giovedì 30 giugno 2016

L'arte nella Misericordia

Venerdì 8 luglio alle ore 17.00 presso la Sala Lavitrano della Curia Arcivescovile di Palermo, Via Matteo Bonello n. 2, verrà presentato l’evento nato da un’idea di Mons. Lo Monte di realizzare in pittura: 
“L’Arte nella Misericordia”
Si tratta di 14 dipinti + il ritratto di Papa Francesco, realizzati da artisti Palermitani che riprendono il tema delle opere di misericordia sia Corporali che Spirituali. 
Nell’anno del Giubileo dedicato alla Misericordia, 15 artisti sono statichiamati per affrontare un compito importante: scavare nel profondo del loro animo e dar vita a delle opere partecipate o perché facenti parte del loro vissuto o perché traenti le motivazioni da una particolare capacità di percepire il respiro del mondo.
Opere Corporali: Antonella Affronti (dar da mangiare agli affamati), Pina D’Agostino (dar da bere agli assetati), Sebastiano Caracozzo (vestire gli ignudi), Angelo Denaro (ospitare i pellegrini), Tiziana Viola Massa (visitare gli infermi), Alessandro Bronzini (visitare i carcerati), Franco Nocera
(seppellire i morti), 
Opere spirituali: Marisa Battaglia (consigliare i dubbiosi), Giovanni Gambino (istruire gli ignoranti), Francesco Pintaudi (ammonire i peccatori), Vanni Quadrio (consolare gli afflitti), Antonino Liberto (perdonare le offese), Giuseppe Gargano (sopportare pazientemente le persone moleste), Elio Corrao (pregare per tutti - per Dio per i vivi e per i morti), mentre Caterina Rao ha realizzato il ritratto di Papa Francesco.
Tutti si sono così trovati ad affrontare dei temi semplici ed al contempo, molto complessi giacché nulla è più semplice di un punto e nulla è altrettanto difficile da spiegare. Quindici stili e quindici modi di sentire che hanno prodotto opere intense e differenti. 
A conclusione della presentazione della mostra, le opere potranno essere visitate nel salone Filangeri della Curia Palermitana. La mostra è accompagnata da un catalogo con testi di: S.E.R. Corrado Lorefice, Mons. Salvatore Lo Monte, Loreto Capizzi, Roberto Clementini, Rosalia Coniglio, Aldo Gerbino, Piero Longo, Tommaso Romano, Ferdinando Russo, Vinny Scorsone e Francesco M. Scorsone.

Studio 71 Pa
Ufficio stampa e p.r.
Mariella Calvaruso

Riferimenti
francescoscorsone@alice.it
studio71pa@tin.it
091 6372862 – 333 2737182

“L’io e il potere”: da un racconto di Graham Greene

di Luca Fumagalli

La sorpresa del vecchio fu contenuta, poiché a quel punto aveva fatto l’abitudine agli avvenimenti straordinari, quando ricevette dalle mani di un estraneo un passaporto intestato a un nome che non era il suo, un visto e un permesso d’uscita per un Paese nel quale non si era mai aspettato di andare e nemmeno lo aveva mai desiderato. Era molto vecchio, ormai abituato alla vita angusta condotta in solitudine e senza contatti umani: era perfino riuscito a trovare una sorta di felicità nelle privazioni. Passava il giorno e la notte in un’unica camera, una cucinetta e un bagno. Una volta al mese riceveva una pensione piccola ma sufficiente, che proveniva da Qualche Parte, ma non sapeva da dove. Forse aveva a che fare con l’incidente che anni prima lo aveva derubato della memoria. Tutto ciò che gli restava nella mente di quell’episodio era un rumore penetrante, un lampo come di fulmine e quindi lunghe tenebre piene di sogni sconcertanti dai quali alla fine si era destato in quella stessa stanzetta in cui ora abitava.
“La verranno a prendere all’aeroporto il 25” gli disse l’estraneo, “e la condurranno sul suo aereo. La incontreranno all’arrivo e c’è una camera pronta per lei. Le converrebbe non parlare con nessuno sull’aereo”.
“Il 25? Siamo in dicembre vero?”. Trovava difficile tenere dietro al tempo.
“Sì”.
“Allora sarà Natale”.
“Natale è abolito da più di vent’anni. Dall’incidente”.
Rimase lì a chiedersi: “Come si fa a abolire un giorno?”. Quando l’uomo se ne andò, alzò gli occhi, quasi aspettandosi una risposta, verso un piccolo crocifisso di legno appeso sul suo letto. Un braccio della croce si era rotto e con quello un braccio della statuetta: lo aveva trovato due anni prima – o erano tre? – nella pattumiera che divideva con i suoi vicini che non gli parlavano mai. Disse a voce alta: “E tu? Ti hanno abolito?”.
Il braccio mancante parve dargli la risposta: “Sì”.
Esisteva in certo qual modo una comunicazione fra di loro, come se avessero condiviso un ricordo.
Con i vicini non c’era comunicazione. Da quando era tornato alla vita in questa stanza non aveva parlato con uno solo di loro, perché aveva la sensazione che avessero paura di parlare con lui. Era come se avessero saputo qualcosa di lui che egli stesso non sapeva. Forse un delitto commesso prima che calasse la tenebra. Nella strada c’era sempre un uomo che non poteva essere considerato un vicino, perché veniva sostituito ogni due giorni, e anche lui non parlava mai con nessuno, nemmeno con l’ultima signora all’ultimo piano che era incline a spettegolare. Una volta, per la strada, lei pronunciò il nome – non quello che era sul passaporto – con un’occhiata di traverso che aveva incluso entrambi: il vecchio e l’uomo di guardia. Era un nome abbastanza comune: Giovanni.
Una volta, forse perché la giornata era calda e luminosa dopo settimane di pioggia, il vecchio si era arrischiato a rivolgere una frase all’uomo nella strada quando era andato a prendere il pane: “Dio la benedica, caro amico”.
L’uomo aveva fatto una smorfia come colpito da un dolore improvviso e gli aveva voltato le spalle. Il vecchio era andato a prendere il pane che era il suo cibo abituale e da molto tempo si era reso conto di essere seguito in quel tragitto quotidiano. Tutta l’atmosfera era un po’ misteriosa, ma non ne era troppo turbato.
“Credo che ci vogliano lasciare soli, te e me” disse, una volta, rivolgendosi al suo unico pubblico, la statuetta mutilata. Era davvero soddisfatto, come se in qualche punto del suo oscuro dimenticato passato avesse dovuto sopportare un fardello troppo pesante dal quale adesso era libero.
Il giorno che continuava a considerare Natale arrivò e con lui l’estraneo.
“Per portarla all’aeroporto. Ha finito di fare i bagagli?”.
“Non ho molto da imballare e non ho valigia”.
“Gliene trovo una io” e così fece. Durante la sua assenza il vecchio avvolse la statuetta di legno nell’unica giacca di ricambio che mise nella valigia non appena gli fu portata, coprendola con due camicie e un po’ di biancheria.
“E’ tutto quello che ha?”.
“Alla mia età si ha bisogno di molto poco”.
“Cosa ha in tasca?”.
“Solo un libro”.
“Me lo faccia vedere”.
“Perché?”.
“Ho ricevuto degli ordini”.
Lo strappò dalle mani del vecchio e guardò il frontespizio.
“Non ha il diritto di tenerlo. Come ne è entrato in possesso?”.
“Ce l’ho da quando ero bambino”.
“Avrebbero dovuto sequestrarglielo all’ospedale. Dovrò fare rapporto per questo”.
“Non è colpa di nessuno. L’ho tenuto nascosto”.
“La portarono qui in uno stato di incoscienza. Non era in grado di nascondere nulla”.
“Avranno avuto troppo da fare per salvarmi la vita”.
“Per me questa è una leggerezza criminale”.
“Mi sembra di ricordare che qualcuno mi chiese cos’era. Gli dissi la verità. Un libro di storia antica”.
“Storia proibita. Questo andrà nell’inceneritore”.
“Non è così importante” disse il vecchio. “Ne legga un pezzetto prima. Vedrà”.
“Non farò proprio niente del genere. Io sono fedele al Generale”.
“Oh, lei ha certo ragione. La fedeltà è una grande virtù. Ma non si preoccupi. Da qualche anno non lo leggo spesso. I miei passi preferiti li ho qui nella testa, e non potete incenerirmi la testa”.
“Non ne sia troppo sicuro” ribattè l’uomo. Furono le sue ultime parole prima che arrivassero all’aeroporto, e lì tutto cambiò in modo strano.
[Un ufficiale accompagnò il vecchio nel viaggio in aereo, gli fece indossare una veste bianca e un anello da ecclesiastico e lo condusse dal Generale]
Percorsero molte strade stranamente deserte prima di arrivare a una grande piazza. Davanti a quello che una volta avrebbe potuto essere un palazzo c’era una fila di soldati in riga e lì l’auto si fermò. L’ufficiale gli disse: “Scendiamo qui. Non si allarmi. Il Generale vuole accoglierla con gli onori militari che spettano a un ex capo di Stato”.
“A un capo di Stato? Non capisco”.
“Prego. Dopo di lei”.
Il vecchio sarebbe inciampato nella sua veste se l’ufficiale non lo avesse preso per il braccio. Come si raddrizzò ci fu uno scoppio sonoro e per poco non cadde un’altra volta. Fu come se quell’esplosione secca udita una volta, prima che le lunghe tenebre lo avvolgessero nelle loro pieghe, si fosse ora ripetuta dieci volte più forte. Lo scoppio parve spaccargli la testa in due e in quella fessura cominciarono a riversarsi i ricordi di una vita. Ripeté: “Non capisco”.
“In suo onore”.
Abbassò gli occhi sui propri piedi e vide l’estremità della cotta. Si guardò la mano e vide l’anello. Ci fu un cozzo metallico. I soldati stavano presentando le armi.
Il Generale lo accolse con cortesia e venne subito al punto. “Voglio che si renda conto che io non sono in alcun modo responsabile del tentativo di ucciderla” disse. “Fu un grave errore di un mio predecessore, un certo Generale Megrim. Errori simili vengono facilmente commessi nelle ultime fasi di una rivoluzione. Abbiamo impiegato cento anni per costituire lo Stato mondiale e la pace mondiale. A modo suo lui aveva paura di lei e dei pochi seguaci che lei aveva ancora”.
“Paura di me?”.
“Sì. Deve rendersi conto che la sua Chiesa è stata responsabile di molte guerre nella storia. Finalmente noi abbiamo abolito la guerra”.
“Ma lei è un Generale. Fuori ho visto molti soldati”.
“Rimangono come custodi della pace mondiale. Forse fra altri cent’anni cesseranno di esistere proprio come ha cessato di esistere la sua Chiesa”.
“Ha cessato di esistere? Da molto tempo la memoria mi manca”.
“Lei è l’ultimo cristiano vivente” disse il generale. “È un personaggio storico. Per questo ho voluto renderle onore alla fine”.
Il Generale estrasse un portasigarette e glielo porse. “Vuole fumare con me, Papa Giovanni? Mi dispiace di avere dimenticato il numero. Era XXIX?”.
“Papa? Mi perdoni, non fumo. Perché mi chiama Papa?”.
“L’ultimo Papa, ma pur sempre un Papa”. Il Generale si accese una sigaretta e continuò. “Deve capire che non abbiamo niente contro di lei personalmente. Lei ha occupato una grande posizione. Abbiamo condiviso molte delle stesse ambizioni. Abbiamo avuto molto in comune. Questa fu una delle ragioni per cui il Generale Megrim la considerava un nemico pericoloso. Finché aveva dei seguaci, lei rappresentava una scelta alternativa. Fin quando esisteva una scelta alternativa ci sarebbe sempre stata la guerra. Io non sono d’accordo sui metodi adottati da lui. Spararle in modo così clandestino mentre lei diceva… come la chiama?”.
“Le mie preghiere?”.
“No, no. Era una cerimonia pubblica già proibita dalla legge”.
Il vecchio si sentì smarrito. “La Messa?” chiese.
“Sì, sì, credo che si chiamasse così. Il problema era che il suo piano avrebbe potuto farla diventare un martire e ritardare non poco il nostro programma. È vero che c’erano soltanto una dozzina di persone a quella… come la chiama? … Messa. Ma il suo metodo era rischioso. Il successore del Generale Megrim se ne rese conto, e io ho seguito la sua stessa linea più tranquilla. L’abbiamo tenuta in vita. Non abbiamo mai permesso alla stampa di fare nemmeno un accenno occasionale a lei, o alla sua vita tranquilla nel ritiro”.
“Non capisco bene. Deve perdonarmi. Sto solo cominciando a ricordare. Quando i suoi soldati hanno fatto fuoco poco fa…”.
“L’abbiamo mantenuta in vita perché era l’ultimo capo di coloro che continuavano a chiamarsi cristiani. Gli altri si erano arresi senza troppe difficoltà. Che strana sfilza di nomi… Testimoni di Geova, Luterani, Calvinisti, Anglicani. A uno a uno con gli anni si sono arresi tutti. I vostri si chiamavano Cattolici come se avessero sostenuto di rappresentare tutti gli altri anche mentre li combattevano. Storicamente, immagino che voi siate stati i primi ad organizzarvi e a sostenere di seguire quel mitico falegname ebreo”.
Il vecchio disse : “Mi domando come ha potuto rompersi il braccio”.
“Il braccio? Chi?”.
“Scusi, stavo divagando con la mente”.
“Il comunismo è invecchiato ed è morto, e così l’imperialismo. La Cristianità è morta anch’essa, tranne per lei. Immagino che lei fosse un buon Papa, per quanto possano esserlo i papi, e voglio renderle l’onore di non tenerla più in queste squallide condizioni”.
“E’ gentile. Non erano così squallide come crede. Avevo un amico con me. Potevo parlare con lui”.
“Ma che vuole dire? Era solo. Anche quando usciva per comprarsi il pane era solo”.
“Mi aspettava quando tornavo. Vorrei che non gli si fosse rotto il braccio”.
“Ah, parla di quell’immagine di legno. Il Museo dei Miti sarà lieto di aggiungerla alla sua raccolta. Ma è giunta l’ora di parlare di cose serie, non di miti. Guardi quest’arma che metto sulla mia scrivania. Io non sono del parere di far soffrire la gente senza motivo. La rispetto. Non sono il Generale Megrim. Voglio che lei muoia con dignità. L’ultimo cristiano. Questo è un momento storico”.
“Ha intenzione di uccidermi?”.
“Sì”.
Il vecchio provò sollievo, non paura. Disse: “Mi manderà dove ho spesso desiderato andare durante gli ultimi vent’anni”.
“Nelle tenebre?”.
“Oh, le tenebre che ho conosciuto non erano la morte. Solo un’assenza di luce. Lei mi manda nella luce. Le sono grato”.
“Speravo che avrebbe consumato un ultimo pasto con me. Come una sorta di simbolo. Un simbolo di amicizia definitiva fra due persone nate per essere nemiche”.
“Mi perdoni, ma non ho fame. Si proceda con l’esecuzione”.
“Prenda almeno un bicchiere di vino con me, Papa Giovanni”.
“Grazie, quello sì”.
Il Generale riempì due bicchieri. Mentre vuotava il suo la mano gli tremò un poco. Il vecchio levò il proprio come in segno di saluto. Pronunciò a bassa voce alcune parole che il Generale non comprese del tutto, in una lingua che non capì.
“Corpus Domini nostri…”.
Mentre l’ultimo rimasto dei suoi nemici cristiani beveva, fece fuoco. Fra la pressione del grilletto e l’esplosione del proiettile uno strano e terrificante dubbio gli attraversò la mente: era possibile che fosse vero ciò in cui quell’uomo credeva?

giovedì 23 giugno 2016

Il colore degli Italiani? verdi di speranza o di rabbia?

di Aldo A. Mola (*)

Ma che colore hanno gli Italiani? E com'erano prima di indossare la “camicia nera”? Sulla lunga distanza essi risultano un “caleidoscopio cromatico” secondo Maurizio Ridolfi, autore di La politica dei colori. Emozioni e passioni nella storia d'Italia dal Risorgimento al ventennio fascista (Le Monnier). La “roba” si cambia alla svelta, la pelle no. Gli italiani l'hanno coriacea. Inspessita in millenni di trionfi e di servitù. Un po' come quella degli inglesi, che (ma non tutti lo sanno) sarebbero nostri “cugini”. Infatti, secondo Brunetto Latini (che nella Divina Commedia il suo allievo Dante Alighieri mette all'inferno tra i peccatori “contro natura”) il troiano Enea ebbe due figli: Silvio, che si stanziò nel Lazio, e Bruto, che andò a dare nome alla Bretagna. Da lui discese “il buon re Artù”, quello della Tavola Rotonda: dai commensali inquieti e a gambe divaricate, sempre con un piede dentro e uno fuori dalla Vecchia Europa.
Neppure il fascismo fu monocromatico. Il nero degli squadristi e poi della Milizia volontaria di sicurezza nazionale venne ravvivato con distintivi luccicanti e con i colori vividi delle sciarpe di Sansepolcrista, “Marcia su Roma” e altre benemerenze. Poi nel partito entrarono, alla pari, le Camicie azzurro Savoia dei Nazionalisti, affiancati dai “Sempre pronti” (decisi anche allo scontro fisico coi fascisti). Non solo. Le grandi parate del ventennio, dall'Altare della Patria in Roma ai Sacrari militari (Aquileia, Redipuglia...), non furono affatto “in nero”. Ebbero i colori dell'Esercito, della Marina e, quando assunse veste definitiva, dell'Aeronautica. Dominante rimase comunque il tricolore adottato nel 1848 da Carlo Alberto di Savoia, re di Sardegna, e difeso strenuamente da Vittorio Emanuele III contro i tentativi di Mussolini di incastonare il fascio littorio accanto allo Scudo Sabaudo: un colpaccio che al Duce riuscì per gli emblemi degli Enti locali, non per quello dello Stato.
D'altronde il Ventennio fu monocorde solo nella fiaba schematica del regime che, invece, procedette a zig-zag, cambiando decine di ministri nei posti chiave (Interno, Esteri, Guerra e soprattutto Economia Nazionale) e oltre 160 sottosegretari di Stato. Il liberismo originario di Alberto De Stefani non è la stessa cosa del corporativismo; tra Alberto Beneduce (socialista, massone, ideatore e presidente dell'IRI) e l'autarchia vi è un abisso incolmabile dal punto di vista dottrinale e fattuale. Qual è dunque il nerbo dell'“Invenzione della Patria” narrata da Fabio Finotti in Italia (Bompiani)? Secondo lui la Patria “non è un'idea platonica e metastorica, e neppure un dato naturale e immutabile dell'esistenza umana” ma “assume forme diverse a seconda dei luoghi e dei periodi”. I patrioti fanno la Patria, ma la Patria non deve dimenticarli. Se lo Stato ignora gli Statali si mette all'incanto, come accadde all'imperatore romano Publio Elvio Pertinace: non pagò quanto aveva promesso ai pretoriani  che lo avevano eletto e ne venne accoppato (193 d. Cr.).
Messa alle spalle la litania di chi (come Emilio Gentile) da decenni ripete che dal 28 ottobre  1922 “fu subito regime”, si apprezzano letture innovative. Mentre pullulano riedizioni di classici (è il caso del Mussolini di Renzo De Felice curato da Francesco Perfetti per “Il Giornale”), Massimo Luigi Salvadori propone Democrazia. Storia di un'idea tra mito e realtà (Donzelli), Giuseppe Bedeschi perlustra la Storia del pensiero liberale (Rubbettino) e Luciano Pellicani allarga l'orizzonte con L'Occidente e i suoi nemici (Rubbettino): ripetizione dell'antico conflitto tra Sparta e Atene, tra un sistema ideologico militare chiuso e la “democrazia” di Pericle, fondata sul culto della bellezza e del pensiero. Bisogna ricordarsene mentre ancora una volta “Annibale è alle porte”, come argomenta Maurizio Molinari, direttore di “La Stampa”, in Jihad (Rizzoli).
Invero il “mondo” - che sembra rimpicciolito dopo l'11 settembre 2001, con la crisi finanziaria esplosa nel 2008 e il terrorismo politico-religioso dilagante - apparve nelle sue reali dimensioni sin dalla Grande Guerra e dalle sue devastanti conseguenze. L'olocausto armeno riproposto da Alberto Rosselli (ed. Mattioli 1885), già noto nella sua raccapricciante realtà, fu messo tra parentesi perché subito scomodo, come rimane l'ecatombe di tedeschi attuata nel 1945-1946 dall'Armata Rossa di Stalin, sotto lo sguardo indifferente degli anglo-americani, i quali rimasero a ciglio asciutto pure dinnanzi alla documentazione incontrovertibile di quanto avveniva nei lager nazisti. A voltar pagina, a puntare verso un'Europa meno accecata dall'odio mirarono invece uomini armati di fede e di pazienza, come monsignor Agostino Casaroli, Appassionato tessitore di pace (Libreria Editrice Vaticana), bene informato sulla tragedia della “chiesa del silenzio” in quell'“Europa Orientale” che cominciava dal Veneto, come documenta Luciano Monzali nel poderoso volume Gli italiani di Dalmazia e le relazioni italo-iugoslave nel Novecento (Marsilio): una tragedia precorsa dalla lugubre vicenda approfondita da Matteo Forte in Porzus e la resistenza patriottica (Luni).

Le opere citate sono alcune della falange di 220 volumi presentati all'edizione 2016 del Premio Acqui Storia dallo stuolo di Case Editrici grandi, piccole e “di nicchia” (perciò custodi di gioielli), antiche e recentissime. I numeri dei concorrenti e dei loro editori sono un dato inoppugnabile. Quando, un decennio addietro, la sua guida venne affidata a Carlo Sburlati, clinico e saggista poligrafo, alcuni profeti di sventura ne vaticinarono l'irreversibile declino. Pier Angelo Taverna, presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria, suo principale sponsor, attese i fatti. E questi sono ostinati: gli aspiranti all'inclusione nelle cinquine dei finalisti delle sue tre sezioni (scientifica, divulgativa e romanzo storico: quest'ultima ideata da Sburlati) sono saliti dai 25-30 delle edizioni d'antan a un centinaio e ora superano appunto le due centinaia: opere disparate e coraggiose, come l'intrigante saggio di Luciano Canfora su Tucidide: la menzogna, la colpa, l'esilio, i 500 giorni di Napoleone dall'Elba a Sant'Elena di Luigi Mascilli Migliorini (entrambi ed. Laterza) e le 1500 pagine di Enrica Garzilli su L'Esploratore del Duce. Le avventure di Giuseppe Tucci e la politica italiana in Oriente da Mussolini a Andreotti (Asiatica Association).
A polemiche settarie hanno risposto non solo le decisioni finali delle giurie, sempre serene  e argomentate, come si addice al più prestigioso premio storiografico italiano, ma anche i nomi degli storici inclusi tra i Testimoni del Tempo o destinatari del Premio alla Carriera: Roberto Vivarelli e Giuseppe Galasso, per stare alle ultime due edizioni. Un cammino, il loro, calcato da studiosi dal passo cadenzato, come Gianni Marongiu, autore del formidabile volume su La politica fiscale nell'età giolittiana (Ed. Olschki), e Domenico Fisichella che, terminata la trilogia sull'Italia dal “miracolo del Risorgimento” all'età liberale e a quella tra dittatura e monarchia (l'età della Diarchia, ancora ignota ai più), torna su Totalitarismo. Un regime del nostro tempo (ed. Pagine), un'opera che fonde dottrina politica, pensiero giuridico e storia per liberare dalle confusioni concettuali accumulate dal secondo dopoguerra, quando (è il caso di dire) si fece di tutta l'erba un fascio.
L'ampio ventaglio di candidati al Premio aiuta a rispondere ai suggestivi quesiti di Maurizio Ridolfi sul colore degli italiani. Sulla fine Settecento, per iniziativa di Luigi Zamboni (che egli ricorda) e di Giò De Rolandis (che non cita) essi si dettero la coccarda tricolore, ma (come dichiarò De Rolandis sotto tortura pontificia), “per non fare la scimmia dei francesi”, sostituirono il blu della bandiera straniera con il verde. E lì, va detto, cominciarono i guai perché (a differenza di quanto scrive Ridolfi) il verde non è affatto un colore primario ma nasce dalla mescolanza del blu (distintivo della monarchia) e del giallo (proprio del papato). Nella Bologna del Cardinal Legato senza pensarci e certo senza volerlo erano giù in nuce i Patti Lateranensi dell'11 febbraio 1929? Ridolfi addebita il “caleidoscopio cromatico” degli italiani al continuo “scivolamento” di un colore dall'uno all'altro partito e/o movimento o, aggiungiamo, semplicemente nell'“uso” e nell'abuso. Basti constatare che in tempi andati ci si divideva in bianchi (o azzurri) e rossi, mentre ora, per esempio, i colori del Partito democratico e di Forza Italia sono assolutamente identici. Di lì l'“invenzione” di tinte non da corteo ma da processione, non da comizio ma da merenda fuori porta, per una Patria scolorita e sciapa, malgrado le calze verdi ora imposte alle donzelle dell'Alitalia, ex compagnia di bandiera di un Paese che fu. Ora verde di rabbia più che di speranza.

(*)Vicepresidente vicario (eletto) della Giuria  del premio Acqui Storia, sezione scientifica, Presieduta da Maurilio Guasco, questa è formata da Marco Barberis, Massimo de Leonardis, Mauro Forno, Mola, Gianni Oliva, Giuseppe Parlato, Francesco Perfetti e Gennaro Sangiuliano.

mercoledì 22 giugno 2016

Le nuove classi medie cosmopolite, “guardia pretoriana” del capitalismo terminale

di Paolo Borgognone

Il liberalismo è un “fatto sociale” totale, culturale, politico, economico. È  l’involucro politico-culturale più adatto per l’espansione illimitata del capitalismo odierno (assoluto, perché sciolto da ogni legame e vincolo precedente e terminale, perché dei tempi “ultimi”). In un suo saggio, il filosofo Costanzo Preve ebbe a dire, in merito al ventennio neoliberista (1989-2009) succeduto al tragicomico crollo del comunismo storico novecentesco nei Paesi dell’Europa centrorientale e in Unione Sovietica: «[…] l’ultimo ventennio neoliberista (1989-2009) è stato anche una sorta di grande ed oscena orgia bacchica di festeggiamento per la caduta del baraccone tarlato del comunismo storico novecentesco, che d’accordo con Jameson definirei un grande esperimento di ingegneria sociale dispotico-egualitaria sotto cupola geodesica protetta, cupola geodesica generalmente definita “totalitarismo” nel pensiero politico occidentale apologetico del capitalismo». La “fine capitalistica della Storia” teorizzata dal politologo neodemocratico Francis Fukuyama appare infatti, da una prima lettura, la nuova religione identitaria di massa in nome della quale si celebrano i riti bacchici tesi all’esaltazione della globalizzazione ipercapitalistica e alla celebrazione dell’«onnipotenza dell’economia», o monoteismo del mercato. 
Il programma mondialista, genericamente denominato di “fine capitalistica della Storia” (Francis Fukuyama, 1989), tende irrimediabilmente all’uniformazione neocoloniale globale sotto l’egida della cultura politica dominante dopo il 1989 (e, per certi versi, in Europa Occidentale, già dopo il 1945), ossia il liberalismo come «l’ideologia moderna per eccellenza», un’ideologia fondata sulla metafisica del progresso quale destino ultimo dell’umanità. Il liberalismo è una cultura politica unitaria, equivocata dai suoi teorici e apologeti di sinistra come sostanzialmente scindibile in due tronconi opposti, «un liberalismo politico e culturale “buono”» ascrivibile alla sinistra e all’estrema sinistra postmoderne in quanto «punta più mobile dello Spettacolo moderno» e un «liberalismo economico “cattivo”», ascrivibile invece alla destra erroneamente e tendenziosamente definita “conservatrice”. 
Il liberalismo totalitario (ossia che totalizza in sé sinistra culturale, centro politico e destra economica e che definisce «fuori dalla Storia» e «fuori dal Tempo» ogni istanza e rivendicazione di critica radicale al suo programma di uniformazione globale) contemporaneo, come nota Charles Robin, «affonda le sue vere radici intellettuali in quella che, al momento presente, è necessario chiamare “sinistra”, ossia quel conglomerato di pensieri eterocliti uniti dall’idea (e a partire da postulati e intenti politici spesso discordanti) che la lotta per le “libertà individuali” e il riconoscimento delle “minoranze” – fondamento metafisico dell’attuale “diritto alla differenza” – dovrebbe apparire come l’unico fondamento concepibile di ogni progetto di civiltà “moderno” e “progressista”». In tale contesto, di omologazione cosmopolitica eurocentrica tendente alla disarticolazione, per via principalmente pubblicitaria, dei legami sociali comunitari dei popoli, ricordiamo quanto dichiarato da Costanzo Preve circa i mass-media contemporanei quali strumenti di riproduzione dell’attuale processo di flessibilizzazione desiderante e narcisistica delle masse come conseguenza e parte integrante dell’autoimposizione del monoteismo del mercato quale nuova religione identitaria obbligatoria di sradicamento consumistico globalizzato: «Le nuove cerimonie religiose sono officiate da mezzibusti televisivi sorridenti che si consultano con economisti che ripetono solenni parole in inglese roteando una pipa spenta. 
L’ideologia di questa nuova società è quella della fine della storia». Il “circo mediatico” giornalistico liberale contemporaneo è appropriatamente definito da Preve come una vera e propria forma di «clero secolare». Infatti, «in riferimento all’attuale congiuntura, Preve distingue tra un “clero secolare” (gli apparati mediatici) e un “clero regolare” (gli apparati universitari che forniscono una legittimità all’ordine del mondo), accomunati dal raddoppiamento simbolico-religioso dell’assetto capitalistico». Preve, in un importante saggio del 1999, scrisse apertamente che «il clero giornalistico secolare ha il compito di organizzare una rappresentazione quotidiana profana, il cui scopo è quello di simulare la sacralità del dominio della Nuova Nobiltà finanziaria transnazionale ultracapitalistica e postborghese». Va ricordato, anche e soprattutto che «i gradi superiori del circo mediatico sono composti da opinionisti cosmopoliti e poliglotti», il cui minimo comun denominatore ideologico è la rivendicata adesione al liberalismo di sinistra come motore propulsore politico di una società fondamentalmente liberalizzata a livello culturale, politico ed economico. Il “circo mediatico” liberale contemporaneo è infatti il promotore politico-culturale «della cultura mondiale americana», una cultura il cui «obbiettivo è una società universale di consumo che non sarebbe composta di tribù, popoli, nazioni o cittadini, ma soltanto di questa nuova razza di uomini e di donne che sono i consumatori». 
Gli strapagati pagliacci colti facenti parte degli strati superiori del “circo giornalistico” liberale di sinistra non fanno altro che diffondere, presso il volgo desideroso di spettacolo trash e di spettacolo porno centrati sul chiacchiericcio del talk show politicamente corretto riproduttore della obsoleta dicotomia centrodestra/centrosinistra (perfettamente funzionale al mantenimento inalterato della società liberale odierna) e sull’esibizionismo narcisistico proprio del reality show (in stile Grande Fratello o L’Isola dei Famosi) per teledipendenti compulsivi di ogni ordine e grado, le idee dominanti al servizio delle classi dominanti. Ma qual è la cultura politica caratterizzante queste élites dominanti (Global Class) aventi come obiettivo la flessibilizzazione consumistica, individualistica, narcisistica e cosmopolitica integrale delle masse, nell’ambito di un capitalismo “puro” tendente all’abbattimento di ogni ostacolo (frontiere nazionali, morali, politiche e religiose) all’espansione illimitata della open society perfettamente confacente al dispiegarsi incontrastato di un modello socio-politico ed economico fondato sull’omologazione globale alla suddetta «cultura mondiale americana»? 
La risposta a tale domanda è ravvisabile nelle seguenti parole di Costanzo Preve: «A partire dal 1980 circa siamo […] di fronte a una vera e propria seconda rivolta delle élites […]. Mentre la prima rivolta delle élites (1871-1914) si basava prevalentemente sulla riorganizzazione della sovranità monetaria dello Stato nazionale (con accompagnamento culturale alla Nietzsche-Pareto), questa seconda rivolta delle élites si basa prevalentemente sul controllo di uno spazio economico globalizzato, e il suo accompagnamento culturale non è più prevalentemente di “destra” (Nietzsche, Pareto, Kipling, ecc.), ma è prevalentemente di “sinistra” (postmoderno, Lyotard, Bobbio, Rawls, Habermas, religione olocaustica di colpevolizzazione infinita dell’Europa, ideologia interventistica dei diritti umani, governo dei giudici e dei giornalisti, costituzione materiale basata sullo scandalismo, irrisione della religione vista come residuo superstizioso premoderno, sostituzione del Big Bang alla creazione divina, imposizione del coito e del godimento immediato al posto dell’amor cortese e del dolce stil novo, ecc.)». La liberalizzazione sessuale è la prima tappa verso la costruzione di una società consumistica integralmente liberale laddove l’emancipazione di genere viene letteralmente convertita in uno strumento ideologico «al servizio della riproduzione del Capitale». 
Infatti, in una società realmente liberale, «il sistema capitalistico dovrà naturalmente dispiegare i suoi mezzi più efficaci per ultimare l’opera di discredito totale delle donne che ancora recalcitrano a conformarsi allo standard liberale della donna “attiva”, “indipendente” e “moderna”. Di qui, come si sarà capito, l’interesse pedagogico per la serie Sex and the City». La liberalizzazione tecnologica (comunicazione universale globale tramite l’Internet sociey) è la seconda tappa sulla via della realizzazione di una società integralmente liberale. Da notare come oggi, i sostenitori più accesi dell’affermazione, su scala globale, delle nuove tecnologie di comunicazione multimediale siano proprio i liberali camuffati da comunisti estremisti quali Toni Negri e Alain Badiou. Costoro infatti, aedi di una “rivoluzione cosmopolitica di massa” venduta al ceto medio dei semicolti loro interlocutori come “socialismo dal volto umano” del XXI secolo, non esitano ad affermare che «è lo sviluppo stesso del capitalismo ciò che porterà a costruire automaticamente la “base materiale del socialismo”». Secondo Negri e Badiou, infatti, «si tratta semplicemente […] di affidarsi a quello sviluppo rivoluzionario (se non addirittura, come proponeva ingenuamente Gilles Deleuze, di “accelerarne tutti i processi”) e attendere con pazienza il giorno in cui – quando l’“involucro capitalista” non sarà più abbastanza solido per contenere la dinamica impetuosa delle “nuove tecnologie” – la società comunista potrà sorgere da se stessa, armata da capo a piedi, come una Minerva che esce dalla testa di Giove». 
Ora, tutti sanno che una tale interpretazione degli odierni processi di globalizzazione è, nella migliore delle ipotesi, una lucida follia perché, com’è noto, lungi dal costituire strumenti di emancipazione, le nuove tecnologie di comunicazione universale, sulla scorta dell’industria pubblicitaria più in generale, non svolgono altra funzione che quella di agire nella «deliberata costruzione di un uomo integralmente rimodellato in funzione delle sole esigenze del Mercato e del “governo democratico mondiale”». Il principale fattore di legittimazione di una società liberalizzata e unificata al compulsivo desiderio di consumo e di riconoscimento individuale è la presentazione del liberalismo come ideologia unica del “progresso” e della “democrazia” da parte dei suoi cantori e propagandisti. Non a caso, Ezio Mauro, ex direttore del principale quotidiano italiano di orientamento liberale di sinistra (la Repubblica), ebbe apertamente a dichiarare che «un azionismo di massa è stato il sogno di Repubblica, e non importa se un sogno di minoranza, pur di testimoniare per quarant’anni “una certa idea dell’Italia”, secondo la formula di Piero Gobetti». 
Mauro veicola, senza mezzi termini, l’idea che i liberali di sinistra coltivano in merito al processo di normalizzazione neocapitalistica e neoborghese dell’Italia come parte integrante del mondo unificato all’insegna del cosmopolitismo neoliberale, nel momento in cui delinea il sistema politico confacente a codesto obiettivo attraverso l’istituzionalizzazione di un bipolarismo solidale centrato sull’alternanza al governo tra un partito liberaldemocratico di sinistra pro-Ue e pro-Usa, e un partito liberalconservatore di destra pro-Ue e pro-Usa; l’alternanza unica proposta da Mauro esclude categoricamente ogni avversario della società liberale, bandendolo dallo spazio politico pubblico con l’infamante accusa di “populismo antisistema”. Scrive infatti Ezio Mauro: «Abbiamo creduto in una società politica dell’alternanza, nella distinzione feconda e vitale tra i concetti di destra e sinistra e le loro proiezioni politiche. Con la speranza […] di vedere finalmente in campo una sinistra risolta, europea, moderna e occidentale (il ritardo è enorme e dunque colpevole) e una destra finalmente liberata da tentazioni cesariste, padronali, nostalgiche o xenofobe, che in Italia non c’è mai stata. 
Un’Italia in cui si confrontino una sinistra riformista, di governo, e un partito conservatore autenticamente liberale è il traguardo che indichiamo da decenni: oggi tanto più urgente, prima che arrivi l’onda alta del populismo antisistema che coltiva la rabbia e la disperazione senza mai riuscire a trasformarle in politica, scagliandole in una feroce gioia contro le istituzioni». Le parole di Ezio Mauro rappresentano il più fulgido esempio della summenzionata “seconda rivolta delle élites” a copertura ideologica liberale di sinistra e costituiscono la testimonianza più efficace dell’attuale politica dei mass-media di larga tiratura. Una politica volta alla promozione (per conto delle classi dominanti transnazionali finanziarizzate) di modelli di riferimento politici e comportamentali centrati sul postulato della liberalizzazione (politica, economica, sociale e culturale). 

lunedì 20 giugno 2016

Gender Theory: il nuovo Marxismo che vuole distruggere l'uomo.

di Domenico Bonegna

C'è un'invasione sovversiva che sta sorprendendo nazioni impreparate. Non è l'immigrazione selvaggia di questi mesi, ma è la Gender theory. Una nuova ideologia che sta colpendo l'umanità nella propria intimità. Si tende a cancellare la differenza uomo-donna e introdurre il concetto di uomo neutro, che si apre, sulla base degli orientamenti sessuali, a tutte le identità di genere. Si sopprime il vecchio modello di società eterosessuale per creare la società neutra senza sesso. Di fronte a questa triste prospettiva narcisistica dell'ideologia del gender non dobbiamo avere paura di opporci, anche se troviamo opposizioni, ostilità e timori all'interno del mondo cattolico, del resto sarà “il tormentone del secolo”.
“Da circa trent'anni, nuove ideologie si stanno diffondendo per confondere le fondamenta dell'antropologia”, lo scrive Etienne Roze nel suo poderoso saggio, “Verità e splendore della differenza sessuale”, edito da Cantagalli (2014). Di questa confusione se ne era accorto il grande Giovanni Paolo II, che nel 1981, vedeva  un “annientamento” se non reale almeno intenzionale, del corpo. Una negazione del sesso umano, della mascolinità e della femminilità della persona umana[...]”.
In pratica nel nome della lotta alle discriminazioni che impedirebbero a delle minoranze di vivere il proprio sesso a loro piacimento, di avere gli stessi diritti degli eterosessuali,“i parlamentari, sotto la pressione delle lobby, fanno approdare i loro rispettivi Paesi nell'elenco di coloro che hanno scelto le nozze gay e, in nome della lotta al bullismo e alle ingiustizie che feriscono i bambini e gli adolescenti, optano per modelli educativi omogeneizzanti”. E' un fenomeno quasi invisibile, secondo padre Roze, colpisce la mentalità culturale, tutta la società, senza che la stragrande maggioranza dei cittadini si renda conto.
Intanto si scorgono per padre Roze,“Manipolazioni sovversive si impadroniscono delle comunicazioni per ridefinire il linguaggio e quindi la realtà antropologica, lasciando le persone all'oscuro.Tuttora poche sono coloro che avvertono il pericolo, al punto che la maggior parte delle popolazioni rimane, se non anestesizzata,almeno inconsapevole”. Inoltre il sacerdote francese intravede un certo spirito “gregario”, che acceca le menti e trascina i migliori intellettuali, scienziati e persone di spicco a pensare allo stesso modo. A cominciare da coloro che reggono le sorti della politica e dei popoli.
Per chi osa opporsi all'ideologia del gender interviene la “polizia delle idee”.
Osare di opporsi a questo pensiero unico, alla corrente ideologica del gender,“affermando valori che si radicano nella natura, può oggi portare alla conseguenza di essere tacciati di omofobo ed eterosessista, fino addirittura a rischiare la galera”, come sta capitando in questi giorni all'arcivescovo di Valencia monsignor Antonio Canizares Llovera, che sta subendo un processo pubblico da parte delle associazioni Lgbt. Il presule aveva sottolineato come fosse in atto il tentativo“di imporci una ideologia di genere con leggi inique alle quali non dobbiamo obbedire”. Cañizares aveva anche criticato “l’escalation contro la famiglia da parte di dirigenti politici, aiutati da altri poteri come l’impero gay e certe ideologie femministe”.
Nel libro padre Etienne parla esplicitamente di nuovi totalitarismi, di stretto rapporto tra relativismo e dittatura. E si domanda: “se sono i sondaggi e le maggioranze a deliberare quale sia la 'verità' ultima universale che va oltre l'uomo, che ne sarà delle minoranze o di coloro che non condividono le 'verità' di chi detiene il potere?” In pratica, di questo passo, il soggettivismo si trasforma in totalitarismo: “[...] saranno escluse le voci che rifiuteranno di conformarsi alle 'verità' occasionali, fondate sulle opinioni delle maggioranze. Nuovi totalitarismi, con strategie subdole o violente, stanno emarginando testimoni ingombranti”, appunto come monsignor Canizares.
Addirittura Tony Anatrella con acutezza osserva con giustificata preoccupazione che ormai esiste“un terrorismo intellettuale si sta organizzando sul modello di Khmers rossi(si parla effettivamente di Khemers rosa), istituendo una 'polizia delle idee'.
Certamente la storia si evolve ma il rischio del totalitarismo è rimasto lo stesso. Così è valido l'enunciato di san Giovanni Paolo II nelle lettera enciclica Centesimus annus (1.5.1991), n. 46: “Se non esiste nessuna verità ultima la quale guida ed orienta l'azione politica, allora le idee e le convinzioni possono essere facilmente strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia”.
A questo punto si potrebbero individuare quali sono le ragioni che hanno portato alla devianza del gender.
Nichilismo, dualismo e marxismo.
Etienne Roze lo spiega nel 1° capitolo del libro, la nuova ideologia del gender ruota intorno a tre termini: nichilismo, dualismo e marxismo. Il nichilismo rifiuta ogni verità oggettiva, sostenendo che ognuno è libero di dare un senso alla realtà e plasmarla a proprio piacimento. Quindi si abbandona il sesso, il dato originario, e si pretende di poter progettare ciò che si vuole per la natura umana. Qui entra in gioco la visione dualista, ovvero la tendenza a rifiutare ogni tipo di realtà duale. In questo scenario l'eterosessualità è interpretata come un modello egemone che impedisce alle altre identità di esprimersi e le cui cause discriminatorie devono essere decostruite e minate attraverso la creazione di un terzo genere.
Questo terzo genere per molti funge da "cavallo di Troia", "un'eccellente immagine che mostra come, entrando sovversivamente nella piazza, si può prendere possesso dell'intera città e dei suoi abitanti".
Il Gender un'eccellente aggiornamento del marxismo.
Pertanto possiamo ricordare che si innesca la dinamica dell'odio introdotta dal marxismo che oggi prende il nome di omofobia e lotta all'omofobia. Del resto per Roze, "la teoria del gender, o meglio l'ideologia del gender, è un'eccellente aggiornamento del marxismo".
Nella Storia tutto ruota intorna alla parola "differenza", che apre il varco all'ingiustizia tra l'oppresso e l'oppressore". Secondo Roze,"Marx aveva denunciato questa ingiustizia nel rapporto tra il proletariato schiavizzato e il padrone borghese: era la questione sociale dei secoli XIX e XX. Un antagonismo che è stato affrontato con la "lotta di classe".
Poi negli anni 60' e 80' secondo padre Etienne, le stesse forze culturali e politiche, che avevano animato la lotta di classe del proletariato, "hanno spostato la dialettica opponendo la donna emarginata all'uomo patriarcale: era la questione femminile che ha fatto leva contro la disparità uomo/donna grazie alla 'lotta dei sessi'".Infine la "gender theory, riprendendo lo stesso principio, contrappone ora le identità di genere queer, (pare che siano una cinquantina, oltre alle identità raggruppate sotto l’acronimo Lgbt) cioè le identità sfavorite, declassate e oppresse, all'eterosessualità egemone grazie alla 'lotta dei generi'"
E' una lotta che attraversa tutta la società, secondo il religioso francese, "è la chiave di lettura della prassi marxista . Essa è il principio rivoluzionario e la molla che permette di far evolvere la storia verso un futuro promettente, cioè verso un messianesimo utopico".
Un futuro nefasto dove "l'aggiornamento femminista dei principi del marxismo è quindi più incline a raggiungere l'umano dal di dentro, cioè l'identità, per smorzarla e decostruirla, fino a svuotarla". Marx non era arrivato a tanto, l'ideologia del gender si.
Qual è il disegno ultimo della gender theory?

"Consapevolmente o inconsapevolmente", si tratta di una tentazione che va oltre l'orizzonte umano". Scrive padre Roze. Si tratta di una tentazione che supera l'uomo. Cita cosa scriveva nel 2010 l'allora cardinale Jorge Bergoglio - oggi papa Francesco - alle carmelitane di Buenos Aires, mentre il Parlamento argentino si apprestava ad approvare la legge sull'unione di persone dello stesso sesso, vale la pena, riportare la citazione per intero: "la posta in gioco qui è l'identità e la sopravvivenza della famiglia: padre, madre e figli. La posta in gioco è la vita di tanti bambini che saranno discriminati in anticipo privandoli di crescita umana che Dio ha voluto fosse data da un padre e da una madre. La posta in gioco è un rifiuto diretto della legge di Dio incisa nei nostri cuori[...] Cerchiamo di non essere ingenui: non è solo una lotta politica, è una pretesa distruttiva del piano di Dio. Non si tratta di un mero disegno di legge (questo è solo lo strumento) ma di una 'mossa' del padre della menzogna che cerca di confondere e ingannare i figli di Dio".

Leo Longanesi ieri e oggi

di Luca Fumagalli

In un’intervista rilasciata a «Il Tempo» nell’agosto del 1955, all’interno di una rubrica dedicata alle maggiori personalità del momento, Longanesi rispose alle domande del giornalista Enrico Roda. Il ritratto che emergeva era quello di un Longanesi disilluso, politicamente affranto, ma ancora capace di divertire e provocare: «Torno subito» aveva risposto con genialità alla domanda su quale epigrafe avrebbe voluto sulla sua tomba.
E Longanesi effettivamente è tornato, protagonista della recente biografia di Francesco Giubilei, e ritorna ogni qual volta la nostalgia coglie i cultori del bel mondo antico, quello fatto delle tante piccole certezze che costituivano lo spirito strapaesano, rurale e cattolico della penisola italiana. Un universo forse più mitico che reale, un contrappunto a quella volgare modernità con cui Longanesi non si riconciliò mai.
Ribelle incallito, disubbidiente, contemporaneamente al governo e all’opposizione, il giornalista romagnolo, fondatore tra l’altro de L’italiano, Omnibus e il Borghese, condusse un ‘esistenza votata a consumarsi tra la sparuta compagine dei vinti. Pochi erano disposti a recitare il ruolo degli sconfitti dalla storia, più facile era cambiare casacca e salire sul carro del vincitore al momento opportuno. Longanesi, invece, soffriva della malattia opposta: amava ormeggiare le sue idee presso i lidi meno frequentati, con la conseguenza di attirare su di sé l’odio dei più. Fascista critico durante il Ventennio, si ritrovò, in epoca repubblicana, a rimpiangere Mussolini e con lui un mondo irrimediabilmente perduto (e questo anche se fu tra quelli che il 25 luglio del 1943 festeggiarono in piazza, a Roma, la caduta del Duce).
Da bambino il piccolo Leo aveva sicuramente ascoltato le storie delle scorribande del suo concittadino Stefano Pelloni, detto “il Passatore”, che nella prima metà dell’Ottocento aveva compiuto gesti spettacolari creando grande scompiglio tra i cittadini e la Gendarmeria Pontificia. Longanesi non si scrollò mai di dosso il fascino per lo spirito di libertà e indipendenza dalla legge del Passatore.
Tutto questo, però, aveva un prezzo: l’anticonformismo esasperato – «eppure è sempre vero anche il contrario» amava ripetere – rischiò spesso di trasformarsi in pura anarchia, in provocazione fine a se stessa, un limite di cui Longanesi era consapevole: «Sai chi sono io? Sono un ago che punge e punge, ma non ha mai cucito niente».
Fu comunque uno dei più brillanti fustigatori del Bel Paese, e lo fece con grande ironia, abbinando il talento letterario a quello artistico, sperimentando impaginazioni e soluzioni grafiche rivoluzionarie. Tutto questo mentre con il suo carisma allevava la futura classe dirigente del giornalismo nazionale e si divertiva ad additare al pubblico ludibrio le malefatte del potente di turno.
Leo Longanesi. Il borghese conservatore è una biografia facile e godibile, ricca di illustrazioni che contribuiscono a rendere ancora più appassionante il viaggio del lettore attraverso la vita di Longanesi. Giubilei imbastisce una narrazione convincente che, sebbene tutt’altro che esaustiva, regala uno spaccato accattivante, infarcito di testimonianze e citazioni.
Un ottimo libro dunque per approfondire la figura del gran maestro di ogni contestatore: «Non fu soltanto uno spirito libero; fu uno spirito chic, che è cosa immensamente più rara».

Il libro: Francesco Giubilei, Leo Longanesi. Il borghese conservatore, Bologna, Odoya, 2015, 200 pagine, 18 euro.

martedì 7 giugno 2016

Ah la “perla dello Jonio” resta senza libri.

di Domenico Bonvegna

Il noto giornalista e scrittore Aldo Cazzullo sulla prima pagina del Corriere della sera del 29 maggio lancia l'allarme sulla chiusura dell'unica libreria di Taormina, la località turistica più famosa del Sud, la storica tappa del “Grand Tour” di Wolfgang von Goethe:“Quando chiude una libreria tutti perdiamo qualcosa”. Certamente per uno che passa quasi sempre una parte del sabato pomeriggio in una libreria dei Navigli milanesi, la chiusura di una libreria fa un certo effetto. Peraltro, mesi fa ha chiuso anche qui una storica libreria in corso San Gottardo nel ticinese milanese. E' da troppo tempo che il libro, ma tutta la carta stampata sono in crisi. Ogni tanto saltano fuori statistiche dove emerge che gli italiani leggono poco e in particolare al Sud. Tempo fa in tv mentre si commentava il grave episodio in un comune calabrese dove una candidata del Pd ha dovuto rinunciare alla candidatura perchè minacciata dalla criminalità locale, perfino un funzionario della polizia sottolineava che nel Sud, la lettura, la cultura e quindi tutto quello che ruota intorno, non vale niente.

Anni fa ho letto un articolo dello scrittore Ferdinando Camon che mi colpì molto per la sua scandalosa provocazione. Il titolo era, “Se non leggi non vivi”. Camon s'interrogava sul perchè bisognava leggere, che cosa significa leggere e cosa significa non leggere. Tra l'altro fa una riflessione utile per capire il funzionario di polizia,la lettura è una vaccinazione, - secondo Camon - chi non legge non si vaccina. Le malattie contro le quali agisce questa vaccinazione sono l'ignoranza, la disinformazione, il disinteresse per la vita politica, l'asocialità. Sono malattie gravi. Le conseguenze di queste malattie gravano sulla società. La società ha interesse a sconfiggere queste malattie, come ha interesse a sconfiggere il vaiolo o le altre malattie endemiche [...]”. In un crescendo sempre più nella provocazione Camon chiude scrivendo che,colui che non legge non può essere un buon figlio, o buon padre, o marito, o cittadino, o buon elettore. Vota male perché è ingannabile, decide male per sé e per i figli, esprime giudizi disinformati, è un danno per la democrazia”. (Ferdinando Camon, Se non leggi non vivi. 5. 5. 2010 Avvenire).
Probabilmente le tesi di Camon possono apparire estreme, liquidatorie, soprattutto quando scrive chesono i libri che ti raccontano e ti spiegano la vita degli altri, tuoi contemporanei o tuoi progenitori. Leggendo, con-vivi con la vita di tutti. Non-leggendo, ti separi da tutti, non li raggiungi più, ti perdi. C'è un numero altissimo di italiani che non leggono nemmeno un libro all'anno: non sono italiani, non sono europei, non sono in collegamento con l'Italia o con l'Europa, non sono in collegamento nemmeno con l'umanità. L'umanità è un intreccio di miliardi di vite, che toccandosi si scambiano informazioni, domande, risposte, scoperte, dubbi. Lo fanno per mezzo della lettura. Chi non legge, non partecipa a questo scambio, ne resta fuori, si esclude dall'umanità. L'umanità parla a tutti, tranne a coloro che non leggono”. (Ibidem).
A questo punto come non pensare alla nostra scuola italiana che non ti aiuta a studiare, lo scrive da tempo la professoressa Paola Mastrocola nei suoi libri. Nella scuola italiana è scomparso il libro, l'idea di studio, sostiene la professoressa.
 Ma la colpa di tutto questo non è dei giovani, é degli adulti, degli insegnanti, che a parole con molta ipocrisia fanno finta di affermare il valore della lettura, ma poi sono i primi a non leggere niente.Il libro di fatto, non esiste più nella nostra vita[...] ci siamo costruiti una vita in cui leggere è impossibile, impensabile, inattuabile”.I nostri figli sono stati educati a vivere senza libri, al massimo se c'è viene tenuto per bellezza nelle nostre eleganti biblioteche.
Ritornando al caso della libreria di Taormina, sembra che il giornalista del Corriere conosca i motivi della chiusura. Ma visto che stiamo affrontando temi socioculturali vorrei lanciarne qualche altro a proposito della“Perla dello Jonio”. Per la verità l'avevo fatto qualche anno fa, facendo delle considerazioni in merito alle difficoltà che stava avendo il mio amico padre Salvatore Sinitò nel promuovere la missione evangelizzatrice in quel territorio. Visto che ogni pastorale religiosa ha anche una valenza socioculturale, esprimevo delle riflessioni sull'ambiente taorminese senza voler giudicare i singoli. Peraltro ricordavo che avevo trascorso quasi dieci anni nel territorio taorminese essendo insegnante e quindi operante sul territorio.
Sostanzialmente ponevo degli interrogativi sulla vita taorminese, prima di tutto a me stesso. Come mai in un centro così conosciuto in tutto il mondo, con una ricezione alberghiera tra le più rinomate del globo, non esiste una radio degna di questo nome, (ricordo un particolare, per essere intervistato, l'ex sindaco e professore Mario Bolognari venne da noi a Raj Stereo Sound di Sant'Alessio) una televisione (l'unica emittente ha sede nella riviera jonica e peraltro pecca molto di “provincialismo”, per non dire altro), non esiste un giornale, addirittura, forse non esiste un sito internet all'altezza della città. E che dire dell'edicola di Castelmola, altro centro turistico, attaccato a Taormina, dove ogni mattina arrivavano (ora non lo so) solo 3 quotidiani, per giunta di una sola testata, per la precisione, La Sicilia di Catania.
Ricordo che allora un lettore mi criticò aspramente sui socialnetwork rasentando il delirio perchè avevo osato trattare Taormina alla stessa stregua di un Burkina Faso qualsiasi.
Tuttavia le mie erano soltanto degli interrogativi che ponevo e continuo a porre oggi, anche se non so se nel frattempo, in questi ultimi anni, sia “sbocciato”, sia nato qualcosa in più, ma temo di no visto che perfino il Corriere della Sera ricorda ai suoi lettori che sta chiudendo uno spazio culturale come la libreria Bucolo . 

sabato 4 giugno 2016

Leonardo Eulero: matematico, filosofo (in lotta con Voltaire)

di Francesco Agnoli

Considerato tra i più grandi matematici di ogni tempo, senza dubbio il più grande del Settecento, Leonardo Eulero è stato dimenticato per quanto riguarda la sua produzione filosofica. Il motivo? Le sue idee non andavano a genio ai brillanti divulgatori contemporanei, come Voltaire, Condorcet, Diderot… che conoscevano Eulero molto bene. E non si capacitavano come colui che era riconosciuto da tutti come il massimo ingegno scientifico del tempo, non condividesse la loro filosofia e traesse dai suoi studi e dalla vita conclusioni teologiche ben diverse dalle loro.
Ricorda John Derbyshire: “Ci è stato raccontato che Eulero, mentre viveva a Berlino (presso l’Accademia di Federico di Prussia, dove era ospite anche Voltaire, ndr), ‘tutte le sere riuniva la famiglia e leggeva un capitolo della Bibbia, che accompagnava con una preghiera’. E questo accadeva mentre frequentava una corte alla quale, secondo Macaulay, ‘l’assurdità di tutte le religioni conosciute tra gli uomini’ era l’argomento principale della conversazione”.
Di seguito un brano dal libro: Leonardo Eulero, “il” matematico dell’età illuminista (Francesco Agnoli, Cantagalli, Siena, maggio 2016, p. 92, euro 8).
[…]
Nelle sue Lettere ad una principessa tedesca su diversi soggetti della fisica e della filosofia1, indirizzate alla nipote di Federico II e destinate a diventare un best seller, Eulero entra nel dibattito contemporaneo intorno alle questioni fisiche, astronomiche, matematiche… Si occupa di corpi celesti, della Luna, della forma della Terra, della gravitazione, del magnetismo, dell’elettricità, dei parafulmini… ma anche di questioni filosofiche e teologiche.
Nonostante alcuni lo invitino a lasciare il campo, e considerino i suoi interessi teologici una sorta di vezzo analogo alla passione di Newton per la Bibbia in generale e l’Apocalisse in particolare, Euler non cede: crede che la matematica e la fisica, sin dai tempi di Talete, sono figlie della filosofia, e che ad essa, in determinati casi, riconducono.
Così nella lettera 80, intitolata Sulla natura degli spiriti e datata 29 novembre 1760, critica i filosofi materialisti perché “nulla vi potrebbe essere di più urtante del dire che la materia è capace di pensare. Pensare, giudicare, ragionare, sentire, riflettere e volere sono qualità incompatibili con la natura dei corpi, e gli esseri che ne sono in possesso devono essere dotati di una natura del tutto differente. Tali esseri sono le anime e gli spiriti, fra i quali quello che possiede tutte queste qualità nel più alto grado di perfezione è Dio”.
Prosegue poi sostenendo che i materialisti “si fanno vanto del titolo esprits forts, quantunque vogliano bandire dal mondo l’esistenza degli spiriti, cioè degli esseri intelligenti e ragionevoli. Ma tutta questa saggezza immaginaria, di cui ancora oggi si vantano coloro che, affettando il carattere degli esprits forts, vogliono distinguersi dal popolo, tutta questa saggezza immaginaria, dico, trae origine dal modo grossolano con cui si è ragionato sulla natura dei corpi, cosa che non torna certamente a loro gloria […] E’ dunque certo che in questo mondo vi siano due specie di esseri: gli esseri corporei o materiali, e gli esseri immateriali o spiriti, che hanno natura assolutamente differente… Non c’è nessun dubbio che gli spiriti costituiscano la parte più importante del mondo e che i corpi esistano solo per stare al loro servizio […] Ora questa unione di ogni anima con il suo corpo è, e senza dubbio resterà, il più grande mistero dell’onnipotenza divina, mistero che non potremo mai penetrare”2.
Nella lettera 89 Euler scrive: “Dopo tali riflessioni, Vostra Altezza durerà fatica a credere che ci siano mai stati uomini capaci di sostenere che tutto il mondo era solo un’opera dovuta al puro caso, senza nessun disegno.Pur tuttavia ce ne sono stati in ogni tempo, e ve ne sono ancora: ma si tratta di persone che non hanno nessuna solida conoscenza della natura, o piuttosto di persone che il timore di essere costrette a riconoscere un Essere supremo ha fatto precipitare in questa stravaganza”.
Nella lettera 90 si trovano una spiegazione e un elogio della preghiera; nella lettera 92 Euler afferma che “l’anima non esiste in un certo spazio (non avendo estensione, e quindi neppure divisibilità, come i corpi, ndr), ma agisce in un certo spazio”; nella lettera 93 definisce la morte come “la dissoluzione dell’unione sussistente fra l’anima e il corpo durante la vita”, mentre nella lettera 94 ricorda che “l’anima agisce sul corpo” e “il corpo agisce sull’anima”; nella lettera 96 prende le distanze sia dall’idealismo sia dal materialismo, che però viene considerato più “assurdo” ancora dell’idealismo; nella lettera 97 scrive: “Ma il legame che il Creatore ha stabilito fra la nostra anima e il nostro cervello è un mistero così grande che noi non sappiamo altro che certe impressioni prodottesi nel cervello, là dove è dimora dell’anima, suscitano nell’anima certe idee o sensazioni; ma il come di questa influenza ci è assolutamente sconosciuto”; nella lettera 111, dedicata ai mali morali e fisici, scrive che “la virtù è l’unico mezzo per rendere uno spirito felice”, e aggiunge: “Gli esprits forts, sentendo parlare dei diavoli, vi ironizzano sopra; ma come gli uomini non possono pretendere di essere i migliori di tutti gli spiriti ragionevoli, così essi non possono vantarsi neppure di essere i più malvagi; vi sono indubbiamente esseri più malvagi degli uomini, più maliziosi, e questi esseri sono appunto i diavoli”.
Infine, nella lettera 113 sostiene che “il peccato allontana gli uomini da Dio e li rende incapaci di pervenire alla vera felicità”, mentre nella 115, che ne precede altre, volte a confutare le posizioni degli scettici, si legge: “tutte le verità accessibili alla nostra conoscenza si dividono in tre classi essenzialmente distinte. La prima classe comprende le verità dei sensi; la seconda le verità dell’intelletto; e la terza le verità della fede…”.[…]

giovedì 2 giugno 2016

Il Referendum che divise l'Italia dalla Monarchia alla Repubblica 2-19 Giugno 1946

Il 2-3 giugno 1946 italiane e italiani furono chiamati a scegliere tra monarchia e repubblica e a eleggere l'Assemblea Costituente. I risultati delle votazioni furono e rimangono molto discussi. Misero in evidenza la profonda differenza tra le regioni del Mezzogiorno e le isole, prevalentemente e talora nettamente monarchiche, da quelle dell'Italia centro-settentrionale (con l'eccezione del Lazio), che, non va dimenticato, aveva alle spalle venti mesi di Repubblica sociale italiana e di guerra civile. Anche nelle regioni settentrionali gli esiti non furono affatto omogenei. In quattro province prevalse la Monarchia: Cuneo e Asti nella Circoscrizione Cuneo-Asti-Alessandria (nel cui ambito essa risultò tuttavia minoritaria, a causa dell'orientamento nettamente repubblicano dell'Alessandrino), Bergamo e Padova.
In Piemonte (all'epoca comprendente la Valle d'Aosta) la Repubblica ottenne il 57,1% dei voti validi; in Liguria il 69%, in Lombardia il 64,1%, nel Trentino del democristiano Alcide De Gasperi un bulgaro 85%, nel Veneto il 59,3 e in Emilia-Romagna, slittata in massa dal filofascismo al socialcomunismo, il 77%.
Manca una storia esauriente del cambio istituzionale. Occorrono ricerche analitiche sul territorio e la rimozione di tanti luoghi comuni. Il nostro editorialista Aldo A. Mola, autore di Il referendum monarchia-repubblica del 2-3 giugno 1946. Come andò davvero?, con prefazione della Principessa Maria Gabriella di Savoia (Ed. Bastogi Libri, pp. XXI+440, maggio 2016) in due articoli passa in rassegna quegli eventi e i molti dubbi che ancora li avvolgono.
     Red. di Aldo A. Mola

I referendum spianano la via ai regimi

La Repubblica italiana non è nata il 2 giugno 1946 ma il 19, quando uscì il n. 1 della sua “Gazzetta Ufficiale”. Il 2 giugno è una data convenzionale, come il “25 aprile”, che cerca di dare valenza nostrana alla fine della guerra tra anglo-americani e tedeschi in Italia, chiusa il 2 maggio1945. Benché superfluo, va precisato che il 19 giugno 1946 non nacque uno Stato Nuovo. Rimasero vigenti codici, leggi e decreti emanati durante il Regno. Le forme passano, gli Stati restano, se non vengono annientati. Merito storico indiscutibile di Vittorio Emanuele III fu di aver propiziato la resa dell'Italia agli anglo-americani (3-29 settembre 1943) evitandone la debellatio, sorte riservata invece alla Germania.
Il 2 giugno 1946 fu il primo dei due giorni del referendum sulla forma dello Stato e dell'elezione dell'Assemblea Costituente, chiamata a tagliare l'abito sul corpo preferito dai votanti. Secondo l'Istat (Elezioni per l'Assemblea Costituente e Referendum Istituzionale, febbraio 1948) gli elettori erano 28.005.449. Per motivi diversi, tre milioni (quasi il 12%) rimasero esclusi dal voto (prigionieri di guerra, cittadini di province inquiete o occupate, radiati per motivi politici o non reperiti dagli uffici elettorali comunali). Su 25 milioni di votanti i partiti dichiaratamente monarchici alla Costituente ottennero circa due milioni di suffragi e un numero modesto di seggi, mentre al referendum la monarchia ottenne 10.719.284 voti contro i 12.717.923 assegnati alla repubblica. Le schede bianche, nulle, contestate e non assegnate sommarono a circa 1.509.735, pari al 6,1% dei votanti). La repubblica ottenne quindi il 54% dei voti validi: un pelo più del 50% dei votanti e il 45% degli elettori. Nacque minoritaria. Però l'Assemblea Costituente, ove i repubblicani erano maggioranza schiacciante (Partito comunista, Partito socialista, Democrazia cristiana i cui dirigenti monarchici vennero zittiti, Partito d'azione…), ignorò i quasi undici milioni di cittadini monarchici, confiscò la volontà degli italiani, blindò la forma repubblicana dichiarandola immodificabile per via costituzionale (art. 139 della Carta), vietò il rientro e soggiorno in Italia dei re e dei loro discendenti maschi (confondendo “discendenti” con “eredi dinastici”, un oceano), criminalizzò la restaurazione della monarchia e i monarchici stessi, declassati a “nostalgici”, (termine spregiativo che li accomunò ai “fascisti”) e scatenò una ottusa damnatio memoriae dell'età sabauda (1848-1947), che pure fu tutt'uno con il Risorgimento e l'unificazione d'Italia.
Quel referendum non fu traumatico di per sé, per come venne concepito e svolto. Esso però offrì ai vincitori (terrorizzati dalla modestia del loro “successo”) la via per attuare una lacerazione radicale, storica ed etica tuttora aperta.
Del resto i referendum sono destinati a dividere. Instillano nel vincitore la sete di annientare il vinto e di perpetuare la sua vittoria rottamando l'avversario, additato come nemico. Guerra civile permanente. Il primo referendum fu l'elezione a suffragio universale dei 749 membri della “Convenzione” (20 settembre 1792) che in Francia proclamò la Repubblica, dalla quale datò la “novella storia”, e ghigliottinò Luigi XVI e la regina Maria Antonietta, proprio per dare un taglio netto col passato. Altrettanto fece Napoleone I con i plebisciti dopo il colpo di stato del 18 brumaio 1799 e la creazione dell'Impero, suggellata con la fucilazione del Duca d' Enghien. Nel 1851 lo imitò suo nipote, Napoleone III, finito male. Per imporsi i regimi rivoluzionari hanno bisogno di referendum e/o di plebisciti. Gli Stati solidi no. Il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda non ha neppure una costituzione. Esso c'è, come mostrano i riti, celebrati dalla sovrana novantenne, come ricorda Francesco De Leo in Elisabetta II Regina (ed. Aracne).
Gli Stati durevoli reggono sulla distinzione tra sovrano (o presidente, nelle repubbliche presidenziali), loro incarnazione formale e sostanziale, esecutivo, legislativo e ordine giudiziario, tutti incardinati sul Capo dello Stato: esattamente l'opposto di quanto accadde in Italia nel giugno 1946, quando il presidente della Repubblica fu investito di poteri da definire e il governo tenne per sé il legislativo mentre l'Assemblea (prorogata due volte) redigeva la Carta. Successivamente la Costituzione è stata ripetutamente modificata. Recentemente essa è stata stravolta da un Parlamento dichiarato in parte illegittimo dalla Corte Costituzionale, screditato dai cambi di casacca dei suoi componenti, ricattato con l'asfissiante richiesta di voti di fiducia (un assurdo per riforme costituzionali) da un governo infine obbligato a sottoporre le modifiche a referendum confermativo: occasione unica per i cittadini di dire la loro dopo anni di espropriazione della loro sovranità.
La consultazione degli elettori su temi etici e costituzionali ha sempre spaccato e lacera il Paese. Avvenne nel giugno 1946. Lo sarà nell'ottobre 2016. Perciò il referendum di 70 anni or sono merita l'attenzione sinora elusa dalla narrativa, che solitamente liquida il cambio monarchia/repubblica con un retorico omaggio al “re gentiluomo” che “tolse l'incomodo”, come, in estrema sintesi, ripete Gianni Oliva in Gli ultimi giorni della monarchia (Mondadori).

Dallo Statuto albertino alle “costituzioni provvisorie” (1944-1946)

Negli strumenti della resa incondizionata, gli anglo-americani non posero in discussione la monarchia, chiamata anzi a garantirne l’applicazione, a cominciare dalla consegna della flotta. Quando il Re lanciò agli italiani il messaggio radiofonico da Brindisi (12 settembre 1943), nelle regioni non occupate da reparti germanici i cittadini consapevoli capirono che lo Stato era salvo. Iniziava la ricostruzione. Altrove però il quadro risultò del tutto diverso. A Roma il 16 ottobre il Comitato centrale di liberazione nazionale dichiarò la monarchia complice del fascismo e chiese un governo formato dai partiti. Anche il Re lo voleva, ma incontrava la riluttanza del capo del governo, Pietro Badoglio, “marionetta” nelle mani degli anglo-americani come scrisse Paolo Puntoni, aiutante di campo del sovrano. Il 28 gennaio 1944 il sedicente congresso dei CLN, autoconvocato a Bari, chiese con veemenza l’abdicazione del Re. Si accodò anche Benedetto Croce. Badoglio, piagnucolando, propose al re di abdicare, ignorare il figlio, Umberto di Piemonte, e di passare la Corona al nipote, Vittorio Emanuele principe di Napoli, di soli sette anni, tutelato da un Reggente: si offrì egli stesso. In violazione dello Statuto. Fu il napoletano monarchico Enrico De Nicola a proporre la Luogotenenza, figura prevista dallo Statuto.
Il 14 marzo 1944 Stalin, Capo dell'URSS, riconobbe il governo Badoglio per sparigliare il gioco degli anglo-americani nel Mediterraneo. Il 27 il comunista Palmiro Togliatti, arrivò a Napoli dall’URSS, via Algeri, per attuare la “svolta partecipazionistica” su mandato di Stalin. Il 12 gli anglo-americani imposero ruvidamente al Re di farsi da parte e di trasferire tutti i poteri al figlio. A Vittorio Emanuele non restò che accettare. Il 27 aprile a Salerno nacque il secondo governo Badoglio, comprendente i sei partiti del CLN. I ministri giurarono sul proprio onore. Il 5 giugno Umberto divenne Luogotenente del regno.

Il referendum fu il punto di arrivo di una serie di modifiche formali e sostanziali dello Statuto. Il 25 giugno 1944 il Luogotenente Umberto emanò il decreto 151, il cui articolo 1 recitava: “Dopo la liberazione del territorio nazionale le forme istituzionali saranno scelte dal popolo italiano che a tal fine eleggerà a suffragio universale diretto e segreto una assemblea costituente per deliberare la nuova costituzione dello Stato”. Rimise la sovranità ai cittadini. Malgrado la “tregua istituzionale” promessa dai partiti, si moltiplicarono violentissimi attacchi alla Corona. Ne furono approdo il  libello di Luigi Salvatorelli Casa Savoia nella storia d'Italia e i “manifesti” diintellettuali repubblicani” in gran parte ex fascisti petulanti.
Per preparare la futura Costituente, il 5 aprile 1945 fu istituita una Consulta nazionale di 304 membri (poi elevati a 430). Si insediò il 25 settembre. Presieduta da Carlo Sforza, cavaliere della SS. Annunziata ma repubblicano così vociferante da infastidire il premier britannico Winston Churchill, essa fu composta quasi esclusivamente da repubblicani. Il ministero per la Costituente, istituito il 31 luglio 1945, a sua volta formò varie commissioni, una delle quali (con 84 membri, quasi esclusivamente repubblicani, presieduta da Ugo Forti), tracciò le linee della futura Carta.  
Al termine della guerra (2 maggio 1945), il contributo delle Forze Armate alla liberazione fu messo sotto silenzio. Il Luogotenente incontrò seri ostacoli a visitare l’Italia settentrionale. Il socialista Sandro Pertini, futuro presidente della repubblica, vantò le fucilate contro le finestre della dimora milanese che lo ospitava. Se solo lo avessero potuto, altrettanto avrebbero volentieri fatto tanti militanti della Repubblica sociale, la cui velenosa propaganda antisabauda giovò enormemente al successo dei repubblicani nell'Italia centro-settentrionale.

La preparazione delle votazioni

Dopo un lungo braccio di ferro politico, il 16 marzo 1946 il Luogotenente emanò i DLL n. 98 e 99  su referendum istituzionale ed elezione dell’Assemblea Costituente. Erano in corso le elezioni amministrative, indette anche per tastare il polso dell’elettorato. Per la prima volta le donne vi esercitarono il diritto di voto attivo e passivo. Alle urne furono chiamati 19.548.888 elettori di 5.680 comuni: 3.158 dell’Italia meridionale e insulare, 804 della centrale, 1.255 del nord. Votò il 79,37% degli aventi diritto. I democristiani conquistarono 2.020 comuni, contro i 1.985 dei socialcomunisti. Agli altri andarono le briciole. I liberali, in parte monarchici, ne ebbero 99; 345 andarono a concentrazioni di centro, 65 a blocchi di destra.
L’articolo 2 del DLL n. 98 sancì: “Qualora la maggioranza degli elettori votanti si pronunci a favore della Repubblica...”. Il DLL 219 del 23 aprile seguente sulle norme per lo svolgimento del referendum dimenticò che la maggioranza andava calcolata sulla base dei votanti, comprese schede bianche e nulle, e prescrisse che gli Uffici centrali circoscrizionali (Corti d’Appello o Tribunali ai sensi di precedente decreto) computassero solo i voti validi per la monarchia o per la repubblica.  “Appena pervenuti i verbali” degli uffici centrali circoscrizionali, il primo presidente della Corte suprema di cassazione, partecipi sei presidenti di sezione, dodici consiglieri e il procuratore generale, avrebbe proclamato “i risultati del referendum”. La Corte doveva anche deliberare su contestazioni, proteste e reclami presentati agli uffici delle singole sezioni elettorali, agli Uffici Elettorali Circoscrizionali (Ue-Cir) a quello centrale (Ue-Cen) o direttamente a essa. Un compito immane.
Sull'Italia incombeva la divisione dei vincitori della seconda guerra mondiale in blocchi contrapposti: USA, Gran Bretagna e (per quel che contava) Francia da un canto, URSS dall’altro. S’avvicinava inoltre l'intimazione del trattato di pace, duramente punitivo. L’Italia aveva urgenza di stabilità interna. Per i cittadini la scelta tra monarchia e repubblica investiva memorie, sentimenti, sogni. Per la generalità dei partiti Casa Savoia era un impiccio di cui liberarsi una volta per tutte. Così si andò alle urne. I votanti dovevano tracciare una croce accanto a (o sopra ) uno dei simboli.“Due rami di quercia e di alloro attorno a una testa turrita di donna” contrassegnava la repubblica; una corona (senza croce sommitale) sovrapposta alla Stella sabauda indicava la monarchia. Entrambi si stagliavano sull’Italia.
Il 9 maggio Vittorio Emanuele III abdicò e lasciò l'Italia per l'Egitto. In vista del voto, Umberto II  sciolse dal giuramento al “bene indivisibile del Re, dei Reali successori e dell’Italia” quanti l’avevano prestato entrando a servizio nei pubblici uffici. L’esito del referendum non era affatto scontato. Le votazioni si svolsero complessivamente in buon ordine. Fu una prova di maturità democratica.
Il governo De Gasperi-Togliatti-Nenni conosceva le condizioni precarie in cui si sarebbe svolta la consultazione. Il ministro dell’Interno, Giuseppe Romita, repubblicano anche per avversione verso   suo padre (come egli stesso scrisse nelle memorie), si cautelò. Fece stampare due serie di certificati elettorali: il 2C (normale) e 3C (sostitutivo del primo in caso di smarrimento, distruzione accidentale, ecc.): ottanta milioni di schede, tre volte più degli aventi diritto al voto. Alle prefetture   venne mandata una scorta di certificati sostitutivi corrispondente al 40% degli ordinari.

Quella immensa nuvola di carte avvolse le votazioni del 2-3 giugno 1946: la scelta tra monarchia e repubblica e l'elezione dell'Assemblea Costituente