mercoledì 21 novembre 2018
venerdì 20 aprile 2018
giovedì 12 aprile 2018
venerdì 23 marzo 2018
Toolbox Invito alla lettura e Reading Literacy: le buone pratiche di lettura internazionali
Vi
segnaliamo due importanti appuntamenti destinati a insegnanti, educatori e
genitori.
Toolbox Invito alla lettura
Il Centro per il libro e la lettura e Rai Cultura presentano alla “Bologna Children’s Book Fair” la nuova serie del programma “Invito alla lettura”, dedicato ai temi di base e alle attività di promozione della lettura internazionali che sostengono i ragazzi a crescere come lettori indipendenti. Un lettore indipendente matura delle preferenze di lettura ed è in grado di scegliere i libri in autonomia. L’adolescente diventa così parte attiva nel processo di lettura: un lettore che formula domande, si confronta con i suoi pari e sviluppa un pensiero critico. Il programma si rivolge a insegnanti e educatori e mira ad arricchire le competenze sull’educazione alla lettura. Durante l’incontro saranno proiettati in anteprima dei video con esercitazioni pratiche realizzate con insegnanti e ragazzi.
Il Centro per il libro e la lettura e Rai Cultura presentano alla “Bologna Children’s Book Fair” la nuova serie del programma “Invito alla lettura”, dedicato ai temi di base e alle attività di promozione della lettura internazionali che sostengono i ragazzi a crescere come lettori indipendenti. Un lettore indipendente matura delle preferenze di lettura ed è in grado di scegliere i libri in autonomia. L’adolescente diventa così parte attiva nel processo di lettura: un lettore che formula domande, si confronta con i suoi pari e sviluppa un pensiero critico. Il programma si rivolge a insegnanti e educatori e mira ad arricchire le competenze sull’educazione alla lettura. Durante l’incontro saranno proiettati in anteprima dei video con esercitazioni pratiche realizzate con insegnanti e ragazzi.
Partecipano:
Gianfranco Noferi
(vicedirettore RAI Cultura); Romano
Montroni (Cepell); Tiziana
Mascia (autrice del programma).
28
marzo ore 10:30, Sala Notturno
La Reading Literacy: le buone pratiche di lettura
internazionali
Il Centro per il Libro e la Lettura continua il suo lavoro di ricerca per individuare le migliori pratiche di lettura su base internazionale. Con il contributo di esperti e studiosi di lettura, responsabili di progetti europei "EU High Level Group of Experts on Literacy" e "ELINET European Literacy Network”, si introdurranno le linee guida di promozione della lettura per i diversi target di età: prima infanzia, bambini e adolescenti. Si parlerà dell’evoluzione della lettura in Europa e della ricerca sulla formazione continua degli insegnanti nell’ambito della Reading Literacy.
Il Centro per il Libro e la Lettura continua il suo lavoro di ricerca per individuare le migliori pratiche di lettura su base internazionale. Con il contributo di esperti e studiosi di lettura, responsabili di progetti europei "EU High Level Group of Experts on Literacy" e "ELINET European Literacy Network”, si introdurranno le linee guida di promozione della lettura per i diversi target di età: prima infanzia, bambini e adolescenti. Si parlerà dell’evoluzione della lettura in Europa e della ricerca sulla formazione continua degli insegnanti nell’ambito della Reading Literacy.
Partecipano:
Flavia Cristiano
(Centro per il Libro e la Lettura), Renate
Valtin (Humboldt University Berlin), Christine Garbe
(University of Cologne), Tiziana
Mascia (Libera Università di Bolzano).
28
marzo ore 11:30, Sala Notturno
Per
entrambi gli appuntamenti, su richiesta, verrà rilasciato un attestato di frequenza
in quanto incontro valido ai fini della formazione del personale docente della
scuola (L. 107/2015 Art. 1, c. 124) erogato da Ente di per sé qualificato
(Direttiva MIUR 170/2016, art. 1, c.7).
Vi
aspettiamo numerosi!
N.B.
Il presente invito non dà diritto all'ingresso alla Fiera di Bologna, per le
modalità di accesso consultare il sito della Bologna Children's Book Fair.
ARTE ULTIMA / ANTICO FUTURO Arte Fantastica e Richiami dell’Origine
Il titolo dell’imperdibile evento richiama
strettamente le ultime pubblicazioni di un artista, saggista e performer di
calibro internazionale – Vitaldo Conte – Docente di Storia dell’Arte
Contemporanea presso l’Accademia di Belle Arti di Roma. Sulla scena artistica e
culturale da decenni, animato da verve sperimentale e riconosciuto tra i
massimi studiosi di Futurismo e Dada, Vitaldo Conte torna a Brindisi dopo il
successo conseguito con la performance e l’esposizione alla prima edizione di I linguaggi della Sperimentazione,
contest artistico-culturale ideato e curato da Carmen De Stasio e promosso dal
Lions Club di Brindisi nel 2014.
All’insegna di «Scritture, Esposizione, Immagini,
Video, Suoni e Make-Up Art», l’happening è occasione per rigenerare e potenziare
nella suggestiva cornice di Bastioni San Giacomo la mise en scène di successo
di pubblico e critica alla XXII Edizione della Città del Libro a Campi Salentina. Vitaldo Conte, infatti, autore di
Arte Ultima e Antico Futuro, vedrà al suo fianco il consolidato team artistico-culturale
già presente presso la Città del Libro: Carmen
De Stasio, studiosa del linguaggi artistico-letterari contemporanei,
saggista e critico, nonché Co-Direttore Artistico Ass. Cult. Porta d’Oriente; Gioacchino Palma, Docente del Conservatorio Tito Schipa di Lecce, Musicologo e Direttore Artistico del Festival
Bande a Sud, diventato negli ultimi
anni appuntamento fisso per conoscere il folklore musicale del Salento; Cosimo Valzano, studioso e Componente del Consorzio Valle della Cupa che riunisce i Comuni del Nord Salento. Per finire,
l’Artista Tiziana Pertoso, la quale darà vita a performance di
Make-Up Chance – con Ilaria e
coordinerà l’intervento musicale-rumoristico della White Noise Band da lei diretta e formata dai ragazzi della Scuola Sec.
I.C. ‘P. Impastato’ Polo 1 di Veglie.
Introdurrà l’evento Antonia Acri,
Artista e Presidente dell’Associazione Culturale Porta d’Oriente.
giovedì 15 marzo 2018
Ernesto Maria Ponte e Clelia Cucco al Teatro Agricantus di Palermo
Amici e guardati recita un vecchio detto palermitano
che invita a cautelarsi proprio dalle persone più care. Dall’amicizia all’amore
il passo è breve e spesso ci si trova a doversi difendere proprio dalla persona
che amiamo e con la quale abbiamo deciso di trascorrere tutta la vita. E quando
abbiamo promesso a noi stessi di non ricaderci mai più, ecco che ci innamoriamo
di nuovo, magari di una persona che alla fine avrà gli stessi identici difetti
della precedente. Un monologo in cui Ponte analizza gli amori che si incontrano
nella vita da quelli giovanili a quelli maturi che come denominatore comune
hanno l’incoscienza e la voglia di vivere. L’amore osservato da diversi punti
di vista su cui primeggia quello comico.
mercoledì 21 febbraio 2018
lunedì 19 febbraio 2018
Presentazione del volume di Cristina Battocletti, "Bobi Bazlen. L'ombra di Trieste", venerdì 23 Febbraio al Museo Internazionale delle Marionette di Palermo
Grazie a lettere, documenti mai visti e nuove testimonianze Cristina Battocletti compone un ritratto inedito del fondatore di Adelphi, Bobi Bazlen, partendo da Trieste, dove è nato nel 1902: la scoperta di Svevo, di Kafka e Musil, il carteggio inedito con Pier Antonio Quarantotti Gambini, i retroscena del legame reciso con il poeta Umberto Saba e la figlia Linuccia. L'ombra lunga di una città, che ha lasciato un segno indelebile nell’uomo che ha cambiato il volto della cultura europea del '900.
"Bobi
Bazlen è
un nome astruso, sconosciuto ai più, e pur con quel cognome poco italiano
è stato uno degli uomini che maggiormente hanno influenzato la cultura
del nostro paese nel dopoguerra. Sfuggente, misterioso, è
rimasto un’icona nell’ombra” così inizia la ricognizione di una delle
figure che hanno dato avvio al Novecento, fondatore assieme a Luciano Foà di
Adelphi, consulente di Einaudi e delle più importanti case editrici
italiane.
Cristina
Battocletti, grazie
all’accesso a centinaia di documenti inediti e privati, racconta
come Bobi Bazlen (Trieste
1902 - Milano 1965) sia all’origine della scoperta di Italo Svevo e della
pubblicazione di molta letteratura mitteleuropea fino ad allora sconosciuta,
tra cui Franz Kafka e Robert Musil. Capace di leggere indifferentemente in
tedesco, italiano, inglese e francese indovinava il valore dei libri in base al
fatto che avessero “il suono giusto”. Affascinato da oroscopi e mappe
astrologiche, aveva una cultura vastissima che si spingeva fino
all’antropologia e all’arte primitiva. Di madre ebrea e padre cristiano
evangelico, da adulto abbracciò il taoismo e le filosofie orientali.
Imprendibile, misterioso, bizzarro anche nel vestiario, è rimasto sempre
nell’ombra. Chi era dunque, Roberto, Bobi, Bazlen? Perché ha lasciato fantasmi
irrisolti? Perché era amato da tanti, come la poetessa Amelia Rosselli, e
avversato da altri, come il regista Pier Paolo Pasolini e lo scrittore Alberto
Moravia? Una vita piena di passioni, amicizie profonde e frequentazioni di
intellettuali come Elsa Morante, sofferenze, sullo sfondo della grande storia
del Novecento. Dalle mattinate passate nella bottega di Umberto Saba al dialogo
ininterrotto con Eugenio Montale, alle correzioni alle poesie del Nobel Eugenio
Montale, all’avventura della psicoanalisi, con Edoardo Weiss e Ernst Bernhard,
di cui fu uno dei primi pazienti. Questo libro racconta un Bazlen inedito,
partendo da Trieste che lasciò a 32 anni senza farvi (forse) più ritorno.
Cristina
Battocletti,
nata a Udine, è vice responsabile della “Domenica” del Sole 24 Ore. Critica
cinematografica, ha pubblicato il suo primo testo, selezionato al Grinzane
Cavour, nei "Racconti del sabato sera" (Einaudi, 1995). Ha
scritto a quattro mani la biografia di Boris Pahor, "Figlio di nessuno"
(Rizzoli, 2012), Premio Manzoni come miglior romanzo storico. Nel 2015 ha
pubblicato il romanzo "La mantella del diavolo" (Bompiani), che ha
vinto il Premio Latisana per Il Nord Est ed è stato finalista ai Premi Bergamo,
Rapallo e Asti.
domenica 18 febbraio 2018
Baron Corvo e la solitudine del granchio: un’introduzione a “Nicholas Crabbe”
di Luca Fumagalli
Nel 1908, partendo per Venezia, lo scrittore inglese Frederick Rolfe “Baron Corvo” (1860-1913) tralasciò di mettere in valigia la bozza di Nicholas Crabbe – sottotitolato The One and the Many – un romanzo che aveva scritto nei duri anni londinesi, tra il 1900 e il 1904, e su cui nessun editore aveva voluto scommettere. Ispirato alla vita dell’autore e giudicato diffamatorio per i palesi riferimenti a illustri personaggi dell’epoca, venne pubblicato solamente nel 1958 dalla Chatto & Windus, quando ormai non vi era più pericolo di ledere l’onorabilità di nessuno.
Il libro racconta la storia di Nicholas Crabbe, uno scrittore che, con qualche soldo in tasca, si lancia alla conquista della fama letteraria nella Londra dei primi anni del XX secolo. Le sue aspettative vengono però frustrate dall’incontro/scontro con un mondo viscido, fatto di promesse, pacche sulle spalle e puntuali delusioni: «Non c’è verità, onore o giustizia da nessuna parte nella Londra della letteratura». Gli editori Harland (Sydney Thorah), Lane (Slim Schelm), Richards (Doron Oldcastle) e Temple Scott (Church Welbeck) sono gli ideali antagonisti di un uomo in lotta per la sopravvivenza, costretto a dar fondo ai risparmi per non morire di fame. Una tenue speranza ritorna a illuminare le sue giornate quando Crabbe incontra il giovane Robert Fulgensius Kemp, uno spirito solitario e sofferente, che egli accoglie come coinquilino in casa sua. Scrivono insieme racconti e articoli, ma la loro collaborazione, iniziata sotto i migliori auspici, fallisce miseramente nel giro di poche settimane. Abbandonato dall’amico, che tradisce il proprio benefattore, Crabbe rimane, citando il cardinal Newman, «solo e nudo – tutto solo con La Solitudine».
Nicholas Crabbe, il romanzo del disappunto di un uomo, ripercorre con precisione diaristica i momenti più importanti vissuti da Rolfe tra il 1899 e il 1903. I nomi vengono alterati deliberatamente, non senza una punta di malizia, avvolgendo di compiaciuta allegoria le travagliate vicende legate alla pubblicazione di lavori come In His Own Image e Cronache di casa Borgia. Né mancano di comparire, tra gli altri, il pittore Trevor Haddon (The Painter), l’agente Stanhope Sprigge (Vere Perkins) e l’ex sodale Sholto Douglas, ispiratore di Kemp.
Il lavoro di rielaborazione del narratore, che nella finzione utilizza le carte lasciategli da Crabbe, un amico di Rose (protagonista di Adriano VII), è minimo, tanto che il racconto reca ancora nella sua impostazione tracce della sua derivazione da un racconto-diario-testimonianza». La trama acquista forma drammatica senza che venga alterato alcunché, non rendendo necessario intervenire su quelle parti evidentemente disarmoniche e sproporzionate (come il settimo capitolo, costituito interamente da una breve citazione di Carlyle). Inoltre non mancano lettere veramente scritte e inviate da Corvo a conoscentie collaboratori, riproposte nel libro in chiave fittizia.
Il nome del protagonista deriva da quello del nonno paterno di Rolfe, mentre il cognome dal suo segno astrologico, il Cancro. Crabbe è esso stesso metafora del granchio eremita: il carapace esterno, duro come il diamante, cela un interno tenero, facilmente urtabile. Sebbene Crabbe vanti diversi punti in comune con Baron Corvo e sia più autobiografico rispetto al Rose di Adriano VII, compresi talenti ed eccentricità, non può tuttavia essergli perfettamente sovrapposto. Negli altri romanzi in cui appare, The Weird of the Wanderer e Il desiderio e la ricerca del tutto, Crabbe muta ogni volta personalità, una distanza che va a sommarsi ad altri particolari come la quasi totale assenza in Nicholas Crabbe di riferimenti alla religione, una componente imprescindibile nella vita di Rolfe.
Per di più Crabbe è un debole, un anti-eroe maledettamente moderno, incapace di venire a patti con la propria inconsistenza. Il suo idealismo romantico, retaggio di un passato in cui la cavalleria contava ancora qualcosa, lo rende incapace di incontrare le esigenze di un mondo che è prono alla logica del profitto. Non sa cambiare, non sa adeguarsi alle circostanze; come il granchio è ancorato alle sue fragili convinzioni, disposto a soffrire stoicamente pur di non rinunciare a un immutabile se stesso. Il rifiuto di ogni azione e il mutismo sono manifestazioni esplicite di chi, al di là delle apparenze, avverte un senso di inferiorità e spera di trovare rifugio nella misantropia. Il bohemiendecadente perde ogni velleità titanica per trasformarsi nell’inetto della letteratura modernista: «Vivere, come faceva, interamente in se stesso e nel passato, gli dava una vetusta abitudine mentale. Di conseguenza le sue progressioni erano sempre laterali e in qualche modo lente».
In questo vortice distruttivo, che non risparmia niente e nessuno, anche l’ “amico divino”, l’incontro provvidenziale «che era musica per la mente e l’anima», si svela vile e crudele come quel mondo da cui aveva promesso di difendere il protagonista. Se Rose è lo spirito libero e trionfante che celebra in Adriano VII la sua vittoria, Crabbe è la carne martoriata e imprigionata che lamenta il fallimento totale. Il sogno paranoico di rivalsa si trasforma qui in un incubo di reiterata sconfitta, nelle agonie di uno scrittore che fallisce sia nella ricerca del successo che in quella dell’amicizia.
Pur volendo rappresentare un racconto, un rifiuto del sensazionale e del melodrammatico, talora un tentativo di umile autocritica – «Ti ricordi cosa disse una volta George Arthur Rose riguardo al mio sapere? Sa tutto quello che si deve sapere su un pugno di cose astruse e inutili, e niente di tutto il resto» – nel finale, in cui si sottintende un parallelo con la passione di Cristo, Nicholas Crabbe vi scivola irreparabilmente, perdendo di credibilità.
A risollevare le sorti del romanzo, meno compatto rispetto ad Adriano VII proprio per il suo tentativo di distaccarsi dalla favola del riscatto e del trionfo, rimangono le deformazioni dei personaggi, storpiati come i loro nomi, immersi in un’atmosfera proustiana e condannati a gesti vuoti e ripetitivi. Le pagine sono pervase da un’amara ironia che si associa, il più delle volte, a scelte linguistiche nonsense e all’impiego di mezzi espressivi alternativi quali, per esempio, l’uso del corsivo (che anticipa Firbank e Waugh).
Comparare il romanzo a New Grub Street di George Gissing o a testi che raccontano una storia simile con maggiore potenza sarebbe dunque un grave errore. Nulla toglie al fascino tutto rolfiano della storia, il canto del cigno di uno scrittore incompreso giunto ormai all’autunno della vita.
sabato 17 febbraio 2018
Il fascino di Thomas More secondo R. H. Benson
citazioni a cura di Luca Fumagalli
«E che cosa pensate voi della Holy Maid?»[1] chiese Ralph puntando risolutamente al nocciolo dell’inchiesta. Sir More s’arrestò, piegò un tantino il capo da un lato come un cane intelligente e guardò il suo compagno con occhi scintillanti.
«È un argomento delicato», disse, e riprese a passeggiare.
«Questo è ciò che mi rende perplesso», ribatté Ralph. «Non vorreste manifestarmi la vostra opinione, Sir More?» Ci fu di nuovo silenzio, mentre raggiungevano il limite estremo della galleria e si voltavano di nuovo.
«Se non mi aveste risposto con tanta vivacità e audacia a pranzo, Sir Torridon, non avrei potuto fare a meno di ritenere come sospetta questa vostra visita. Ma una testa così valente non può essere alleata di un cuore perverso, e vi dirò ciò che penso». Ralph provò una sensazione di trionfo, e nessuna di rimorso.
«Ve lo dirò», continuò More, «ma sono sicuro che manterrete il segreto. Io credo che sia una buona donna, soggiogata dalle proprie fantasticherie». A Ralph vennero di nuovo meno le forze. Questa risposta non era affatto compromettente.
«Non dico che sia una fattucchiera, come pensano taluni, ma, riferendomi a quello che abbiamo detto or ora, credo che abbia un occhio largo e luminoso senza una mano proporzionata. Essa ha molte visioni ma pochi fatti. Quella storia dell’ostia che le fu portata da Calais dagli angeli per me è una sciocchezza. Dio onnipotente non compie dei miracoli senza motivo e per questo non ne ha nessuno. Il Santissimo Sacramento è lo stesso a Dover come a Calais. E una donna che può sognare quello, può sognare qualsiasi cosa, poiché son sicuro che essa non lo ha inventato. Perciò anche in altre cose può sognare ed è per questo che vi ripeto che è meglio che non pensiate a lei nei riguardi di vostro fratello. Essa non è né una profetessa né una pitonessa». La risposta era quanto mai insoddisfacente e Ralph cercò di rimediare.
«E circa la morte del re, Sir More?»
Questi si arrestò di nuovo.
«Sentite, Sir Torridon, credo che sia meglio lasciare da parte questo argomento», disse un po’ seccato. Ralph, accorgendosi della propria temerità, ritirò il labbro inferiore mordendoselo fortemente.
«Spero che vostro fratello sarà molto felice», proseguì l’altro dopo un momento; «anzi, sono sicuro che lo sarà, se la chiamata viene da Dio, come propendo a credere. Anch’io, come sapete, sono stato per quattro anni in un chiostro e qualche volta mi pare che avrei dovuto rimanervi. È una vita beata. Io non invidio molta gente ma invidio costoro. Vivere con l’ininterrotta compagnia di nostro Signore e dei santi, conoscere i Suoi segreti – secreta Domini – anche i segreti della Sua passione e le ineffabili gioie che scaturiscono dal suo dolore, è una sorte fortunata, Sir Torridon. Talvolta penso che come è per il corpo naturale di Cristo, sia pure per il suo corpo mistico: che ci siano delle membra, le Sue mani, i Suoi piedi e il Suo fianco, in cui siano inflitti i chiodi, quantunque non ci sia una parte sana in tutto il corpo, inglorius erit inter viros aspectus eius, nos putavimus eum quasi leprosum[2], ma che quelle parti del Suo corpo che soffrono di più siano pel fatto stesso più onorate e più felici delle altre. Chi se non i monaci, possono essere quelle felici membra?»
Parlava con molta solennità, con voce leggermente tremula e i benevoli occhi rivolti in basso; Ralph lo osservava da un lato con una certa meraviglia mista a pietà. L’aspetto di Sir More era così naturale che Ralph credette di aver valutato troppo la propria temerità.
«E che cosa pensate voi della Holy Maid?»[1] chiese Ralph puntando risolutamente al nocciolo dell’inchiesta. Sir More s’arrestò, piegò un tantino il capo da un lato come un cane intelligente e guardò il suo compagno con occhi scintillanti.
«È un argomento delicato», disse, e riprese a passeggiare.
«Questo è ciò che mi rende perplesso», ribatté Ralph. «Non vorreste manifestarmi la vostra opinione, Sir More?» Ci fu di nuovo silenzio, mentre raggiungevano il limite estremo della galleria e si voltavano di nuovo.
«Se non mi aveste risposto con tanta vivacità e audacia a pranzo, Sir Torridon, non avrei potuto fare a meno di ritenere come sospetta questa vostra visita. Ma una testa così valente non può essere alleata di un cuore perverso, e vi dirò ciò che penso». Ralph provò una sensazione di trionfo, e nessuna di rimorso.
«Ve lo dirò», continuò More, «ma sono sicuro che manterrete il segreto. Io credo che sia una buona donna, soggiogata dalle proprie fantasticherie». A Ralph vennero di nuovo meno le forze. Questa risposta non era affatto compromettente.
«Non dico che sia una fattucchiera, come pensano taluni, ma, riferendomi a quello che abbiamo detto or ora, credo che abbia un occhio largo e luminoso senza una mano proporzionata. Essa ha molte visioni ma pochi fatti. Quella storia dell’ostia che le fu portata da Calais dagli angeli per me è una sciocchezza. Dio onnipotente non compie dei miracoli senza motivo e per questo non ne ha nessuno. Il Santissimo Sacramento è lo stesso a Dover come a Calais. E una donna che può sognare quello, può sognare qualsiasi cosa, poiché son sicuro che essa non lo ha inventato. Perciò anche in altre cose può sognare ed è per questo che vi ripeto che è meglio che non pensiate a lei nei riguardi di vostro fratello. Essa non è né una profetessa né una pitonessa». La risposta era quanto mai insoddisfacente e Ralph cercò di rimediare.
«E circa la morte del re, Sir More?»
Questi si arrestò di nuovo.
«Sentite, Sir Torridon, credo che sia meglio lasciare da parte questo argomento», disse un po’ seccato. Ralph, accorgendosi della propria temerità, ritirò il labbro inferiore mordendoselo fortemente.
«Spero che vostro fratello sarà molto felice», proseguì l’altro dopo un momento; «anzi, sono sicuro che lo sarà, se la chiamata viene da Dio, come propendo a credere. Anch’io, come sapete, sono stato per quattro anni in un chiostro e qualche volta mi pare che avrei dovuto rimanervi. È una vita beata. Io non invidio molta gente ma invidio costoro. Vivere con l’ininterrotta compagnia di nostro Signore e dei santi, conoscere i Suoi segreti – secreta Domini – anche i segreti della Sua passione e le ineffabili gioie che scaturiscono dal suo dolore, è una sorte fortunata, Sir Torridon. Talvolta penso che come è per il corpo naturale di Cristo, sia pure per il suo corpo mistico: che ci siano delle membra, le Sue mani, i Suoi piedi e il Suo fianco, in cui siano inflitti i chiodi, quantunque non ci sia una parte sana in tutto il corpo, inglorius erit inter viros aspectus eius, nos putavimus eum quasi leprosum[2], ma che quelle parti del Suo corpo che soffrono di più siano pel fatto stesso più onorate e più felici delle altre. Chi se non i monaci, possono essere quelle felici membra?»
Parlava con molta solennità, con voce leggermente tremula e i benevoli occhi rivolti in basso; Ralph lo osservava da un lato con una certa meraviglia mista a pietà. L’aspetto di Sir More era così naturale che Ralph credette di aver valutato troppo la propria temerità.
giovedì 15 febbraio 2018
mercoledì 14 febbraio 2018
giovedì 8 febbraio 2018
martedì 23 gennaio 2018
Il FiuggiStoria sbarca in Sicilia. Premiato Carmelo Fucarino
A Carmelo Fucarino, delegato per la Sicilia della Fondazione Levi Pelloni, e al suo libro “ Il Genio Palermo. Vita, morte e miracoli di un Dio”, il riconoscimento la 'Menorah di Anticoli' nell'ambito della VIII edizione del Premio Fiuggi Storia. La cerimonia, che si terrà a Roma, martedì 23 gennaio, presso la Pontificia Università Antonianum (Via Merulana, 124), avrà tra gli altri ospiti Piero Angela, Mauro Canali, Corrado Stajano, Silvia Cavicchioli, Adam Smulevich, Eliane Patriarca, Roberto Mario Cuello, Silvana Cirillo e l'inviata de “La Stampa” Francesca Paci. Un riconoscimento verrà assegnato anche allo Stato Maggiore dell'Esercito per i quattro calendari (2015, 2016, 2017, 2018) dedicati alla Grande Guerra.
giovedì 18 gennaio 2018
L’angolo di Gilbert K. Chesterton – Grandezza e attualità di uno scrittore cattolico
di Fabio Trevisan
Nel saggio letterario su Robert Browning (1812-1889) del 1903, Chesterton sin dal primo capitolo perorava l’età medioevale quale baluardo della ragione contro il razionalismo moderno (che rappresentava la decadenza ideologica della logica), come rinveniva in particolare nel Paracelsus di Browning: “Nel personaggio di Paracelso, Browning desiderava raffigurare i pericoli e le delusioni che attendono l’uomo che crede solo nell’intelletto. Desiderava illustrare la caduta del logico”.
Credo che sia abbastanza semplice collegare questo pensiero a ciò che Chesterton esprimerà successivamente e paradossalmente in Ortodossia del 1908: “Il pazzo non è colui che ha perso la ragione ma quello che ha perso tutto, tranne la ragione”. Uno dei bersagli favoriti di Chesterton era infatti la “testa” del logico, del razionalista, tanto che il personaggio di Innocent Smith nel romanzo Uomovivo era raffigurato appunto con una testa piccola e sproporzionata rispetto al resto del corpo. Il bersaglio era quindi il razionalismo dell’età moderna e la salvaguardia della logica medioevale: “La tradizione del Medioevo è il periodo più interamente e perfino dolorosamente logico che il mondo abbia mai conosciuto”. Chesterton, anche nei saggi letterari, continuava a porre a confronto la tradizione medioevale all’età moderna e desiderava difendere la logica dalle accuse ingiuste e ingiustificate: “La vita moderna accusa la tradizione medioevale di stritolare l’intelletto; Browning accusa quella tradizione di glorificarlo oltre misura”. Inutile dire da quale parte stesse Chesterton in quella disputa “intellettuale”.
Alcuni appassionati chestertoniani ritengono, come il sottoscritto, che i saggi letterari di Chesterton su Dickens, Blake, Browning, Chaucer, Shakespeare e altri costituiscono le opere più significative, più profonde del grande scrittore inglese. Chesterton infatti non era soltanto un avido lettore (in alcune biografie su di lui si parla che avesse letto più di 10.000 libri) ma un cultore fine di letteratura, che amava approfondire tutte le questioni più controverse nell’interpretazione delle poesie e dell’intera opera di ogni singolo autore che trattava. Si scontrava spesso con opinioni parziali e riduttive che osteggiava con la sua competenza, diremmo oggi, “professionale”. Partiva sempre da ciò che pensavano gli altri, dimostrandone le lacune e presentando un suo concetto di insieme che sovente sbalordiva e induceva alla riflessione e alla ponderatezza, come nel caso dell’interpretazione di Browning: “L’intera nostra opinione su Browning è destinata ad essere del tutto differente, e io ritengo del tutto falsa, se partiamo dall’idea che egli fosse ciò che i francesi chiamano “un intellettuale”…la sua concezione di sé non fu mai quella dell’intellettuale. Piuttosto si considerava un gagliardo e tenace combattente”.
Tenendo ferme le categorie di “intellettuale” (della modernità) e di “combattente” (della tradizione medioevale) è deducibile da quale parte stessero Browning e Chesterton. Chesterton vedeva e amava in Browning tutta quella poesia del quotidiano che lo avrebbe ispirato nella realizzazione di alcune sue opere di quel periodo di inizio ‘900, come ad esempio il saggio “The Defendant” oppure “Il Club dei mestieri stravaganti”: L’immaginario di questi poemi consiste, se ci è consentito gettare un rapido sguardo alla poesia d’amore di Browning, di strade suburbane, pagliette, rastrelli da giardino, bottiglie di medicinali, pianoforti, persiane, turaccioli bruciati, pellicce alla moda. Ma con questo metodo nuovo egli espresse pienamente il vero essenziale…la poesia d’amore di Browning è la più squisita poesia d’amore del mondo”. Robert Browning riportava quindi Chesterton a quell’Eden da cui Adamo ed Eva erano stati scacciati, alla constatazione della caduta del peccato originale e a quella santa nostalgia del pellegrino cristiano che venne descritta nelle Avventure di un uomo vivo.
Quella “tradizione della Caduta” (così ben rimarcata in Ortodossia) si innestava nella tradizione medioevale a tal punto da rinvenire nell’Eden del Medioevo un giardino, dove ognuno dei fiori di Dio – verità e bellezza e ragione – fioriva e ognuno aveva il proprio nome.
Matematici e scienziati uniti dalla fede
di Domenico Bonvegna
In una incisione del XVII
secolo, viene raffigurato Galileo Galilei in una tetra prigione cui era stato
condannato dal papa per aver scritto che la terra gira attorno al sole. E' un
falso, perché Galileo non trascorse neppure un solo giorno in prigione.
L'incisione farsa è pubblicata nel libro,“False testimonianze”, dal
significativo sottotitolo:“Come smascherare alcuni secoli di storia
anticattolica”, di Rodney Stark, sociologo delle religioni, pubblicato
dalla casa editrice Lindau di Torino (2016).
Nel settimo capitolo,“Eresie
scientifiche”, Stark sostiene che la stragrande maggioranza degli esponenti
della cosiddetta “Rivoluzione scientifica” erano dei credenti, cristiani
e perfino preti della Chiesa cattolica. Ne ha catalogato ben 52, tra questi
luminari, solo uno era scettico, “ateo”. Per quanto riguarda Galileo, finì nei
guai non per la sua scienza (l'Inquisizione spagnola non proibì mai i suoi
libri), ma per la sua doppiezza.
Stark nel testo dimostra che
il Medioevo, non era il tempo dei“secoli bui”, anzi in quei secoli è
nata la scienza, soprattutto si studiava la filosofia naturale. La maggior
parte dei teologi, insegnava anche filosofia naturale, al contrario dei Paesi
islamici. Inoltre le università, nate nel Medioevo, gli scolastici studiavano
la fisiologia umana, in particolare, la dissezione umana. La rivoluzione
scientifica è il prodotto dei secoli precedenti. Infatti,“i grandi successi
del XVI e del XVII secolo furono il frutto di un gruppo di studiosi di grande
religiosità, che appartenevano a università cristiane, e le cui brillanti
conquiste si basavano sull'inestimabile retaggio di secoli di brillante
erudizione scolastica”.
Peraltro lo stesso Isac
Newton, che viene considerato un grande esponente di quella rivoluzione,
era assolutamente serio quando pronunciò la frase: “Se ho visto più
lontano è perché stavo sulle spalle di giganti”. E di quei “giganti”,
l'opera di Stark ne elenca alcuni.
Sono studiosi scolastici,
scienziati, vissuti proprio nel medioevo come Roberto Grossatesta (1168-1253),
vescovo di Lincoln, la più grande diocesi inglese. Fu quello che ha inventato
il metodo scientifico. Un altro è Alberto Magno (1200-1280) un
gigante della teologia, autore di 38 libri. Ruggero Bacone (1214-1294),
francescano, indicato come “il primo scienziato”, scrisse l'Opus Maius,
un testo stupefacente che arriva a 1.996 pagine. Una “vera e propria
enciclopedia che copre tutti gli aspetti della scienza naturale”. In
quest'opera per Stark c'erano importanti previsioni su future invenzioni quali
microscopio, telescopio e macchine volanti. Un altro studioso è Guglielmo di
Ockham (1285-1347), anche lui dell'ordine francescano, e poi altri fino a Nicolò
Copernico (1473-1543). Certamente si tratta di un lungo cammino di studiosi
che non erano laicisti ribelli.“Non solo si trattava di buoni cristiani, ma
tutti erano preti o monaci, se non addirittura vescovi e cardinali”.
Sullo stesso tema, l'anno
scorso è stato pubblicato un libro, “Il misticismo dei matematici. Da Pitagora
al computer”, edito da Cantagalli (2017), l'autore è Francesco
Agnoli, docente e scrittore, collabora con quotidiani nazionali, autore
di diversi e e interessanti libri. Il testo mette insieme diversi studiosi di
matematica tra i più importanti del mondo occidentale.“I numeri, a quanto
pare, dimostrano la presenza del divino nel mondo”.
Agnoli, con il suo notevole
stile divulgativo, in soli 140 pagine, ha costruito una piccola enciclopedia
sintetica, fatta di brevi ed efficaci schede sulla vita e il pensiero di alcuni
immensi scienziati e logici europei, specialmente versati nelle matematiche, ma
che hanno ragionato anche di mistica. Il saggio mostra quanto costoro, non
furono in nulla atei, laicisti alla Odifreddi o chiusi alla trascendenza e al divino.
Anzi il giornalista riscontra un fattore comune in questi scienziati: si
caratterizzavano per il loro continuo
anelito a conoscere il Creatore.
Sostanzialmente,studiando le leggi di
natura, costoro compresero che vi era un Dio creatore, che creò il mondo
secondo leggi e formule matematiche. Ci furono matematici, come Pascal, che
credettero così al Dio cristiano e altri, come Godel, il noto logico del XX
secolo, in un’Entità creatrice, fredda. Praticamente,“guardando ai
numeri, alla fine hanno scoperto l’Eterno”.
Il testo di Agnoli
ristabilisce la verità che non c'è nessuna incompatibilità tra la vera fede e
l'autentica scienza, tra la ragione e la religione, tra vero progresso e amore
per la tradizione.
La matematica inizia con
Pitagora, e “con lui e in lui è strettamente connessa con una particolare
forma di misticismo - ricorda Bertrand Russell - la matematica è, credo,
ciò su cui sostanzialmente poggia la fede in una eterna ed esatta verità[...]”.
Sono in tanti i nomi della scienza, a ribadire sui media il fondamentale
ateismo dei più grandi matematici della storia antica e moderna. Anche noi
siamo indotti a credervi: pensiamo che questi grandi “cervelli” fossero dediti
ai numeri e alla materia, ignorando completamente la spiritualità.
Il libro di Agnoli ribalta
questa prospettiva, svelandoci una verità “scomoda”. Di più, da Keplero a
Cartesio, da Pascal a Leibniz, da Cantor a Gödel, i veri mostri sacri del
numero furono dei credenti appassionati e appassionanti, e a volte dei
quasi-mistici, e lo furono proprio in quanto matematici e profondi conoscitori
della realtà fisica-materiale dell’universo.
Agnoli dimostra, proprio
attraverso “il misticismo dei matematici” che la scienza non sta mai
contro la tradizione, l’etica e la religione, e in tal senso Einstein ebbe
ragione nel dichiarare che un tempo verrà in cui gli autentici scienziati
saranno le persone più religiose del mondo. Poiché sapranno che al di là dei
limiti della conoscenza e della non-conoscenza, esiste la certezza di un ordine
trascendente, intuibile da tutti, esauribile da nessuno.
Leggendo la piccola
enciclopedia di Agnoli ci sono alcune curiosità interessanti sui vari
matematici, come quella scoperta da Keplero, sui fiocchi di
neve, che hanno tutti sei punte, mai cinque o sette, tutti diversi, tutti
straordinariamente belli e simmetrici. Altrettanto interessante è poi lo studio
sugli alveari delle api, delle loro celle esagonali. Qualche perplessità
suscita la fede di Cartesio, e il suo “misticismo matematico”. Ma
poi c'è l'altro gigante della filosofia e della scienza che Blase Pascal,
giovanissimo, per aiutare il padre nel calcolo delle imposte, inventa la prima
macchina calcolatrice, la “Pascalina”,il più antico antenato del
computer (per questo è considerato il precursore dell'informatica).
Qualcuno di questi
scienziati, per opera dei giacobini, ha perso la cattedra, causa la sua fedeltà
alla Chiesa cattolica, si tratta di Paolo Ruffini (1765-1822).
C'è posto anche per il più
grande matematico del XX secolo, Alexander Grothendieck, (1928-2014),
dalla vita quasi romanzesca, nasce a Berlino, figlio di Alexander Shapiro
(1890-1942), ebreo russo-ucraino, anarchico-comunista, che ha partecipato ai
moti antizaristi del 1905, in seguito
condannato a morte dai comunisti bolscevichi e poi ucciso ad Aschwitz
nel 1942.
Alla fine dell'introduzione
del libro, si chiede Agnoli: che cos'è la matematica? La matematica “promuove
le facoltà sia intuitive che logiche”, sviluppa “attitudini sia
analitiche che sintetiche” e determina “abitudine alla sobrietà,
precisione del linguaggio” e “gusto per la ricerca della verità”.
mercoledì 17 gennaio 2018
Chi ha il coraggio di fare la rivoluzione o la controrivoluzione nella scuola
di Domenico Bonvegna
Probabilmente il tema dell'emergenza
educativa è tra quelli più discussi, ma questo non è bastato a far prendere
quei necessari provvedimenti nella scuola e nella società tutta. In queste
vacanze natalizie ho letto un testo che si occupa proprio della scuola,
dell'educazione, dell'insegnamento, della difficile professione
dell'insegnante, dei genitori, delle famiglie. Il titolo del saggio: “Emergenza
Educazione. Una sfida per docenti, famiglie e mondo politico,
analisi e proposte”, di Roberto Pasolini, con prefazioni di
Rocco Buttiglione e Onorato Grassi, edito da Associazione Thomas More di
Milano. (2010). Successivamente pubblicato da Elledici.
Il professore Pasolini, è
uno dei protagonisti della scuola milanese e nazionale, si prodiga con pazienza
educativa, a sviscerare, uno per volta, gli aspetti, grandi e piccoli, delle
vicende scolastiche, offrendo, per ciascuno di essi, acute e pertinenti
analisi, che certamente il lettore apprezzerà. Il prof propone un testo agile
elaborato attraverso la forma dell'intervista predisposta da Luigi Meani, uno
strumento utile per le argomentazioni esposte nei cinque capitoli. Un testo
dedicato soprattutto a coloro che vivono l'educazione come vocazione e impegno.
Il lettore, sia esso insegnante, genitore, allievo o semplice cittadino,
troverà non poche informazioni e riflessioni su un mondo che bene o male ha
spesso a che fare. Pertanto, riflettere sul tema dell'educazione oggi è
necessario, perché “nell'educare si gioca il presente, ma sopratutto si
gioca l'avvenire dei figli e delle generazioni future”, scrive Pasolini
nell'introduzione.
Ripercorriamo brevemente
alcune risposte del professore alle domande poste da Meani. Le riflessioni anche
se fatte qualche anno fa, e magari già sentite o lette in altri contesti, sono
utili per affrontare l'annosa e spinosa questione educativa.
Nel 1° capitolo “Educazione
e Scuola”, si affronta il problema internet e come responsabilizzare i
ragazzi al suo uso corretto. Questioni aperte di non facile soluzione. Alla“scuola
di massa”, alla “scuola gregge”, che abbassa il livello di studio,
d'impegno e di conoscenza, il professore lombardo, indica la strada che porta a
eliminare“la massificazione degli approfondimenti, puntare sulla
diversificazione e sulla valorizzazione come vero stimolo ad un apprendimento
capace di creare aspettative. L'utopia del 'tutto uguali' è solo foriera di
mortificazioni [...]”. Per Pasolini, bisogna dare “a tutti le
indispensabili conoscenze di base, è doveroso puntare sulla personalizzazione e
sul progresso negli studi sulla base del merito per dare il giusto stimolo ai
capaci e, spesso, far scattare anche qualche effetto fruttuoso di emulazione
negli studenti un po' meno bravi”. Il professore insiste:“bisogna avere
il coraggio culturale di […]rompere il circolo vizioso, utopistico e per certi
versi assurdo, che tutti devono poter lavorare in qualunque posizione
professionale, anche se non ne hanno le capacità”.
L'autore del saggio affronta
il tema del bullismo, della violenza nelle scuole, delle aggressioni, anche
agli insegnanti, degli atti vandalici all'interno delle scuole. Il testo
riporta i dati inquietanti di un'inchiesta fatta sulle scuole di Milano e
provincia, dove risulta che l'81% degli studenti avverte un pesante disagio al
solo pensiero di dover andare a scuola e che il 94,6% del campione dichiara di
essere stressato e l'89,6% di essere annoiato. A fronte di questo ampio tragico
panorama, la scuola deve rispondere, ma non solo lei. Servono “famiglie
capaci di trasmettere e testimoniare valori, politici più credibili ed
affidabili [...]”. Sostanzialmente oggi “i giovani non hanno più riferimenti, mancano gli esempi di persone
autorevoli”. Certo la scuola può fare molto, per dare credibilità alla sua
funzione, per farla ritornare a quel “luogo di incontri che non si
dimenticheranno per tutta la vita”.
Pasolini propone “veri
maestri”, a questo proposito, fa riferimento ad un articolo della
giornalista Isabella Bossi Fedrigotti: “I nostri figli senza maestri”.
La giornalista critica gli errori degli adulti ridotti a proporre come ideali
forti, la squadra di calcio, il finire in Tv o un certo tipo di abbigliamento.“Poveri
ragazzi, viene da dire, però è questo il piatto che abbiamo preparato per loro,
gli esempi che abbiamo fornito, i modelli che abbiamo fabbricato. Ed è un
serpente che si morde la coda perché se famiglia, scuola e istituzioni
varie oggi si rivelano così deboli, così inascoltate e incapaci di educare è
anche perchè per prime sembrano aver smarrito nel tempo le ragioni forti del
loro essere. I maestri, insomma, i tanto invocati maestri grandemente
scarseggiano perché non credono più al loro magistero”.
Nel 2° capitolo, “Educazione
e insegnanti”, si entra nel merito della didattica scolastica, del
ruolo dell'insegnante. Il maestro dovrebbe trasmettere agli studenti la
passione ad apprendere e ad approfondire la disciplina che insegna. Bisogna
combattere,“il graduale appiattimento della classe docente da professionale
a classe impiegatizia, mal retribuita, che ha generato un contesto lavorativo
privo di stimoli, pieno di demotivazione, oppresso dalla burocrazia, nel quale
la sindacalizzazione profonda ha avuto buon gioco, una sindacalizzazione
incapace di leggere la reale necessità professionale dei docenti di mettere in
atto le giuste strategie e che si limita alla garanzia del posto[...]”.
Tuttavia per l'esperto
professore bisogna“valorizzare la professionalità docente, ridarle lo status
sociale di primo piano, rimotivare il lavoro dei docenti è indispensabile per
ridare slancio a tutto il sistema, per ridare l'entusiasmo di apprendere ai
nostri giorni[...] Abbiamo bisogno di ritrovare docenti appassionati e, quindi,
capaci di trasmettere interesse ai giovani e far loro scoprire il valore della
cultura”. E' evidente che il riconoscimento economico diventa importante se
non fondamentale per il docente. Anche se prima forse occorre dare dignità
professionale agli insegnanti, e qui Pasolini, ricorda i tempi quando il maestro,
al pari del maresciallo dei carabinieri, del medico condotto, del parroco,
erano i “pilastri” del territorio.
Nel capitolo si auspica una
vera e propria rivoluzione culturale:“occorre ritornare a
valorizzare l'eccellenza. Occorre innalzare i livelli medi di apprendimento.
Occorre che in ogni scuola possano formarsi gruppi di studenti eccellenti che
abbiano loro per primi la passione, di apprendere [...]”. Per il
professore, è auspicabile,“rompere il meccanismo dell'egualitarimo,
frantumare la convinzione ideologica che giustizia sociale significhi stesso
livello culturale per tutti”.
Pasolini affronta la
questione del metodo educativo, come “interessare” lo studente
allo studio delle discipline. Se gli studenti non rendono, la colpa è dei
docenti che non li sanno interessare, è il solito slogan ripetuto dalle
famiglie, con lo scopo di difendere i propri figli. Naturalmente il professore
è consapevole che tra gli studenti esistono disagi e difficoltà oggettive,
originate dalla mancanza di “autostima”, di non volersi mettere
in gioco, dalla paura della sconfitta.
A queste mancanze si
dovrebbe intervenire con la didattica
personalizzata, abbinata ad un rapporto personale capace di creare fiducia e
soprattutto far capire allo studente che si ha fiducia in lui e nelle sue
capacità di raggiungere obiettivi come tutti.
In “Educazione e
Famiglia”, si affronta l'influenza della famiglia sull'educazione dei
ragazzi.
Qui l'autore fa riferimento
ai continui richiami del Magistero della Chiesa, in particolare a Benedetto
XVI. I ragazzi di oggi sono figli, nipoti di quella generazione del 68, di
quella cultura, espressa nel festival di Woodstock, che ha vissuto il forte
tentativo di distruggere i valori che per secoli sono stati il punto di
riferimento dell'educazione di tante generazioni. Lo storico Renzo De
Felice ripeteva spesso che “i danni provocati dal 68' non sarebbero
stati rimarginati in meno di cinquant'anni. Il principale prodotto della
vittoria dell'ugualitarismo sul merito, infatti, è stato un profondo livellamento
verso il basso di studenti e docenti”. Morale: per cambiare la nostra
società, ciò che è immobile, non abbiamo alternative: “Dobbiamo abolire
il 68”.
Quegli anni secondo Pasolini
“hanno avuto un notevole impatto sulla cultura e sui costumi contemporanei e
fatalmente si sono insinuati nel modo di pensare, nel modo di agire, nel modo
di educare, ed hanno provocato l'inevitabile disgregazione sociale derivante
dal non aver neanche cercato di sostituire i valori che si tentava di
distruggere, Dio, Patria e Famiglia, con altri che dessero
al contesto sociale un valore etico e morale di riferimento”.
Pertanto è evidente che non
si può trasferire alla scuola tutta la responsabilità educativa. Il prof
affronta la grave questione della inadeguatezza del ruolo educativo dei
genitori. E' diffuso all'interno delle famiglie il permissivismo, poca
fermezza, c'è un ampio “relativismo etico e morale”, più volte ribadito dal
papa emerito Benedetto XVI.
In “Educazione e
Società”, si affronta la questione del dare un senso all'educare, un
nuovo slancio di passione per educare e soprattutto per lo studio. Per far
riacquistare il gusto del “sapere per il sapere”, il gusto per lo
studio, anche se questa ipotesi, potrebbe essere utopistica nell'attuale
condizione della nostra società.
La scuola di oggi rischia di
perdere il suo ruolo fondativo, lo sosteneva la giornalista Ida Magli: “Tutto
quello che non so, l'ho imparato a scuola”, e affermava
pessimisticamente: “E' passato il tempo, è cambiata la società, è cambiato
il modo di vivere e la scuola è rimasta fuori della storia, fuori dalla realtà.
Tanti ministri di buona volontà si sono succeduti, ognuno con la propria
riforma, ma nessuno ha avuto il coraggio di una RIVOLUZIONE. Per questo il
risultato è stato sempre quello che non poteva non essere: terapie su un
cadavere”.
In questo capitolo Pasolini,
risponde alle domande, forse tra le più significative, fondamentali per la
Scuola, per la società. “Perché i ragazzi di oggi riconoscono sempre meno
il valore dello studio? Lo studio è fatica, fatica nel leggere, fatica nel
comprendere, fatica nel trasferire, fatica nel memorizzare e fatica nel far
sedimentare il sapere dentro di sé. Perché per molti giovani sembra essere
venuta meno questa necessità che impegnarsi attivamente nell'archiviare
conoscenze dentro di sé?”. Potremmo rispondere: “perché ti chiedono a
cosa serve e tu non sai dare una risposta convincente. Occorre motivare ad
apprendere”. Tuttavia non solo lo studio, ma anche la lettura semplice è in
crisi. “Leggere richiede un tempo che nella nostra società non esiste
più”. E' in crisi la lettura dell'approfondimento. Molte colpe sono da
attribuire a internet, a Google, al “copia e incolla”. Anche se bisogna
far comprendere l'utilità,“sia di una gran quantità di informazioni
acquisite in tempo veloce, sia la capacità di lettura, vissuta riga per
riga, pensiero per pensiero che offre il desiderio di conoscere ed
approfondire, 'vivendo' il libro e il suo autore”.
Allora per concludere quali
ipotesi, soluzioni, opportunità, sfide e decisioni si debbono metter in campo
per far sì che l'educazione diventi veramente una priorità per il nostro Paese?
Il testo cerca di rispondere alla domanda. Propone una grande mobilitazione
coinvolgendo docenti, dirigenti scolastici.“Contestualmente sarà
indispensabile avviare un processo di cambiamento che punti a ridare dignità
sociale alla professione docente: selezione d'ingresso per i 'vocati', ed
appassionati, riconoscimento economico in relazione al merito ed alla
professionalità mostrata, valutazione degli esiti, team riconosciuti e
remunerati sui risultati per la ricerca sull'innovazione didattica nelle
scuole, riallineamento delle retribuzioni alla media europea, sono gli
indispensabili obiettivi da porsi”.
Il secondo passo potrebbe essere
il varo di norme coraggiose, anche “estreme” come la chiusura delle
scuole mal gestite che rifiutano lo sforzo dell'innovazione. Assunzione diretta
dei docenti, valorizzazione delle risorse umane, responsabilità della gestione,
rendiconto sulla base dei risultati ottenuti. In pratica secondo il prof
Pasolini bisogna utilizzare certe “pratiche” consolidate nelle
istituzioni paritarie, pratiche che potrebbero essere trasferite anche alla
scuola statale, con tutti i benefici ben immaginabili.
Un altro passo potrebbe
essere quello dell'abolizione del valore legale del titolo di studio,
anche se non è facile, per quella “radicata mentalità del diritto al posto,
legato a scelte di 'graduatoria', in un paese come il nostro governato da una
gerontocrazia con tutte le sue rendite di potere e disposizione, a volte
aiutata da una certa complicità delle famiglie che vogliono, ad ogni costo,
assicurare ai propri figli un diploma dotato di valore legale, ma – ricorda
Pasolini – il sistema deve essere liberato da questo laccio, da questo falso
valore per poter sprigionare potenzialità e motivare dovutamente la
valorizzazione di conoscenze e competenze acquisite”.
Pasolini conclude il suo
saggio allegando un documento “educativo”, si tratta di una lettera del 21
gennaio 2008 del Santo Padre Benedetto XVI alla Diocesi e alla città di Roma
sul compito urgente dell'educazione, motivando la scelta con le seguenti
parole: “scritto da un 'maestro', che da tempo ricorda a tutti il dovere di
affrontare con determinazione ed 'amore' questa emergenza. Una 'lezione' per
tutti coloro che, credenti e non hanno a cuore un futuro migliore per nostri
figli”.
Comunque il tema potrebbe
risolversi soltanto con questa eccellente riflessione di san Giovanni
Bosco, posta nel retro-copertina:“se la gioventù sarà rettamente
educata, vi sarà ordine e moralità, al contrario: vizio e disordine. Io ho
consacrato tutta la mia vita al bene della gioventù, persuaso che dalla sana
educazione di essa dipende la felicità della nazione”.
giovedì 11 gennaio 2018
Intervista di Simonetta Trovato a Tommaso Romano sul Giornale di Sicilia
Di seguito l'intervista rilasciata da Tommaso Romano a Simonetta Trovato sul Giornale di Sicilia di oggi su "Palermo Capitale della Cultura".
martedì 2 gennaio 2018
L'Italia per l'immigrazione clandestina, rischia di diventare uno “stato canaglia”.
Il ministro
Minniti recentemente ha detto che per l'immigrazione non si può parlare di emergenza
ma si tratta“ormai un dato strutturale”.“Un’affermazione che
deve preoccupare - scrive Gianandrea
Gaiani - poiché a pronunciarla è stato l’unico esponente dell’attuale
governo che ha cercato di porre un freno ai flussi incontrollati[...]”. (G.
Gaiani, “Minniti si arrende all'immigrazione strutturale”, 21.12.17,
LaNuovaBQ.it)
Anche se quest'anno sono arrivati meno
“migranti” rispetto al 2016, non c'è nulla di incoraggiante, quando uno Stato
accoglie“quasi 120mila immigrati illegali, il cui unico “merito” è aver
pagato criminali per raggiungere l’Italia”. Certo gli accordi con la Libia
hanno frenato le partenze,“ma come fa uno Stato a non definire un’emergenza
un flusso gestito da criminali che porta in Europa immigrati illegali,
criminali e terroristi? Uno Stato può definire “strutturale” il crimine
solo se ne è complice e, viste le dimensioni del problema e l’impatto
finanziario, sociale e sulla sicurezza l’Italia rischia ormai di diventare uno “stato
canaglia” che incoraggia e alimenta traffici criminali strettamente legati
al terrorismo islamico”.
Ormai tutto il mondo conosce le modalità dei
viaggi degli emigranti. I filmati che sono circolati anche in Africa, mostrano
gli emigranti africani arrestati e venduti come schiavi in Libia. Peraltro
questo ha provocato la reazione di vescovi e capi di Stato, soprattutto in
Nigeria da cui parte la maggior parte degli emigranti che tentano la fortuna in
Europa.
Sull'argomento ho letto un ottimo dossier
del giornalista Domenico Quirico, “Esodo. Storia
del nuovo millennio”, Neri Pozza editore (2016) Quirico ha
viaggiato in compagnia dei migranti e racconta le loro condizioni disumane nei
principali luoghi da cui partono, e in cui sostano o si riversano. E' il
racconto in presa diretta dell'Esodo che sta già mutando il mondo e la storia a
venire.“Parti intere del pianeta si svuotano di uomini e di rumori, di vita:
negli squarci sterminati di Africa e di Medio Oriente”. Per Quirico,“è
la Grande Migrazione. Forse cambierà il mondo, ma quando ce ne accorgeremo sarà
già in noi. Sarò già in noi il popolo nuovo”.
Quirico racconta
le lunghe attese per andare a Lampedusa.“Il clandestino è un uomo che
aspetta”, E' un uomo che“attende di avere la cifra per potersi pagare il
viaggio, attendi il mediatore che ha il compito di organizzarlo, il passeur
con il prezzo giusto”.
Interessante la
descrizione dei passeur:“ogni passeur ha la sua rete, il suo tratto di
percorso, i suoi soldati poliziotti funzionari capi tribù con cui è in affari.
Quando ha concluso la sua parte, lascia ai migranti un indirizzo: è il collega
che li aiuterà, se hanno il denaro a compiere il percorso successivo[...] “La
sua macchina utensile in questo deserto senza industrie sono gli esseri umani
che fuggono. Lui li ingrana, li sgrana, li sposta, comanda e lusinga, li uccide
e li abbandona sicuro di conoscerli nelle loro minime rotelle. Li usa. Va fiero
di esserne il padrone e di disporne mentre loro sono polvere e pietre”.
Nel libro
Quirico fa la storia di uomini e donne che hanno tentato il lungo e pericoloso
viaggio attraverso il deserto e poi nel mare.“Qui, mentre il chiasso si fa assordante,
senza garbo né grazia, e svia e annulla perfino la pietà, scopri come l'uomo
sia diventato una cosa che si prende, che si deporta, si dovrebbe dire si
importa e che si esporta come un oggetto[...]”.
E' risaputo che“tra gli immigrati
illegali si celino foreign fighters in fuga da Iraq, Libia e Siria
(infiltrazioni in realtà già note da oltre quattro anni, e ammesse dallo stesso
Minniti) e il crescente fenomeno degli sbarchi fantasma da Tunisia e Algeria,
sulle coste siciliane e sarde, non fa che rafforzare questa preoccupazione. Che
si aggiunge alla certezza che i flussi migratori illegali dal Nord Africa siano
da tempo una vera “autostrada del crimine”, come conferma l’affermarsi
nel nostro paese della mafia nigeriana e di altre organizzazioni criminali
marocchine e tunisine che utilizzano i “migranti” africani come manovalanza”.
(Ibidem)
La maggior parte
degli sbarcati provengono da Paesi non in guerra e neppure in preda a carestie.
Minniti e compagni ci esortano a non drammatizzare, per non dare spazio al
“populismo”. Eppure quella della sicurezza è un vero rischio, per esempio,“c'è
il rischio concreto che lo Stato perda in molte aree urbane il controllo
del territorio, non certo di un problema “inventato” dalla propaganda populista
o di una fake news”.
Per Gaiani,“Sono
gli stessi immigrati illegali voluti dal governo a dare adito ai “populismi”
assorbendo risorse inaccettabili in un momento di profonda crisi economica e
sociale, come quello che attraversano gli italiani, e creando problemi di sicurezza
e ordine pubblico. Difficile evitare populismi e rabbia popolare se si
spendono oltre 4 miliardi all’anno per accogliere chiunque paghi criminali per
venire in Italia, spesso senza neppure sapere chi sono realmente i
clandestini accolti e si buttano altri denari pubblici persino per dare loro un
lavoro nelle aree più disperate del Meridione, dove la disoccupazione degli
italiani è alle stelle”.(Ibidem)
Forse è la prima
volta nella storia in cui un paese accoglie immigrati su vasta scala senza
avere un boom economico che richieda braccia e forza-lavoro. Non era mai
successo che uno stato rinunci a scegliere la provenienza degli immigrati.
Inoltre,non era mai successo accogliere tanti immigrati provenienti da un mondo
islamico che ripudiano la nostra società e i suoi valori liberali e democratici
e già oggi costituisce il più grave problema di sicurezza per l’Occidente.
Infine Gaiani si
chiede polemicamente, e con una forte dose ironica, se per caso,“Col termine
“governare i flussi” Minniti intende forse dire che occorre far sbarcare gli
immigrati illegali un po’ alla volta? Ma allora basta che il governo Gentiloni
si metta d’accordo coi trafficanti per un numero ragionevole (diciamo 10mila?)
sbarchi “strutturali” al mese. Invece di accordarsi in Libia con Fayez al
Sarraj e il suo traballante governo o invece di cercare un’intesa col generale
Khalifa Haftar, per “governare i flussi” Roma dovrebbe trattare direttamente
coi trafficanti, magari utilizzando qualche Ong come intermediari”.
(Ibidem)
In questo modo
non si fa altro che “trasformare
l’Italia in una via di mezzo tra il Far West e la Somalia”, e così
probabilmente,“le lobby del soccorso e dell’accoglienza tanto care
all’attuale maggioranza di governo ingrasserebbero felici”.
I filmati degli
africani trattati come bestie ha suscitato un'ondata di indignazione, in
particolare tra i vescovi africani che hanno denunciato questo esodo massiccio
di giovani africani verso il continente europeo. In particolare Monsignor Benjamin
Ndiaye, arcivescovo della capitale del Senegal Dakar. Il 25 novembre
scorso ha detto:“Non abbiamo il diritto di lasciare che esistano canali di
emigrazione illegale quando sappiamo benissimo come funzionano – ha detto –
tutto questo deve finire”.
Insieme alla
Nigeria, il Senegal è uno dei paesi africani da cui partono alla volta
dell’Italia più emigranti clandestini. Secondo Monsignor Ndiaye tutte le
autorità religiose devono fare la loro parte e devono collaborare affinchè i
giovani si impegnino nello sviluppo dei rispettivi paesi:“è meglio restare
poveri nel proprio paese – ha detto – piuttosto che finire torturati nel
tentare l’avventura dell’emigrazione”.
Infine
Monsignor Ndiaye ha lanciato un appello a tutte le personalità autorevoli
affinchè si impegnino in attività di sensibilizzazione per far capire ai
giovani i pericoli dell’emigrazione clandestina. Lui stesso si è rivolto ai
giovani:“cari ragazzi – ha detto – tocca a noi costruire il nostro
paese, tocca a noi svilupparlo, nessuno lo farà al posto nostro”. (Anna
Bono, I vescovi africani agli
emigranti: restate e create ricchezza, 21.12.17, LaNuovaBQ.it)
Ha reagito anche
il presidente della Nigeria, Muhammadu Buhari. Il capo di stato
si è detto inorridito al vedere i suoi connazionali“trattati come capre,
venduti per pochi dollari”. Ha quindi dichiarato che tutti gli emigranti
nigeriani bloccati in Libia e altrove saranno riportati a casa e verranno
reinseriti nella vita sociale ed economica del paese. Inoltre ha giurato che
farà tutto il possibile per impedire che altri nigeriani intraprendano il
pericoloso viaggio verso l’Europa: combatterà la corruzione, sconfiggerà
definitivamente Boko Haram e altri gruppi armati, migliorerà i servizi
pubblici, a partire da quello scolastico.
Sono intervenuti
altri vescovi nigeriani, richiamando sia il governo che la popolazione alle
loro responsabilità. I vescovi auspicano che si faccia un'opera di convinzione
sui tanti giovani, facendogli capire“che c’è più speranza di vita in Nigeria
di quanta pensino di trovarne in Europa o altrove. Il paese ha ricchezze e
risorse immense. I nigeriani non dovrebbero ridursi a mendicanti andandosene
alla ricerca di una ricchezza illusoria all’estero”.
I vescovi
insistono che è più conveniente rimanere nel proprio paese.“Incominciamo a
sviluppare il nostro paese in modo da renderlo un luogo in cui è desiderabile e
piacevole vivere, facciamo in modo che siano gli stranieri a voler venire da
noi”. Pertanto, “Ai tanti giovani che non vedono l’ora di andarsene
Monsignor Bagobiri ha consigliato di non sprecare denaro per un viaggio
rischioso, un progetto senza prospettive:“se i nigeriani emigrati
clandestinamente, invece di spendere così tanto per il viaggio, avessero
investito quelle somme di denaro in maniera creativa in Nigeria, in attività
economiche, adesso sarebbero degli imprenditori, dei datori di lavoro. Invece
sono ridotti in schiavitù e sottoposti ad altre forme disumane di trattamento
in Libia”.
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