidiane come quelle più impegnative, mette a dura prova l’ego di chiunque, naturaliter egoista. Parafrasando, Thibon afferma che: «Disconoscere il lato positivo e fecondo insito nel sacrificio è la tara dell’umanitarismo evanescente proprio della nostra epoca. Tutti i disastri, tutte le miserie del matrimonio procedono da un tale disconoscimento. Non si dà matrimonio felice senza mutuo sacrificio, senza sforzo per superare le delusioni, la monotonia, i rispettivi egoismi».
ORAZIONE, perché è importante tenere sempre presente che a riempirci non è l’amore terreno del coniuge, ma un Amore che trascende il tempo e lo spazio. Ecco quindi che marito e moglie devono aiutarsi reciprocamente a mantenere lo sguardo puntato in alto, il che permette anche di amare di più chi ci sta vicino: infatti, «per amare un essere finito, con tutte le sue miserie e imperfezioni, occorre amarlo come messaggero di una realtà che lo oltrepassa, di una pienezza divina».
Questi quattro pilastri sono oggi in crisi, come è in crisi – di conseguenza? – il matrimonio: i coniugi non pregano più assieme; spesso non sono disposti a retrocedere, sacrificandosi, in vista del bene dell’altro o dei figli; l’amicizia, intesa come conoscenza e perfezionamento reciproco, è rara: un po’ perché non si ha chiaro l’orizzonte cui tendere e un po’ perché togliersi le maschere che indossiamo all’esterno può essere difficile anche tra le mura domestiche, così come lo è – per molti – accettare i propri limiti e difetti; infine, la passione: tutti parlano di sesso, ma in pochi lo vivono in maniera soddisfacente… tranne i cattolici, pare. Perché? Proprio perché la passione va unita e trasformata dalla spinta dello spirito, altrimenti rimane – per dirla con la sessuologa belga Theresé Hargot – un mero «esercizio fisico».
Che i quattro punti enucleati da Thibon possano essere utili e attuali?

da: www.libertaepersona.org

domenica 13 agosto 2017

Il misticismo dei matematici

di Giuliano Guzzo

Scienza e fede sono compatibili? Se un simile quesito solleva in voi dubbi, pensieri o semplice curiosità, c’è un libro – appena uscito – che fa esattamente al caso vostro. Sto parlando de Il misticismo dei matematici (Cantagalli 2017, pp. 137), l’ultima fatica di Francesco Agnoli, ottimo studioso da anni impegnato in una meritoria opera di approfondimento sui grandi scienziati della storia. Si tratta di un volume con cui l’Autore, con la competenza dello storico e la chiarezza del divulgatore, mette in luce – come viene premesso nelle prime pagine – «la presenza, in quasi tutti i più grandi matematici, di riflessioni filosofiche e teologiche riguardo all’esistenza di Dio, l’anima immortale, il mondo soprasensibile» (p.13).
La cosa bella del libro è però il fatto che, a parlare del misticismo dei matematici, una volta tanto sono…loro stessi. Agnoli infatti compie un’opera di notevole onestà intellettuale dando la parola direttamente a 15 giganti della matematica – da Pascal a Gauss, da Boole a De Giorgi -, cosa che consente al lettore di scoprire come costoro fossero non soltanto credenti, ma spesso veri e propri difensori della religione. Attraverso le pagine de Il misticismo dei matematici è così possibile scoprire aspetti e particolari interessantissimi ma che normalmente i libri di storica omettono e a scuola gli insegnanti quasi mai dicono. Tipo che Cartesio definiva l’ateismo «crimen atrocissimum» (p. 28) o che Leibniz combatteva il materialismo, apostrofato come «figlio illegittimo della nuova scienza della natura» (p.37).
Ma per forza costoro erano credenti – ribatterà subito lo scettico – dal momento che tutta la società, a quel tempo, era molto religiosa. Un’ipotesi interessante, ma che Il misticismo dei matematici confuta totalmente da un lato mostrando la religiosità di grandi uomini di scienza anche contemporanei – da Enrico Bombieri a Federico Faggin -, e, dall’altro, mettendo in luce come talvolta i giganti della matematica furono uomini di fede anche contro le mode del proprio tempo. Come fece per esempio Eulero, il più prolifico matematico della storia, il quale se da una parte frequentava ambienti nei quali «l’argomento principale della conversazione» era la presa in giro della religione dall’altra «tutte le sere riuniva la famiglia e leggeva un capitolo della Bibbia, che accompagnava con una preghiera» (p.45).
Ingenuo, dunque, sarebbe chi pensasse di spiegare la religiosità dei matematici appoggiandosi a meri fattori culturali. Ciò che Agnoli evidenzia, infatti, è come queste menti geniali fossero molto più che semplicemente credenti, ma costantemente attratte dalla religione. Si pensi al fascino che in Alexander Grothendieck, considerato da molti il più grande matematico del XX secolo e uno dei più grandi di sempre, suscitò «la cattolica francese Marthe Robin: una mistica segnata dalla sofferenza, che vive di Eucaristia» (p.102-103), o alla spinta metafisica che portò il grande logico Kurt Gödel «a respingere materialismo e panteismo, a leggere la Bibbia, a porsi, nei suoi taccuini personali, numerose domande sulla dottrina cattolica» (p.92). La religiosità, in ciascuna delle 15 figure approfondite da Agnoli, è una costante.
Il motivo per cui consiglio vivamente l’acquisto e la lettura de Il misticismo dei matematici non è quindi tanto la sottolineatura del fatto che molti scienziati siano credenti – già una ricerca della Rice University, condotta su 1.700 studiosi di primo piano, aveva chiarito come il 70% di essi lo sia (cfr. Science vs Religion – What Scientists Really Think, 2010) -, bensì la possibilità, che questo libro – che si legge davvero tutto d’un fiato, provare per credere – offre, di seguire da vicino i percorsi di fede, talvolta anche tormentati e per nulla lineari, di grandi scienziati la cui profondissima religiosità non viene mai ricordata. A tutto vantaggio dello stereotipo dello scienziato ateo, anticlericale e desideroso di smascherare le menzogne della Chiesa cattolica. Una bufala clamorosa della quale, quando avrete letto questo eccellente testo, non potrete che farvi lunghe risate.

da: www.libertaepersona.org

sabato 12 agosto 2017

Shakespeare era cattolico?

di Luca Fumagalli

Quando Chesterton scriveva che «un grande classico è uno scrittore che si può lodare senza averlo letto», senza dubbio stava pensando anche e soprattutto a William Shakespeare, il più grande autore della letteratura inglese e una delle menti eccellenti della cultura occidentale. Chesterton, da fine cesellatore di paradossi, in poche parole esplicita l’essenza poetica del Bardo dell’Avon, promotore di un messaggio così radicato nel cuore e nella mente dell’uomo da essere universalmente valido. Il fatto che Shakespeare abbia qualcosa da dire a tutti noi non lo rende, però, una specie di extraterrestre, né tantomeno un essere quasi angelico, estrapolato da ogni contingenza, superiore alle esigenze e alle incognite del quotidiano.
Ma è proprio a questo punto che iniziano i problemi. La vita di Shakespeare, infatti, pur affannosamente indagata nei secoli da storici e letterati di tutto il mondo, rimane ancora un grande punto interrogativo. Pochi particolari della lunga parabola esistenziale del drammaturgo elisabettiano sono noti con un certo grado di sicurezza, mentre intere annate pare si siano perse nell’oblio. Da qui hanno preso piede le più assurde e strampalate supposizioni che hanno fatto nascere nel tempo una sorta di “questione Shakespeare”, non troppo diversa per complessità dalla nota “questione omerica”. Innumerevoli saggi e articoli sono stati scritti per rivelare le presunti origini italiane del Bardo o per narrare la storia di uno scribacchino poco talentuoso diventato celebre solo per aver fatto da prestanome a nobili letterati di corte. Il tema è ancora caldo, e film recenti come Shakespeare in Love (1998) o Anonymous (2011) sono riusciti a costruire sceneggiature convincenti – con ottimi incassi al botteghino – inseguendo ora l’una ora l’altra delle più fantasiose piste interpretative a disposizione.
Elisabetta Sala, docente di storia e letteratura inglese, con il saggio L’enigma di Shakespeare. Cortigiano o dissidente? (Ares, 2011) affronta l’argomento da una prospettiva diversa, anche se per certi versi non del tutto inedita. Sgombrato il campo dalle dicerie e dalle grossolane semplificazioni di certa storiografia nazionalista, Sala conduce per mano il lettore in un’appassionante avventura investigativa alla ricerca di tutti quegli indizi che sembrano confermare la più scomoda delle verità per la protestante Inghilterra: Shakespeare era cattolico.
Già Jan Dobraczynski nel suo romanzo L’invincibile armata (1960) aveva fatto indossare al Bardo i panni di uno sfuggente ricusante amico dei gesuiti, nelle cui opere mette alla berlina tanto l’anglicanesimo quanto l’ottusa arroganza del sovrano di turno (poco importa se Elisabetta o Giacomo). L’enigma di Shakespeare dà a questa intuizione la forma di un corposo trattato che vanta, tra i molti meriti, un ricco apparato bibliografico e una prosa godibile.
Bastano dunque poche pagine per far crollare miseramente l’immagine convenzionale del Shakespeare cantore dell’ottimismo elisabettiano. Le sue simpatie, a quanto emerge in modo sempre più chiaro da studi autorevoli, erano rivolte piuttosto alla minoranza perseguitata – tra l’altro era in stretto rapporto con diversi rappresentanti della dissidenza cattolica –, e le sue opere cercavano, pur cautamente, di dar voce a chi non aveva più diritto di parlare. Il teatro e i testi lirici sono attraversati, non a caso, da un filo rosso sotterraneo che torna alla ribalta nella riproposizione di figure e situazioni ricorrenti (nonché nella citazione di particolari della devozione popolare cattolica, scomparsa con l’imposizione della chiesa nazionale). Lotte fratricide, equivoci dalle terribili conseguenze e personaggi positivi ingiustamente esiliati sono solo alcuni esempi di quelle immagini shakespeariane che comunicano a più livelli e che, tra le righe, raccontano allo spettatore di un regime corrotto, di una religione annientata dalla brama dei disonesti e di tanti sacerdoti che hanno pagato con la vita la fedeltà alla Chiesa di Roma.

Se, come ha dovuto infine ammettere anche qualche studioso protestante, Shakespeare morì papista, è perché, molto semplicemente, era rimasto tale per tutta la vita.

da: www.radiospada.org

giovedì 10 agosto 2017

Meglio la (vera) scienza che la (falsa) fede

di Fabrizio Carbone

Non c’è peggior cieco di colui che scientemente non voglia sforzarsi per vedere. O almeno per cercare di vedere meglio. Specie oggi che non mancano affatto gli ausili alla vista, in tutti i sensi della parola. Ma è anche vero che, come diceva il filosofo francese Jean Madiran (1920-2013), “quando c’è un’eclissi, tutto quanti siamo immersi nelle tenebre”.
Le tenebre di oggi si chiamano rifiuto dell’intelligenza, dell’analisi, della lettura realista (né ottimista-progressista, né conservatrice-pessimista) della società. E prima di tutto dell’orizzonte politico, sociale, economico ed esistenziale vissuto sulla propria pelle da parte del nostro popolo e della nostra gente.
Noi altri italiani siamo confrontati, ormai da decenni e con un ritmo invero crescente, ad una decadenza spettacolare dei costumi e della legalità, di cui i frequenti crimini su cui ricamano con godimento i media senza censura, sono solo la punta più visibile dell’iceberg. La stessa immigrazione di massa (incontrollata e colonizzatrice), e a sua volta causa di nuovi delitti e di nuove tragedie, è il segno di una debolezza sociale, culturale e politica ormai nota e innegabile.
Il recente saggio del duo Claudio Risé–Francesco Borgonovo (Vita selvatica. Manuale di sopravvivenza alla modernità, Lindau, 2017) enumera una preziosa serie di dati oggettivi, fatti di stime accertate, statistiche e alcune non difficili proiezioni come queste. Nel 2050, anno in cui milioni di persone già nate oggi saranno ancora in vita, la popolazione mondiale sfiorerà, salvo catastrofi precedenti imponderabili, i 10 miliardi di esseri umani, specie asiatici e africani. “I non bianchi saranno la maggioranza in Europa e negli Stati Uniti” (p. 13). Certo, il colore della pelle è secondario nella personalità di un uomo, ma il dato resta simbolico. O no?
La disoccupazione endemica crescerà per più motivi, ma anche a causa della tecnologia e della robotica che sostituiranno gli uomini in molte mansioni di fabbrica. Non pochi mestieri tenderanno a scomparire del tutto, specie i mestieri più arcaici, tradizionali e socialmente rassicuranti, come buona parte di quelli legati al mondo agricolo e all’artigianato, all’arte e al piccolo commercio al dettaglio.

Il caos, già onnipresente nei vari gangli della società europea, arriverà a un punto tale che perfino un insospettabile economista del sistema come Jacques Attali (1943) ha scritto che fra 30 anni il mondo “comincerà a decostruirsi sotto i colpi della globalizzazione. L’Africa di domani non assomiglierà perciò all’Occidente di oggi, sarà piuttosto l’Occidente di domani ad assomigliare all’Africa di oggi” (Breve storia del futuro, citato a p. 9).
Alcuni pensatori originali però, previdero fin dagli anni ’20 la crisi che stiamo vivendo. Si pensi ad Oswald Spengler (1880-1936) e al suo celebre Tramonto dell’Occidente (1923), ma anche ad altri autori meno noti come i brasiliani Gustavo Corçao (1896-1978) o Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995). Quest’ultimo, nel 1993, a due anni dalla morte, scrisse che “Se si cerca un denominatore comune nelle vicende della vita pubblica e privata di tante nazioni, si potrebbe dire che esso è il caos. Le prospettive caotiche sembrano moltiplicarsi sempre più tra di loro; si avanza sulla strada del caos, e nessuno sa con certezza fin dove” (R. de Mattei, Plinio Corrêa de Oliveira, apostolo di Fatima e profeta del Regno di Maria, 2017, p. 73).
D’altra parte, il rifiuto di analizzare la realtà coincide, né più né meno, con il rifiuto della scienza, in nome della fede.
La scienza è qui la conoscenza della realtà attraverso l’osservazione e l’analisi spassionata, a base di indagini, ipotesi e conclusioni. Conclusioni sempre perfettibili certo, ma mai del tutto inutili se hanno come punto di partenza la realtà, e non l’ideologia e i pregiudizi. La fede, in questo contesto, non è la fede religiosa, di tipo cristiano o altro. Ma la fede irreligiosissima nei miti umani più démodé come il progresso necessario e automatico, l’ottimismo modernista e filo-tecnologico, la visione dell’umanità fatta solo di “bravi ragazzi” e semmai di “incompresi”, e non di buoni e cattivi, onesti e disonesti, coraggiosi e vili, eroi e delinquenti.
Galileianamente e cartesianamente dovremmo fare ogni sforzo per conoscere la verità in ciò che ci riguarda necessariamente, specie quando si affastellano nel popolo idee diverse e contraddittorie su temi di importanza vitale.
Ad esempio: è bene o è male dare accoglienza a tutti i profughi del pianeta? E’ possibile o no accettare una ondata migratoria virtualmente illimitata come quella che ci si prospetta nei prossimi anni? Alcuni politici come Macron o intellettuali alla Saviano rispondono che sì, dobbiamo accettare accogliere ospitare e tacere. Altri sono assai più cauti e riservati. Alcuni pensano invece che con una immigrazione costante come quella attuale le nostre società arriveranno al collasso economico. Chi ha ragione? E chi ha torto?
Il nostro popolo palesemente si sta slabbrando, sta compiendo una corsa disperata e a tratti inconscia verso la propria morte per eutanasia. Poche nascite, divorzi e separazioni che superano i matrimoni, decadenza dell’istituzione scolastica, violenza videodipendenza e dilagante alcolismo come dati ormai acquisiti e banalizzati presso i nativi digitali (si veda in tal senso, Carlo Casini, Vita nascente, prima pietra di un nuovo umanesimo, San Paolo, 2017)
I nemici della civiltà però non sono i migranti come tali, e meno che mai i (veri) profughi, che tentano una via di salvezza, magari con le migliori intenzioni di inserimento sociale e di vivere con dignità.
Ma le guide “spirituali” dell’Europa e dell’Occidente – le Boldrini, gli Schulz, i Macron – davanti alla situazione tremenda in cui si trovano popoli di antica civiltà come l’italiano, il tedesco e il francese, cosa fanno? Organizzano, come possono, nuove caccie alle streghe, dove le streghe redivive sono il fascismo, il populismo, i difensori della famiglia tradizionale (e costituzionale), e tutti coloro che mantengono uno sguardo critico verso l’andamento della società di questo primo scorcio del XXI secolo.
“La Rivoluzione non ha bisogno della scienza” sembra che si disse, da parte dei più feroci giacobini, nell’atto di condannare a morte il grandissimo chimico e biologo francese Antoine de Lavoisier (1743-1794), colpevole solo perché di origini nobiliari e non assimilabile al nuovo corso terroristico della politica rivoluzionaria.
Anche in quel caso, la fede ideologica di un Jean-Paul Marat (1743-1793) e di un Robespierre (1758-1794), fu la causa della censura verso un uomo di raro valore come Lavoisier. Ma la storia, nel sangue che ne è il segno più emblematico, sembra doversi ripetere.
La fede laica nella democrazia, nel progresso e nel futuro sopprime le analisi ponderate, ancorché sgradite, della realtà. E se la fede cancella la conoscenza, chi mai potrà dirci come stanno esattamente le cose? La scienza non è mai stata scalzata dalla fede cristiana, al contrario di quanto si afferma in testi di storia manichei e ideologici (si vedano in proposito i libri di Giorgio Israel e di Rodney Stark). Ma la fede irreligiosa delle élite senza patria di oggi, essa sì rappresenta un pericolo senza precedenti per l’intera umanità.

da: www.libertaepersona.org

martedì 8 agosto 2017

La storia dimenticata del gesuita Gerard Manley Hopkins, genio della poesia

di Luca Fumagalli

Gerard Manley Hopkins (1844-1889) è un poeta fuori dal tempo. Passato praticamente inosservato durante la vita, divenne in seguito una delle figure di riferimento per la poesia inglese del XX secolo. Nonostante Hopkins scrisse la maggior parte dei suoi componimenti tra il 1876 e il 1889, fu solo nel 1918, quasi trent’anni dopo la morte, che l’amico Robert Bridges pubblicò finalmente un’edizione completa dei suoi versi, Poems of Gerard Manley Hopkins. Appena il volume raggiunse gli scaffali delle librerie, il successo fu immediato.
Hopkins, che proveniva da una famiglia anglicana, sin dalla giovane età diede prova di doti non comuni. Frequentò con ottimi risultati il Balliol College di Oxford ed ebbe come insegnante, tra gli altri, quel Walter Pater che fu maestro di Wilde e di tutta la generazione degli scrittori decadenti. Influenzato dal Movimento di Oxford e dalle posizioni del cosiddetto partito “ritualista”, sorprese tutti quando nel 1866 si convertì al cattolicesimo; fu il noto teologo e futuro cardinale John Henry Newman ad accoglierlo ufficialmente nella Chiesa di Roma. Insegnò poi alla scuola dell’Oratorio di Birmingham fino al 1868, anno in cui maturò la decisione di diventare sacerdote gesuita. Per ribadire la serietà delle sue intenzioni, bruciò tutte le poesie che aveva scritto sino a quel momento: la letteratura era un passatempo profano, non adatto a un futuro uomo di Dio.
Hopkins trascorse l’ultimo periodo della sua formazione da seminarista, tra il 1874 e il 1877, al St Beuno’s College, nel Galles del nord. Mentre si trovava lì, imparò il gallese ed ebbe modo di apprezzare le liriche medievali di quella terra misteriose ed evocativa. Il risultato fu una folgorazione. Non senza esitazioni prese di nuovo la penna in mano e nel 1875 stese quella che sarebbe diventata la sua composizione più famosa: Il naufragio del “Deutschland” (The Wreck of the “Deutschland”). La poesia, ispirata a un fatto di cronaca – il naufragio di una nave che stava trasportando un gruppo di suore esiliate dalla Germania a causa alle nuove leggi penali -, venne definita dall’artista cattolico David Jones «una delle opere più affascinanti mai scritte in lingua inglese».
Hopkins continuò a coltivare la sua passione, alternando la letteratura ai molti impegni che gli derivavano dal duplice ruolo di sacerdote e insegnante. Nel 1884 divenne professore di latino e greco presso la Royal University of Ireland di Dublino. In realtà il soggiorno nell’isola di smeraldo, al netto del prestigio derivatogli dall’incarico, fu tutt’altro che appagante; le carte del periodo, non a caso, sono attraversate da un senso di cupo sconforto, al limite dell’angoscia.
Nel 1889 il tifo spezzò prematuramente la vita di un talento che avrebbe potuto dare una contributo decisivo allo sviluppo di una marcata sensibilità “papista” all’interno del panorama culturale britannico. D’altro canto il controverso rapporto con il proprio genio avrebbe quasi certamente convinto Hopkins a continuare con la politica di non pubblicare ciò che scriveva, ancora considerato, malgrado gli ottimi risultati ottenuti, qualcosa di poco dignitoso per un sacerdote (e questo nonostante la testimonianza di illustri confratelli del passato come Robert Southwell, poeta e martire sotto il regno di Elisabetta).
I lavori del gesuita, quando vennero finalmente dati alle stampe nel 1918, ebbero l’effetto di un piccolo terremoto. Non solo Hopkins dimostrava di voler abbandonare le forme tradizionali, ma, attingendo a piene mani dal mondo greco e da quello ebraico dei Salmi, puntava più sull’effetto ritmico piuttosto che sulla metrica. La musicalità era garantita dai rimandi alla liturgia cristiana e alla poesia medievale, nonché dalla sapiente cesellatura di allitterazioni, assonanze e onomatopee.
Nei poemi la natura suggerisce all’uomo l’esistenza di verità profonde, generate da allusioni simboliche. Il cattolicesimo di Hopkins, sul modello di quello medievale di Duns Scoto, si rivela soprattutto nel costante rimando a Dio, un mistero che tutto pervade. Semplicità e complessità convivono brillantemente. Così, per esempio, quelli che potrebbero apparire come semplici descrizioni o bozzetti paesaggistici, si rivelano infine per quello che sono: indizi di una Presenza più grande che travalica il dato sensibile. Tale certezza, tuttavia, non toglie ai fedeli la fatica di dover dimostrarsi ogni giorno all’altezza dell’ideale cristiano; l’errore e la disperazione, in questo senso, sono nemici sempre in agguato.
Oltre alle poesie mariane e a quelle caratterizzate da contenuti più “laici”, Hopkins scrisse molte altre liriche che contengono spunti tratti direttamente dall’immaginario cattolico. Tra le più interessanti si segnalano La grandezza di Dio (God’s Grandeur), Variopinta bellezza (Pied Beauty), I pioppi di Binsey (Binsey Poplars), Primavera e autunno (Spring and Fall) e Scritto sulle foglie della Sibilla (Spelt from Sybil’s Leaves).
Nel 1975 una lapide dedicata alla memoria del grande gesuita venne posta nel famoso Poets’ Cornerdell’Abbazia di Westminster, accanto a quella dei nomi più illustri della cultura inglese. Con questo gesto si voleva ricordare la storia dimenticata di un poeta straordinario, un poeta che in Italia, ad eccezione di una manciata di monografie e di vecchie edizioni mai più ristampate, è stato colpevolmente ignorato, e oggi più che mai merita di essere riscoperto.

da: www.riscossacristiana.org

domenica 6 agosto 2017

“L’impero bonsai”, Indro Montanelli racconta il suo viaggio in Giappone

di Riccardo Rosati  
Gli articoli raccolti in questo volume sono apparsi per la prima volta sul Corriere della Sera tra il novembre 1951 e il marzo 1952, periodo in cui Indro Montanelli (1909 – 2001) soggiornò in Giappone, per osservarne di persona le evoluzioni dopo la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale. Le condizioni, quindi, di una Nazione occupata militarmente e reduce dai sei anni della “Reggenza MacArthur”, col generalissimo americano che, nella gestione praticamente plenipotenziaria dell'Arcipelago, raramente evitò di palesare la sua scarsa stima verso i sudditi del Sol Levante. A Montanelli, infatti, ciò non sfugge e riporta con chiarezza come la cappa oltraggiosa imposta da Douglas MacArthur cessi praticamente di esistere quando al suo posto subentra a capo dello SCAP (Supreme Commander for the Allied Powers) il generale Matthew Ridgway, un uomo mite e non prigioniero di quella auto-idolatria che danneggerà successivamente la carriera del suo collega. Pagina dopo pagina, il miglior giornalista italiano di sempre – insieme a quel Mussolini che affascinò proprio il giovane Montanelli – coglie con occhio acutissimo taluni aspetti essenziali di un Popolo che sperimenta per la prima volta la democrazia e si avvia verso quella straordinaria espansione economica che avrebbe di lì a poco minacciato il primato delle economie occidentali.
Giornalismo, ecco, questa è la parola chiave che connota il libro, come spiega bene Vittorio Zucconi nella Prefazione: “[...] perché il segreto di questa forma di giornalismo non è la conoscenza, al contrario è l'ignoranza del soggetto” (8). Zucconi non gode affatto della nostra stima, eppure, nel presentare questi scritti di Montanelli, offre alcune riflessioni di assoluta qualità; forse ciò è dovuto al fatto che anch'egli è stato inviato in Giappone, però negli anni '80, dunque in un Paese ormai totalmente capitalista e in parte alieno alla propria tradizione, a causa della forte americanizzazione. Invero, le parole di Zucconi ci riportano alla mente quelle di Italo Calvino, il quale, col suo Collezione di sabbia (1984), riuscì a toccare una delle massime vette nella narrazione del Giappone moderno. Alla stessa stregua di Zucconi, anche nello scrittore ligure, l'“ignoranza” è un paradossale valore: “Nuovo nel paese, sono ancora nella fase in cui tutto quel che vedo ha un valore proprio perché non so quale valore dargli”.
Certo, Calvino è stato uno dei prìncipi tra gli autori del XX secolo, mentre Montanelli e Zucconi, con tutto il dovuto rispetto, sono dei giornalisti e non degli intellettuali. Nondimeno, ne L’impero bonsai si incontrano vari passaggi davvero sorprendenti per la loro comprensione della cultura nipponica, tanto che in qualche caso ci siamo detti che, alla fine, Montanelli aveva “capito tutto” o quasi; come quando cristallizza in poche parole un elemento assai complesso, legato a quella raffinata composizione tutta giapponese di un'estetica fatta di crudeltà: “Non si educa e non ci si educa senza una buona dose di cattiveria, di spietata intransigenza. Io non ho mai visto un popolo maleducato e crudele” (40). Inoltre, se egli comprende con adeguata profondità l'eleganza dell'animo di questa Nazione, non manca altresì di cogliere la rozzezza degli occupanti, di quella America che Montanelli, benché da tempo convertito all'antifascismo, non riusciva proprio ad apprezzarne qualsivoglia portato valoriale: “Ma è proprio, tutto questo, una novità, la rivoluzionaria democratica novità che gli Americani pensano di avere introdotta?” (46).
Tornando a Zucconi, costui confessa di provare una “rancorosa ammirazione” (7) verso gli scritti del più blasonato e talentuoso cronista, il quale affresca un ritratto del Giappone tramite una scrittura magari non bella, eppure “calda”, partecipata. Questo reportage in forma di articoli giornalistici permette di scoprire addirittura un rarissimo Montanelli “affettuoso”, quando, ad esempio, parla di Shigeru Yoshida (1868 – 1977), Primo Ministro giapponese (1946 – 1947 e 1948 –1954), nonché amante dell'Italia e di Napoli in particolare.
L’impero bonsai si attesta quale una preziosa testimonianza di un Paese invaso, vittima di umiliazioni, che però il popolo giapponese affronta con sobrietà e dignità. Montanelli non fa mistero di ritenere il “fascismo giapponese” (definizione verso la quale nutriamo puntualmente forti dubbi) un errore grave. Sia come sia, il suo spirito da anarchico strutturato, quindi con una propensione talvolta reazionaria, spunta fuori con prepotenza nella sua difesa di Tomoyuki Yamashita (1885 – 1946), conosciuto anche come la “Tigre della Malesia”, per via delle atrocità commesse dai suoi soldati a Manila, impiccato come criminale di guerra, o almeno questa è stata la versione dei fatti propagandata dagli “alleati”. Montanelli la pensa in tutt’altro modo, e lo si vede quando riporta il dissenso della stampa, persino di quella statunitense, per l'esecuzione di questo coraggioso e nobile ufficiale, passato alla storia per la sua incredibile presa della “fortezza” britannica di Singapore: “Subito dopo la lettura del verdetto, il mio collega Pat Robinson dell'International News Service mise ai voti e pubblicò, […], il responso dei dodici corrispondenti americani, inglesi e australiani che dopo aver seguito il processo dalla prima all'ultima seduta si pronunciarono unanimemente contro la legalità della sentenza: lo dico con una certa fierezza di giornalista” (28).
Dicevamo sopra che non abbiamo a che fare con un intellettuale. Ragion per cui, tante sfumature della società dell'Arcipelago gli risultano ostiche da afferrare. In primis, quelle riguardanti la più complessa figura nella cultura giapponese, ovvero il suo sovrano (天皇, Tennō). Montanelli non riesce a carpirne l'essenza, il motivo per cui un semplice essere umano possa diventare il simbolo di una intera Nazione, parimenti a quello che per noi occidentali è la Bandiera. Quello che, però, non gli sfugge è l'umiliante condizione dell'Imperatore dopo la guerra: “[...] oggi il centoventiquattresimo erede di una dinastia che dura ininterrottamente da duemilaseicentoquattordici anni vive come un padre di famiglia della media borghesia, senza sfarzo né seguito” (49). Allora, possiamo pensare, leggendo questa sua cronaca in una terra così lontana geograficamente e non solo, che quando Montanelli non riesce a comprendere, e questo avviene abbastanza spesso, non smarrisce mai il rispetto, e anche in ciò egli ci ricorda lo smarrimento provato sempre da Calvino in Giappone: “Così il tempio Manju-in, che un incompetente come me giurerebbe che è zen e invece non lo è […]”.  
In conclusione, sovente il Giappone si rivela capace di tirare fuori il meglio di noi. La spiegazione fornita da Montanelli è che questo è dovuto al fatto che si tratta di un “Paese serio”! La raccolta di articoli in questione è una sorta di album di realtà nipponica, con delle “istantanee” scattate dalla mente di un uomo che era capace di spiegare e, talora, pure raccontare. La sua visione del Giappone non è elaborata, ma è tanto vera, potentemente autentica nella sua ingenuità, come dice giustamente ancora una volta Zucconi: “[...] perché un giornalista non è mai un professore, se vuol chiamarsi tale, ma sempre e soltanto uno studente sul filo della bocciatura” (15). Montanelli e la sua penna arcigna ci mancano molto. La lettura di questo testo, come abbiamo avuto modo di indicare, ci ha ricordato il viaggio nel Sol Levante di Calvino. Da un lato un grandissimo giornalista, dall'altro uno dei massimi scrittori della epoca moderna, entrambi accomunati dall'“umiltà” che ha fatto nei secoli grande la odeporica (la “Letteratura di Viaggio”) degli Italiani. Loro, i giapponesi sono quello che sono, gente seria; noi, dal canto nostro, siamo quello che siamo, o almeno eravamo fino a qualche tempo fa, il Popolo più intelligente del pianeta, al punto che un “semplice” giornalista si dimostra capace di esprimere concetti sul Giappone ben più profondi ed esatti di quelli di tanti accademici di scuola anglosassone che vanno per la maggiore da decenni: “A meno che il mio errore non sia proprio questo; di voler trovare una logica e dare una spiegazione a ciò che i Giapponesi fanno. Che è anche questa, a pensarci bene, una spiegazione; e forse la sola che valga” (51).
Indro Montanelli, L’impero bonsai. Cronaca di un viaggio in Giappone 1951 – 1952, Rizzoli, Milano, 2007

*Un ringraziamento alla collega orientalista Annarita Mavelli, che ha gentilmente portato il testo di Montanelli alla nostra attenzione
da: www.ordinefuturo.net

venerdì 4 agosto 2017

L’angolo di Gilbert K. Chesterton – Grandezza e attualità di uno scrittore cattolico



di Fabio Trevisan

“Non sapete che un pittore di ritratti deve saper valutare le persone a prima vista esattamente come un medico?”

Nella raccolta di episodi tratti dalla vita di Gabriel Gale, “Il poeta e i pazzi”, pubblicato nel 1929, Gilbert Keith Chesterton ha voluto rivelarci un profilo autobiografico. Questo Gabriel Gale, pittore e poeta con il gusto della contemplazione mistica e dalla raffinata penetrazione psicologica univa, come Chesterton, due “anime”: la natura artistica dell’immaginazione collegata a quella filosofica della ragione. “E’ esatto dire che siamo capovolti; quando gli angeli pendono a testa all’ingiù sappiamo che vengono dall’alto. E’ soltanto chi viene dal basso che gira col naso in aria”.Queste frasi apparentemente squilibrate hanno, al contrario, un senso molto forte e indicano che per vedere le cose correttamente bisogna fare un esercizio spirituale insolito: capovolgerle. Che significa ? Non si dice spesso, in segno di superbia, che “quel tizio mi ha guardato dall’alto verso il basso”? Chesterton proponeva l’inverso, in segno di umiltà, di guardarle dal basso verso l’alto e c’erano due modi: o stare ritti sulla testa (esercizio atletico assai impegnativo) oppure prostrarsi o inginocchiarsi ed alzare così lo sguardo verso il cielo.
Alla base di questi “pazzeschi” ragionamenti stava, potremmo dire con S. Francesco d’Assisi, una filosofia della natura, un corretto concetto di natura: quando la natura è concepita come madre, inevitabilmente finisce (per dirla con Giacomo Leopardi) per diventare matrigna; al contrario, quando è sorella, si accetta con gioia la gratitudine della condivisione creaturale. Ecco perché è esatto dire, con Gabriel Gale, che siamo capovolti, per poter assaporare la potenza del Creatore, i suoi Angeli, le Sue creature: “Ricordate che San Pietro venne crocifisso con la testa all’ingiù? Ho spesso pensato che la sua umiltà sia stata ricompensata dal fatto che, morendo, poté riavere la meravigliosa visione della sua infanzia; vide anche il paesaggio quale è veramente, con le stelle simili a fiori e le nubi come colline e tutti gli uomini sospesi alla mercé di Dio”. Con questo sguardo capovolto, ci insegna Chesterton, tutto appare sospeso, tutto ha le radici in cielo. La natura, senza la sopranatura, perde di significato e non riesce a mantenersi nemmeno come natura: “Se si recide il sopranaturale si ha l’innaturale”. Appunto, la contro-natura. Gabriel Gale descriveva così la situazione forsennata entro la quale ora stiamo vivendo ed invitava ad orientare lo sguardo (dal basso) verso il cielo: “Siamo delle mosche che strisciano su un soffitto, ed è soltanto per un’incessante azione della misericordia divina che non precipitiamo”.
A questa infantile ed umana umiltà che, attraverso lo sguardo capovolto, coglieva l’essere delle cose, il grande scrittore inglese aggiungeva un’altra essenziale considerazione: tutto era stato posto da Dio nel Paradiso terrestre, su di un elevato piano sopranaturale ma che il piano inclinato del peccato originale aveva sconvolto, facendo precipitare il tutto verso il basso. Oltre a recuperare lo sguardo, bisognava quindi restituire a Dio l’esatta dimensione in cui aveva posto il creato. Per questo motivo Innocent Smith, uomo vivo, poneva il cappello in testa ad ogni persona con queste parole: “Ogni uomo è un re ed ogni cappello è una corona”. Quest’atto, che evocava l’investitura medievale, significava il ricordare la dignità e la collocazione originaria, come Dio l’aveva pensata. Un’ultima riflessione, suggerita dal poeta e pittore Gabriel Gale, è quella del corpo e della sua ombra. La luce ed i colori, per un sano pittore, rivelano qualcosa che ad un occhio poco allenato non appare.
Chesterton ci ammonisce, riferendosi al realismo moderato di San Tommaso d’Aquino, a considerare attentamente le cose e a non scambiarle con le ombre: “Accanto ad ogni cosa sta la cosa irreale che è la sua ombra: per i nostri occhi è l’ombra che esiste…non riuscite a vedere nessun oggetto come esiste nella realtà, ma soltanto quale lo si potrebbe far apparire…andate direttamente alle potenzialità ingannevoli di tutte le cose, afferrate subito il concetto che ogni cosa si può usare come fosse un’altra”.

da: www.riscossacristiana.it