mercoledì 11 marzo 2015

Testimonianza per Luzi

di Elio Giunta
 
Non so se la mia presenza in questa città quale scrittore, giornalista o intellettuale che dire si voglia, abbia recato qualche apporto utile, è certo però che per un fatto posso vantarmi di averle giovato: l’essere stato tramite perché Mario Luzi, figura di primo piano del Novecento europeo, venisse ad allacciarvi rapporti fertili con quanto vi ferveva nel campo letterario e delle istituzioni culturali.
Eravamo negli inquieti anni settanta, il 1977 per l’esattezza, quando venne per la prima volta da me invitato  per tenere un incontro sul tema: Il poeta e la contemporaneità. Erano anni inquieti, particolarmente a Palermo vibravano fermenti polemici, avevamo l‘avanguardia in prima fila, e sia circa la funzione della poesia che circa la posizione dell’intellettuale nel tempo. E d’altra parte Palermo era pure, come credo sia ancora, una città la cui cultura risente del predominio di uno storicismo atipico, scolastico, tardivo ed emarginante e in cui appunto la grande esperienza del simbolismo europeo non ha avuto se non scarsa e tardiva penetrazione. Luzi era inteso come presenza poetica di tradizione organica e in quel contesto persino analitica e provocatoria. Registrammo il testo di quell’incontro che potrà leggersi ancora come indicativo della sua poetica, giacché lui lo includerà nei saggi dal titolo “Discorso naturale”.  Da quella data,11 gennaio appunto del ’77, gli incontri di Luzi a Palermo proseguiranno con frequente periodicità, sin quasi a determinarsi a Palermo una specie di lunga e singolare stagione luziana della letteratura. Erano incontri curati nell’ambito dei cosiddetti Incontri studio di quel Centro Pitrè, che un po’ sollecitava la cultura cittadina ed ove solevano riunirsi diversi amici della poesia, in verità non del tutto anonimi.  In quell’ambito vennero presentate le ulteriori opere di Luzi, man mano che uscivano, dopo quella silloge “Nel magma”, che aveva segnato la svolta non solo formale della sua opera. Pertanto si ebbero, e sempre a nostra cura, e con la sua presenza, le diverse serate: su Il Libro di Ipazia – e qui mi piace ricordare come il manoscritto fu qui revisionato, passò graziosamente tra le nostre mani, tale si era fatta la nostra amicizia, e fu inviato all’editore dalla libreria Ciuni - ; sul “Rosales” ; su “Al fuoco della controversia”, su “Per il battesimo dei nostri frammenti”, su “Frasi e incisi di un canto salutare”, su “Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini”. Tutte opere queste che, circa l’iter creativo di Luzi non costituivano un rinnegare il percorso che dagli anni 30 gli aveva dato caratterizzazione e fama, ma erano l’accesso a un nuovo modo di porsi difronte al fluire dell’esistenza: non più contemplare questo fluire ma un costante sentircisi dentro e tentarne le ragioni. Sarà il passaggio da “Il giusto della vita” alle raccolte appunto de “Nell’opera del mondo” che, insieme ai testi teatrali, per decenni sollecitarono le nostre attese e le nostre consonanze.   Erano serate in cui ponevamo con entusiasmo il nostro impegno di studio verso quelle che erano ormai opere della nuova maturità di Luzi, una maturità come diversificazione di linguaggio, fattosi interlocutorio e più filosoficamente contaminato. Era un fare poetico che forse sentivamo più consono alla nostra visuale critico-creativa. Ma era anche che a Palermo avevamo già compreso le premesse e i motivi di evoluzione dell’opera luziana.
Egli non era mai stato l’anima bella e assente dell’Ermetismo, il gruppo che pure lo aveva avuto partecipe e prestigioso sostenitore; egli stava sì in quella cerchia fiorentina, ma in sostanza entro di essa, era il poeta che assumeva, con rara originalità d’invenzione linguistica ed immaginifica, tutto un sentire novecentesco dei primi decenni, quello che Natale Tedesco con felice termine avrà definito “la condizione crepuscolare”. E si badi, non la linea-progetto, ma la condizione. Perché è in questa che pure i cosiddetti ermetici si ritrovarono per poi recuperare nuovi riferimenti filosofici ed avviarsi ad una percezione più acuta e man mano più compromessa col divenire. Luzi perciò fu ermetico con singolare stile e spessore di pensiero, ma divenne presto e facilmente postermetico allorché la vicissitudine interiore gli gioverà legarla al volto concreto delle cose e la lingua non disdegnerà accedere pure all’uso comune. Perciò egli a Palermo era compreso e si sentiva compreso e familiare con quanti gli stavamo attorno.
Ma a Palermo egli pure molto comprendeva; non solo prestando attenzione alle cose che noi pubblicavamo, per alcune delle quali scrisse anche illuminanti prefazioni, e per alcune volle intervenire a discuterle; ma intrigandosi spesso e volentieri nelle vicende socioculturali che da noi si offrivano. Come non ricordare, ad esempio, il Convegno sulla narrativa siciliana che egli venne a presiedere e ad introdurre, portando anche con sé come relatori Geno Pampaloni e Giorgio Luti; allora dichiarò che la letteratura italiana del Novecento, senza la Sicilia sarebbe stata ben poca cosa. E la lezione che tenne a proposito di un Antologia della poesia Italiana contemporanea in Sicilia, pubblicata dal Pitrè, allorché gli piacque evidenziare come una buona volta in Sicilia si parlava di poesia che veniva coltivata non solo in dialetto. E la celebrazione del suo ottantesimo anno a Palermo, con gli studenti, in una mattinata al Teatro Biondo affollatissimo, ove ancora una volta tenne ad affermare il suo verbo tipico di fedeltà alla vita, in nome della poesia, quale forza insostituibile a tutela dell’umanità contro le incongruenze della società contemporanea. E resta indimenticabile il suo intervenire, proposito dei duri eventi, cioè le stragi che avevano afflitto la città. Nell’86 scriveva di Palermo “placida sotto le nuvole, ove ha aperto nel suo ventre un’officina di crimini e di morte”.  E definiva i suoi amici “simili ad uomini di mare, per i quali nulla è imprevedibile e restano aperti ad ogni segnale, catafratti ad ogni male”: gli amici che amava incontrare e dei quali occuparsi, divenuto infine tra di essi, soggetto motivante di coesione. Di questa sua apertura a problematiche civili, Palermo gli sarà di stimolo e lo spingerà ad estendere l’operare dell’uomo poeta oltre la soglia individuale fino a cogliere gli umori e le reazioni popolari e della cronaca. E di ciò fanno fede le due opere scritte su ordinazione del Teatro Biondo: Il “Corale della città di Palermo per Santa Rosalia” dell’89 e successivamente “Il fiore del dolore”, questo però pubblicato e rappresentato sempre al Teatro Biondo, solo nel 2003, dopo alcuni anni di attesa nei cassetti. Forse la scrittura di Luzi non aveva corrisposto alle attese delle istituzioni palermitane commissionanti ove, secondo i soliti limiti politico-culturali, magari si era prefisso di coinvolgere il prestigio del poeta al manifestare emotivo e politicizzato dell’ambiente palermitano; perché in realtà Luzi coinvolgeva invece gli eventi palermitani al tema dell’angosciante magma esistenziale del tempo ed oltre il tempo: in Luzi operava costante un’interiorità compromessa con le trame oscure  della vita e del tempo e di questo egli si era fatto coscienza critica. Perciò anche quella vicenda palermitana, l’omicidio di padre Puglisi, per lui stava nei termini dell’inesplicabilità del divenire e dell’insorgere del male. La crudezza del male, che era alla base de Il fiore del dolore, Luzi l’aveva risolta nella perplessità dell’uomo che si ritrova sempre inadeguato difronte alle imprendibili leggi dell’accadere. La sua era ancora poesia filosofica della vita. Una lezione questa che rimane o dovrebbe senz’altro rimanere tra le più significative e fertili che questo grande del secolo breve e del nostro ha lasciato nei rapporti col nostro sentire e col nostro valutare.
Ora, a cento anni dalla sua nascita e a dieci anni dalla sua scomparsa, ripensando ai suoi rapporti con Palermo, che cosa fissare in particolare, mentre troppo riaffiora nei ricordi e molto si è costretti e trascurare nella brevità di una testimonianza? Forse solo questo. Secondo quanto si legge in un recente pamphlet di Silvio Ramat a lui dedicato, Luzi amava Palermo e ci veniva spesso volentieri perché amava il sole e sentiva come a sé più consono il mite clima mediterraneo; io osservo che invece c’era molto di più. Palermo egli la vedeva come avvolta in un’aria di mistero, ipotizzava talvolta che nei suoi vicoli e tra le sue pietre secentesche si celasse qualche ammaliante enigma. C’era dunque che Palermo alimentava anche il suo spessore creativo, restando egli compreso come noi, o almeno come alcuni di noi, di quella perplessità alta che sogliono suscitare i gravi misteri della storia. E ne abbiamo tanti e ne conduciamo il peso, dal passato e dal presente. Forse non è tutto, ma credo sia già abbastanza. Grazie per l’attenzione.

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