di Anna Maria Bonfiglio
Quando
il gelido sospiro della solitudine avrà spento ogni vivida luce, ricorda che
c’è sempre un ultimo stoppino.
Triste
dimora quella che non conosce le cristalline risa di un bambino.
Se
la dignità è il nostro primo dovere, l’orgoglio è l’arma più pericolosa.
Spesso
ci attacchiamo a un’idea e ce la portiamo appresso per tutta la vita. Così
quando ci affezioniamo ad una persona ci leghiamo all’idea che abbiamo di essa
e a quello che vorremmo fosse per noi. E se anche ci procura pene e sofferenze
le cerchiamo attenuanti e giustificazioni, non tanto per generosità ma per
fornire a noi stessi il motivo del nostro attaccamento e per conservare
quell’idea che ci piace di avere. In ultima analisi costruiamo noi stessi la persona
che amiamo, le diamo forma e vita, intenzioni e reazioni, pensieri e gesti, e
poi ci sentiamo traditi se restiamo delusi.
La
vera solitudine è il non sapere stare con se stessi.
Il
martirio è la forma sublimata dell’autolesionismo.
Dio
ha dato agli uomini dei compiti che non sempre egli è in grado di svolgere nel
migliore dei modi.
“Sempre” è una parola piena di mistero e nello
stesso tempo il simbolo della nostra buonafede.
Lo
spirito può legarci più del corpo, ma la sintesi dell’anima e del corpo può
darci una parte di quella completezza a cui aspiriamo.
Dovremmo
permettere che qualcuno legga le pagine della nostra vita che gridano di più.
Solo così il grido potrebbe placarsi in un sussurro che chiede conforto.
I
ricordi non si possono distruggere come la pagina di un libro, essi sono
un’isola privilegiata alla quale non può accedere nessuno.
Vivere
nell’amore di ognuno e nel dolore di tutti: la preghiera più bella che possiamo
innalzare a Dio.
Ci
affezioniamo troppo alla vita, questa schiavitù ci affascina e ci soggioga;
siamo dominati dal desiderio di aspettare il domani, spezzare questo nodo ci
priverebbe del piacere perverso di soffrire fino all’ultimo spasimo.
La
coscienza uccide i sentimenti. Il volere andare a fondo in se stessi inibisce
l’immediatezza, soffoca gli impulsi. Il doversi allineare alla formula del
vivere “comune” avvelena la pura essenza del desiderio, sì che ogni nostro atto
distaccandosi dalle nostre intenzioni viene contaminato dal contatto con una
realtà organizzata in schemi: quello della morale, quello del peccato, quello
del dovere, quello della coscienza. Il libero arbitrio è una trovata di chi
vuole illudere se stesso, in realtà la libertà non esiste. Tuttavia il nostro
spirito anela a questa libertà, che proprio perché utopica, è quanto di più
desideriamo.
La
scienza crea, la scienza distrugge, la scienza fa rinascere: un cerchio che si
allarga senza mai chiudersi, contenendo tutte le innumerevoli capacità umane.
Non c’è in tutto questo qualcosa di divino?
Il
potere dell’intelligenza è illimitato quando essa si sviluppa come una quercia
in un terreno libero e non come un fiore dentro un vaso.
Il
mito di Amore e Psiche contiene la più bella metafora: l’amore è mistero. Non
bisogna mai tentare di indagarlo, di spiegarlo, di analizzarlo o teorizzarlo.
Occorre solo accettarlo nelle sembianze con cui si presenta, fidarsi e non
accendere mai “la lampada”, perché nel momento in cui volessimo tentare di
“conoscerlo” e farne un teorema o se volessimo penetrarne l’essenza, sarebbe
perduto l’incanto. Ci sono cose che la sola ragione non può chiarire e che
racchiudono l’imperscrutabile. L’amore è una di esse.
Un
giorno, sul filo della memoria, s’affacceranno immagini degli attimi compiuti.
Allora, nell’accostare a un volto le parole, ordiremo preziose trame. E tutto
ci apparirà più bello.
La
vita è un libro bianco dove è possibile scrivere qualunque cosa, anche la più
inverosimile e assurda vicenda.
*****
Freud
e la sua dottrina aprirono un nuovo orizzonte per indagare i problemi della
psiche e finirono per addebitare al sesso frustrazioni e problemi irrisolti.
Ora che il sesso non conosce più frontiere, ora che sono cadute le inibizioni,
superati i sensi di colpa, fugati tabù e costrizioni, possiamo forse dire di essere
più liberi e felici?
Mensch:
groviglio di pene, nodo inestricabile di sofferenza e solitudine, somma di
errori e incertezze, castello di speranze fallite e riconquistate.
Chi
ha la sorte di vivere a contatto con i propri genitori non può sottrarsi alla
pena di vederli invecchiare e avviarsi, giorno dopo giorno, alla meta ultima.
Ed è un’agonia lenta, uno strazio dell’anima. Loro, che ci hanno sostenuto
nella parabola ascendente, poco per volta, impercettibilmente, regrediscono a
uno stadio di ingenuità e di ostinazione simile a quello dei fanciulli. Il loro
fisico si corrompe, scema di forza e di volontà; la loro autorevolezza si
arrende e si riduce a piglio petulante. Ma sopravvive in loro l’amorevole
caparbietà di proteggerci, il desiderio di donarci l’unica ricchezza di cui
sono rimasti possessori: la loro esperienza.
Arriva
sempre il momento in cui bisogna fare i conti con il tempo che passa. Finita la
stagione giovane e oltrepassata l’età di mezzo, giunge infine “il tempo terzo”.
Non vecchiezza, ma età di riflessione, qualche volta di rimpianto, di
prospettive “altre”. I giovani venuti dopo di noi hanno percorso il proprio
cammino, li abbiamo visti studiare, lavorare, sposare e mettere al mondo nuove
vite. Talvolta guardiamo indietro e ci stupiamo di avere vissuto tanto, perché
dentro sentiamo di non essere ancora pronti a deporre le armi. Succede allora
di poter avvertire un senso di inadeguatezza al nostro presente e di provare il
timore di non doverci più attendere grandi cose dalla vita. Di sentirci
disarmati e impotenti di fronte ad un tempo che ci ricorda la dolcezza del
miele che abbiamo assaporato e al contempo ci lascia un retrogusto amaro per il
mondo che avremmo voluto e che non è.
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