di Antonio Pane
Per
prima cosa devo fare una confessione. Mi occupo di Antonio Pizzuto dal 1988,
ossia da quando mi capitò di comprare a Firenze, in una bancarella di libri
usati, Signorina Rosina. Dell’autore non avevo mai sentito parlare, ma
il titolo vagamente ‘gozzaniano’ mi incuriosiva, e il prezzo era davvero
modesto. Il libro mi sbalordì. Era bellissimo, ma di una bellezza aliena, senza
termini di paragone con quanto conoscevo. Da dove era spuntato? Aveva dei
precursori? E quali? Confesso che, dopo trent’anni di letture e di studi, non
sono in grado di dare una risposta esaustiva a questa domanda. Confesso che ogni
volta che rileggo Signorina Rosina (e lo ho riletto non so quante
volte), mi sembra di leggere un libro nuovo di zecca, un libro che ogni volta
torna a sorprendermi.
Sorprendente
è anche la vita di Pizzuto, che non assomiglia certo alla vita di uno scrittore,
come può essere quella di un Moravia o di un Pasolini. Pizzuto nasce a Palermo
nel 1893. È il primogenito di un avvocato e di una poetessa, ed è nipote di Ugo
Antonio Amico, una figura rappresentativa della cultura siciliana del secondo
Ottocento, un fine letterato che fra i suoi estimatori può annoverare Carducci,
Settembrini, Tommaseo, D’Ancona, Mazzoni. Il percorso educativo di Pizzuto non
è molto diverso da quello del ceto benestante e colto da cui proviene. Comincia
con una scuola elementare di impronta froebeliana, prosegue con il
Ginnasio-Liceo e la facoltà di Giurisprudenza (dalla quale uscirà laureato con
lode nel 1915) e si prolunga con la frequenza dei corsi di Filosofia e con una
seconda laurea, sempre con lode, che arriverà nel 1922.
Altrettanto
lineare è il suo iter lavorativo: nel 1918 entra per concorso nella Pubblica
Sicurezza con il grado di vicecommissario e rimane alla Questura di Palermo
fino al 1930, quando è chiamato al Ministero dell’Interno, con incarichi nella
polizia politica e nella polizia internazionale. Nel 1945 è promosso
vicequestore di Trento; nel 1946 diventa questore di Bolzano; nel 1947 è
chiamato a dirigere la questura di Arezzo, dove rimane fino alla fine del 1949,
quando, approfittando di uno ‘scivolo’, ottiene il pensionamento anticipato.
Da
questa vita di burocrate, una vita simile a quella di tanti figli della nostra
borghesia meridionale, viene fuori nel 1956 Signorina Rosina, il primo
dei libri ‘marziani’ di Antonio Pizzuto, o almeno il primo pubblicato con il suo
nome (nome leggermente modificato, in quanto all’anagrafe Pizzuto è registrato
come Antonino). Signorina Rosina è però un esordio sui generis,
perché il libro viene in realtà a coronare un quarantennio durante il quale
Pizzuto ha prodotto – dopo una serie di incunaboli costituita da vari sonetti e
novelle, dal romanzo Le aquile e da una «tragedia in cinque atti» – ben
cinque opere narrative fatte e finite: la Sinfonia del 1923; la Sinfonia
del 1927-28; Sul ponte di Avignone; Rapin e Rapier (composto tra
il 1944 e il 1948); Così (allestito tra il 1949 e il 1952). Di queste
opere, cui va aggiunto un altro gruppetto di novelle, solo Sul ponte di
Avignone è stata pubblicata: è uscita nel 1938, ma sotto pseudonimo, ed ha
meritato una recensione piuttosto cordiale di Adriano Tilgher. L’unico testo
apparso prima di Signorina Rosina, con il nome anagrafico Antonino
Pizzuto, è invece una traduzione: la traduzione, corredata di introduzione e
note, dei Grundlegung zur
Metaphysik der Sitten (Fondamenti alla metafisica dei costumi)
di Kant.
Più
che il punto di partenza di una regolare carriera letteraria Signorina
Rosina è dunque uno spartiacque: tra il quarantennio di lavoro ‘sommerso’ e
il ventennio di lavoro ‘alla luce del sole’ che produrrà altri nove libri
narrativi e si concluderà con la morte nel 1976, che coglie Pizzuto mentre sta
a imbastire un nuovo libro, significativamente intitolato Spegnere le
caldaie.
Signorina Rosina è quindi un frutto maturo. Un frutto che
presenta, come scrisse Contini, un autore «traumaticamente perfetto, rotondo
come un uovo». Ma è un frutto avvelenato, un frutto ad alto potenziale
esplosivo, una bomba capace di radere al suolo i monumenti del romanzo
naturalista. Ed è curioso che questo atto eversivo sia perpetrato da un signore
con una biografia da ‘conformista’, da onesto servitore dello Stato: un
gentiluomo che realizza il suo ‘delitto’ con i modi sommessi, cortesi,
inappuntabili, con l’aplomb di certi personaggi di Hitchcock.
Signorina Rosina è in primo luogo un attentato all’Unità.
Il ‘crimine’ è obliquamente dichiarato nel capitolo quindicesimo, quando
Compiuta legge in una lettera di Bibi che egli «stava cercando l’Unità» e,
scambiando questa fantomatica Unità con il giornale di Gramsci, lo esorta «a
guardarsi dalla politica, specie da quei cattivacci». Con questa battuta ‘alla
Totò’, una di quelle battute di cui talvolta si serve per alleggerire un
contenuto giudicato troppo serio per prenderlo sul serio, Pizzuto chiama
segretamente in causa il primo punto del manifesto di poetica che accompagnava
la Sinfonia del 1927-28 e che lo impegna a rinunziare «alla unità narrativa,
all’unità di azione». Ma Signorina Rosina non si limita solo a sbarazzarsi
delle famose unità aristoteliche. Signorina Rosina distrugge alla radice ogni
pretesa di rappresentare la realtà come qualcosa che ci sta di fronte e che
possiamo tranqu illamente riprodurre come un pittore riproduce un paesaggio.
Signorina Rosina mette fuori gioco tutti i procedimenti, tutto l’armamentario
del romanzo tradizionale (ossia gli strumenti che la maggior parte degli
scrittori continua ad usare senza problemi); e li mette fuori gioco dando piena
attuazione agli altri articoli della sua ascetica ‘professione di fede’. Il
famoso manifesto del 1928 contemplava infatti, dopo la rinuncia preliminare
all’Unità, «la rinunzia allo psicologismo e quindi, a uno studio dei
personaggi; la rinunzia alla presentazione di un ambiente, di un mondo
determinato e di conseguenza, la rinunzia a un colore fondamentale e dominante;
la rinunzia a ogni tesi particolare; la rinunzia a considerare la realtà da un
punto di vista meramente sensibile; la rinunzia a fare letteratura erotica; la
rinunzia a limitare la narrazione nel tempo e nello spazio; la rinunzia a
seguire una o altra formula determinata».
Di tutta questa attrezzatura romanzesca in Signorina Rosina
non c’è traccia, come non c’è traccia del dialogato, una risorsa diegetica cui
Pizzuto ha rinunciato a partire dal 1950. Ma, a dispetto di tutte le
‘rinunzie’, a dispetto di tutte le autolimitazioni che Pizzuto si impone,
Signorina Rosina non è per nulla un deserto alla Beckett, dove il silenzio è
saltuariamente interrotto da voci ‘fuori di testa’. Signorina Rosina è invece
un ‘tutto pieno’, uno spazio gremito di figure, una giostra di eventi, un
ininterrotto girotondo, in cui il finire di un’azione dà sempre la mano
all’inizio di un’altra azione. Questo vuol dire che le otto rinunzie non hanno
affatto abbassato il ‘tasso di narrabilità’ del mondo: lo hanno, al contrario,
potenziato. Dopo questa ‘cura dimagrante’ il mondo è diventato più ricco, è
diventato più vario. Le ‘rinunzie’ non fanno altro che esonerare l’autore dall’
obbligo del resoconto, dall’obbligo della completezza documentaria che induce a
enumerare tutti gli oggetti presenti in una stanza o tutti gli antefatti di una
data azione; le ‘rinunzie’ non fanno altro che conferire all’autore un’immensa
libertà costruttiva, la libertà di scegliere i propri soggetti senza esserne
condizionato, senza essere vincolato a una coerenza meramente esteriore.
La coerenza di Signorina Rosina, la sua mirabile coesione è
di natura diversa. Signorina Rosina si può leggere, si deve leggere come una
partitura musicale. Signorina Rosina non si propone di raccontare la vita di
Compiuta, la vita di Bibi, la storia della loro relazione. Si può dire, semmai,
che Signorina Rosina ‘enuncia il tema di Compiuta’, ‘enuncia il tema’ di Bibi, e
declina questi temi in sontuose variazioni, e li fa rincorrere l’un l’altro, e
li intreccia in molteplici modi, esattamente come accade in una fuga di Bach o
in un quartetto di Beethoven.
Signorina Rosina si può anche leggere, si deve leggere come
un film. Signorina Rosina è costruita a inquadrature parziali, a ‘scorci’ che
invitano il lettore a integrare quel che manca, intervento che Pizzuto chiama
«compartecipazione attiva» o, ricorrendo a un termine di Tommaso D’Aquino,
«contuizione»: un intervento che è paragonabile a quello dell’occhio dello
spettatore cinematografico, che mette in moto le immagini bloccate dei
fotogrammi.
Pizzuto può chiamare in causa il lettore perché aderisce
alla dottrina di Cosmo Guastella, il filosofo siciliano di cui da giovane era
stato devotissimo allievo, che afferma che la realtà è discontinua, consistendo
in una successione di stati distinti, e che il movimento è una qualità
attribuita alle cose dal nostro cervello. Questa concezione è alla base della
breviloquenza di Signorina Rosina: un laconismo che nelle opere successive sarà
portato alle conseguenze più estreme e il cui modello letterario si può far
risalire ad autori latini come Tacito o Sallustio, che Pizzuto ammirava. Come
esempio di concisione Pizzuto amava scherzosamente citare quel passo del Bellum
Iugurthinum dove si dice: «Il tizio fu catturato. La sua testa fu portata al
re». Un passo dove, come succede nel cinema, si salta l’evento centrale,
l’eccidio, lasciando a chi legge la facoltà di immaginarlo.
In Signorina Rosina non ci sono eventi centrali, non ci
sono passi antologici che si possono isolare, che possono esemplificare o
riassumere la storia. Volendo usare una metafora topografica, Signorina Rosina
si può paragonare a una città senza centro storico, una città dove si passa da
una periferia a un’altra. Signorina Rosina è costruita ‘in orizzontale’,
mediante la dislocazione ‘a macchia d’olio’ o, come dice Baldacci, ‘a muffe’,
di frammenti più o meno estesi o di fili narrativi indipendenti; Signorina
Rosina tesse una sorta di patchwork, compone un mosaico di spunti eterogenei,
istituisce una radicale democrazia narrativa, una ‘coesistenza pacifica’ di
azioni differenti, configura un mondo senza gerarchie, dove un’azione
secondaria può diventare più importante dell’azione principale e lo sfondo può
diventare più importante del primo piano.
In una lettera al suo amico ed editore Vanni Scheiwiller
Pizzuto sostiene che l’essenza delle sue pagine sta nel ‘superfluo’, sta nelle
‘pieghe’. Gli stessi protagonisti di Signorina Rosina, Bibi e Compiuta, non
rappresentano le ‘traiettorie di destini’ in cui Debenedetti faceva consistere
la forma-romanzo, non rappresentano parabole biografiche, non documentano un
qualsivoglia stato civile; Bibi e Compiuta restano, come scrive Contini, puri
luoghi geometrici, «punti di convergenza». Ma allora, di cosa sono fatti i
personaggi di Signorina Rosina? Di cosa parla Signorina Rosina?
La risposta è adombrata nell’incipit del quindicesimo
capitolo, che riassume il contenuto di una lettera di Bibi, e che recita: «chi
siamo noi così misteriosi, inconoscibili a noi stessi, che stiamo a farci qui
realmente mentre ognuno passa come può e sa le sue ore». Il tormentoso
interrogativo di Bibi rimanda di nuovo alla dottrina di Cosmo Guastella.
Secondo Guastella la realtà consiste solo e soltanto nell’atto della
percezione: esse est percipi. Se non si può ammettere una realtà indipendente
dall’io che la percepisce, allo stesso modo non si può ammettere un io
indipendente dalla realtà che percepisce. Alla luce di questa dottrina si
capisce perché la scena in cui Bibi, nell’ultimo capitolo, va a farsi visitare
dallo «specialista psichiatra» termina su una accorata invocazione: «questa è
la mia angoscia, il mistero che sto vivendo, un dove e un chi imperscrutabili,
mistero non solo fuori di me, ma in me».
Alla luce della dottrina di Guastella noi viviamo tra i
fantasmi che noi stessi abbiamo prodotto, la nostra vita procede senza requie
di percezione in percezione, ossia, come dice spesso Pizzuto, da un punto di
arrivo a un altro punto di arrivo, non è altro che il «pergere in infiniti
calchi offerentesi ogni dove» con cui Pizzuto conclude il suo libro intitolato
Penultime e che segue, per questa ragione, quello intitolato Ultime. Con questo
verbo latino coniugato all’infinito, un verbo che usato come intransitivo
indica l’andare innanzi, il dirigersi, il marciare verso, con questo verbo
pergere Pizzuto rappresenta plasticamente la nostra vita come un cammino ‘alla
cieca’, come un cammino attraverso le nostre ombre. ‘Alla cieca’ perché ogni
percezione vale per se stessa, perché non è possibile stabilire graduatorie tra
le percezioni, non è possibile distinguere tra realtà e sogno, non è possibile
ricondurre le p ercezioni alle loro cause efficienti. La nostra vita non è una
catena di cause ed effetti, la nostra vita è un susseguirsi di percezioni
‘anarchiche’, di percezioni che non si lasciano ordinare, che non si lasciano
addomesticare. Non a caso, all’inizio del romanzo più autobiografico di
Pizzuto, all’inizio del Ponte di Avignone, il narratore definisce la propria
esistenza «una successione discontinua di stati frammentari».
Questa
scena precaria del mondo, questo panorama in perenne mutazione fa nascere quel
che Pizzuto chiama «stato di dubbio»: vale a dire la condizione di chi rimane a
bocca aperta dinanzi a uno spettacolo inesplicabile, la condizione dello
stupore. Signorina Rosina vuol essere una testimonianza di questa meraviglia. E
noi lettori siamo chiamati a parteciparvi senza chiedere spiegazioni, siamo
chiamati a condividerla in semplicità, evangelicamente, da poveri di spirito.
Le sue figure fuggevoli, le sue figure che sembrano eclissarsi nel momento
stesso in cui appaiono, non sono importanti per se stesse, ma in quanto sono
messaggere di un transito misterioso, di un universo insondabile; insondabile
perché è in ogni istante un universo ulteriore, un universo che si autotrascende:
perché l’ultimo sarà sempre il penultimo. Un universo che si risolve nella sua
musica misteriosa: nelle risonanze, negli armonici di un accordo di cui non
potremo mai rintracciare la fonte, di cui avremo sempre un’infinita nostalgia.
Signorina Rosina non può che chiudersi su un suono, un suono che è tanto più
enigmatico quanto più è banale, il suono delle bottiglie della centrale del
latte che «cozzando tintinnivano come dei sonaglini».
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