Gustave Thibon (1903-2001) non è un nome molto noto. Negli
ultimi anni, tuttavia, aumenta il numero di coloro che si imbattono nella sua
figura, la esaminano, ne restano avvinti e cercano in ogni modo di farla
conoscere agli altri. Uno di questi è il giovane studioso molisano Nicola
Tomasso, che ha recentemente dato alle stampe “Il realismo dell’incarnazione.
Introduzione a Gustave Thibon” (Edizioni Tabula Fati), con una presentazione
del prof. Corrado Gnerre.
Si tratta di un’opera davvero pregevole, che si legge tutta d’un fiato e assai
utile per chiunque voglia sapere qualcosa in più sul grande filosofo e
pensatore francese, le cui riflessioni sono quanto mai attuali. Forse ancor di
più di quando le ha pubblicate. Se ne raccomanda quindi caldamente lo studio.
Ma chi era Thibon? La sua vita non è stata contraddistinta da fatti
straordinari e avventurosi, ma piuttosto dalla normale routine di ogni giorno,
che comunque, come insegnano i santi e i maestri dello spirito, se vissuta
bene, richiede un eroismo non inferiore a quello dei martiri. Insomma, è
possibile ed auspicabile fare della propria esistenza un’opera d’arte anche
senza compiere grandi gesta esteriori. Di certo, per tutto il lavoro di Thibon
è stata fondamentale la sua conversione al Cattolicesimo all’età di venticinque
anni, dopo una giovinezza imbevuta di laicismo e progressismo.
Il filosofo non divenne mai un accademico. Fu anzi autodidatta, imparando molto
di più che se avesse seguito un normale curricolo scolastico ed universitario.
Pur tra le conferenze a livello internazionale che era invitato a tenere, non
lasciò mai la sua attività agricola, tanto che è ancora comunemente indicato
come il “filosofo contadino”, nel senso più positivo dei due termini. Fu
proprio dal suo legame alla terra, alla concretezza, alla vita reale, che
trasse ispirazione per i suoi scritti. La sua è una filosofia profondamente
realista e quindi tomista, contraria alle astrattezze delle ideologie, tipiche
della modernità. Tutto ciò lo ha fatto schierare su posizioni conservatrici e
reazionarie (collaborò con l’Action française di Charles Maurras e durante la
Seconda Guerra Mondiale simpatizzò per il Governo di Vichy, ma non
dimentichiamo che fu molto amico della filosofa ebrea Simone Weil, che nel 1941
ospitò nella propria fattoria).
Non a caso Thibon considerava la Rivoluzione Francese del 1789 come la madre di
tutti i conflitti sorti nei secoli successivi. Il suo attacco al mondo moderno,
imbevuto di individualismo alienante, di consumismo becero e di edonismo
inappagante, è stato senza sconti. E infatti il “filosofo contadino”, come
scrive Tomasso «da un lato crede fermamente nel valore delle antiche
aristocrazie e di una distinzione tra le classi – funzionale ad uno scambio
organico – dall’altro critica fermamente il capitalismo così come si è
insediato in Europa e, al tempo stesso, vede nel ritorno alla terra un
importante antidoto contro i mali delle moderne società». Thibon quindi amava
la società organica della Cristianità medievale, antitetica a quella
contemporanea sorta dalla civiltà industriale e illuminista, di cui oggi
constatiamo la decadenza ed il degrado. In effetti, Tomasso rileva che «se le
moderne democrazie continueranno ad essere fondate soltanto sulla legge del
numero e del denaro, i popoli perderanno quei legami organici che donano loro
linfa e cederanno ad una ipertrofia statalista». Ad ogni modo, Thibon non è
stato un tradizionalista sterile e fissista. Anzi, amava affermare «la vera
fedeltà non consiste […] nell’impedire ogni cambiamento, ma più precisamente
nell’impregnare ogni cambiamento di eterno».
In Ritorno al reale, la sua opera più celebre, il filosofo contadino ha
condannato la perdita del senso di autorità e dei veri rapporti tra le classi.
Le cause, a suo parere, vanno individuate nell’allontanamento da Dio – peccato
da cui promana ogni male -, nell’egualitarismo e nell’abbassamento delle élite
al livello della plebe: se il liberalismo ha avuto successo, in effetti, lo si
deve ad «una nobiltà fiacca e molle che si crogiola nei suoi privilegi non
pensando ormai più di essere l’élite che ha come vocazione il sacrificio per la
salvezza del popolo». Da ciò deriva l’egualitarismo, che è puro orgoglio: per
Thibon, infatti, «dal momento in cui tutti sono in basso, nessuno deve più
abbassarsi! Psicologicamente vi è, fra l’umiltà cristiana e l’egualitarismo,
tutta la distanza che separa l’abbassamento volontario dalla bassezza
congenita».
Il filosofo francese denunciava anche l’obnubilamento del senso del peccato in
cui vive l’uomo contemporaneo, un’incoscienza che oggi pare favorita da molti
prelati, dimentichi che Cristo è morto in Croce per espiare le colpe
dell’umanità. Per questo, come commenta Tomasso, «mai come ora urge recuperare
la dottrina del peccato e della Somma Giustizia Divina: se l’uomo non riconosce
più il bene e il male, non ha senso avvicinarlo con i mezzi della Misericordia,
perché non saprebbe cosa farsene (visto che, non essendoci peccato, non vi è
peccatore di cui avere misericordia)».
Proprio perché ancorato al reale, Thibon può essere definito il filosofo del
buon senso. Quel buon senso che attualmente sembra scomparso. Di fronte a uteri
in affitto, farneticazioni su matrimoni e adozioni gay, a tentativi di
indottrinamento gender, ma anche di fronte alla fabbricazione e compravendita
di figli in provetta, alla mercificazione dei gameti, alla legittimazione
dell’omicidio dell’innocente con l’aborto o con l’eutanasia, la ragione, il
contatto con la natura e l’oggettività delle cose non esiste più. Prevale
l’astratta ideologia delle lobby Lgbt e dei gruppi finanziari che le
sostengono. Con grave danno per tutta l’umanità. La realtà è qualcosa di dato.
Volerla manipolare a proprio piacimento, tentando Dio come nuovi Prometeo è
solo fonte di frustrazione e dissoluzione, perché l’uomo non può prescindere
dalla sua dimensione creaturale.
Parole chiare e nette Thibon le ha scritte pure riguardo il matrimonio,
sacramento sul quale purtroppo sta regnando la confusione più totale in una
buona parte di cattolici e persino in diversi uomini di Chiesa, che con le loro
dichiarazioni sembrano essere più attenti alle lusinghe del mondo secolarizzato
piuttosto che alla verità del Vangelo. Riprendendo le riflessioni del filosofo
contadino, Tomasso nota come «la crisi della coppia va a braccetto con
l’adorazione dell’amore fine a sé stesso, un amore sempre più relegato ad una
dimensione di mera passionalità corporea prima, di assurdità dopo». Thibon era
un convinto sostenitore dell’indissolubilità e dell’unità del matrimonio,
elementi che per la tradizione cristiana hanno la precedenza sull’amore tra i
coniugi. Elementi, inoltre, che derivano direttamente dal diritto naturale, in
base al quale la procreazione e l’educazione della prole vanno di pari passo e
necessitano della presenza costante e continua, sino alla fine dei giorni, di
due genitori, di un padre e di una madre. L’autore ricorda che «nell’opera di
Thibon si evince come anche la devirilizzazione dell’uomo e l’affermazione
della “donna in carriera” minino le fondamenta dell’istituzione familiare».
Tomasso, in sostanza, condivide con Thibon l’idea che «perdendo il contatto con
le realtà profonde che nutrono e sostengono l’individuo (la terra, la famiglia,
la patria, la religione) l’uomo vaga all’estrema superficie di sé, ubriacandosi
di piaceri futili ed immediati, impoverendo la propria vocazione all’impegno e
al sacrificio». Il filosofo contadino aveva visto giusto e ha fornito un
ritratto perfetto, tristemente realistico, della società contemporanea.
(Federico Catani, La Croce quotidiano, 16 febbraio 2016).
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