di Carmelo Fucarino
Questo
decennio è stato nei secoli uno di quelli segnati per la cultura. Esattamente il 23 aprile 1616 se ne andarono entrambi William
Shakespeare e Miguel de Cervantes Saavedra. Per considerare i
piccoli fatti di casa nostra il 17 marzo 1916 morì a Palermo Salvatore Salomone-Marino, seguito
il 10 aprile dall’amico, Giuseppe Pitrè, anche lui etnologo, prima che si sapesse cosa fossero l’etnologia o il
folklore come scienze.
Davanti a questi giganti direi con il poeta, per poco
il cor non si spaura. Perciò mi
riservo di tornar con loro in un prossimo mio umile colloquio. Trovo più
adatto, anche se non più facile, trattare di un giovanissimo, piccolo grande,
che a soli 33, come Cristo, senza voler essere blasfemo, se ne andò il 9 agosto
di quel rovinoso 1916. Una foto in bianco e nero, in formato tessera, in posa e
agghindato, mostra il suo viso sorridente e per niente crepuscolare con un
vestito quasi divisa. Una fisionomia che ritrovo in tanti ritratti sgranati di
inizio Novecento, il volto bambino di un mio zio caduto sul Podgora per
redimerne una parte ingrata di Italia. Nel colore quasi di africano che ho
visto in tanti volti del Museo di Ellis Island.
Certo, in quell’anno Einstein pubblicò la sua teoria
della relatività e fu introdotta per la prima volta l’ora legale. Ma eravamo
anche all’epicentro della prima grande guerra con il primo impensabile bombardamento
di Milano a febbraio e l’inizio a maggio della Strafexpedition, terribile già
nella fonetica.
Per Guido Gozzano il male covava da anni, quel mal
sottile che si cercava di sconfiggere con la buona aria, nelle Baden Baden montane
o nei più modesti centri liguri di mare. La tisi ispirò Thomas Mann per la sua
titanica Montagna incantata e per la
più modesta Diceria di Bufalino. Era
stato il male delle damine aristocratiche di un’epoca romantica, ma anche la
dote onorifica delle soffitte dei bohemien, esemplare la Boheme di teatro e
musica e i casalinghi Scapigliati milanesi. Non si parlò del popolo minuto
falcidiato all’ingrosso. La malaria fu protagonista popolare.
La fama del poeta bambino corre ancora in una lunga sequenza
di siti internet legata ad un aforisma, quasi un refrain «Non amo che
le rose che non colsi» (Cocotte).
Purtroppo ci ha lasciato con questo mistero, di conoscere le sue rose non
colte. E la domanda: cosa avrebbe scritto ancora in prosecuzione di questo
infantile avvio? In che modo si sarebbe sviluppata la sua poetica in tale stato
esistenziale di perenne evoluzione, ma sospeso e fratto tra l’antico impresso
sulla pelle, tatoo indelebile, e il moderno sentire che urgeva? Circolava in tutta
la sua breve esperienza poetica questa tensione verso un desiderio inappagato
che diventava aspirazione onirica. Così si agitava già in altro ossimoro
dell’impossibile in Via del rifugio,
«vedo un quadrifoglio / che non coglierò».
Sulla sua
sperimentazione, diciamo esercitazione poetica, incombettero i giganti del
passato e del presente in progress, l’arcigno luciferino Carducci, anche lui dimidiato
tra il classicismo dei primi titoli latini e della irruenza dei giambi ed epodi
e dei ritmi barbari, fino all’approdo delle nuove rime e ritmi, e il Pascoli
che ondeggiava tra l’umiltà delle tamerici virgiliane e la dolorosa e pietosa
(da pietas) invenzione del canto a
voce spiegata di Castelvecchio, prima di esplodere e dispiegarsi nei poemetti,
secondo il progetto della IV ecloga, vv.1-3, Sicelides
Musae, paulo maiora canamus. /non omnis arbusta iuvant humilesque myricae; / si
canimus silvas, silvae sint consule dignae. Erano i
professori che si succedettero nella cattedra di italiano di Bologna, Carducci
fino al 1907, Pascoli fino al 1912. Con quest’ultimo Gaetano Trombatore mi costruì
nel corso particolare dei miei studi universitari le risonanze e le
anticipazioni simbolistiche, i simboli svelati ed abortiti, raccolti in
Memoria e simbolo nella poesia di Giovanni Pascoli (1975). Esemplare quell’infelice titolo Orfano, ma grandiosa Digitale
purpurea. Incombeva su tutti, nume tutelare, poeta romanziere tragediografo
commediografo, eroe ed esteta di vita, l’oceanico D’Annunzio, che avrebbe
imperato sulla poesia e sulla cultura italiana fino al 1938.
Tutto
si potrebbe dire di quegli anni. Eppure si parlò e si scrisse di crepuscolo
della letteratura. Sarebbero venuti anni più tragici in cui si sarebbe parlato
di decadenza. G.A. Borgese, quello del grande Rubé, inventò il neologismo, «mite e lunghissimo crepuscolo» (La Stampa del 10 settembre 1910). Ma i
critici son fatti così, vedono sempre nero, nessun artista va bene per loro e
prospettano sempre la fine del mondo. Non vogliono riconoscere che la società
si evolve e trasforma e quella che sembra una crisi è semplicemente una
trasformazione verso nuovi progetti o pura rimodulazione di antichissimi
fenomeni. Già quando si era esaurito lo slancio creativo della lirica e della
melica greca classica, in età alessandrina, i poeti cercarono l’originalità
nella raffinatezza stilistica o si esercitarono
in fantasiose composizioni grafiche,
inventarono la poesia figurata. Esempi eclatanti furono le composizioni di
Simmia di Rodi, i versi a forma di ascia bipenne (L’ascia), di ali (Ali),
di uovo (Uovo) o di siringa (Syrinx). Perciò esaurita la linearità
estetica e poetica del romanticismo e risolto il neoclassicismo romantico del
velo delle Grazie, in una fase definita anche decadente, le figure parlanti di
Guillaume Apollinaire, Il Pleut, con
il fiotto di versi.
Gozzano,
stretto fra questi giganti, per i pochi anni che gli furono concessi, trovò una
sua via alla espressione poetica. Eppure non mancarono le classiche rime e le
regole metriche, lo stantio di certi vocaboli ottocenteschi che mai osò
Pascoli. Ci fu questo scarto tra una conoscenza linguistica attardata al
linguaggio letterario della scuola e la volontà di superare le forme attraverso
l’inganno dei nuovi contenuti. E qua si rivelò l’impossibilità della
conciliazione. Occorreva la demolizione futurista per ri-cominciare. In seguito
la sua poesia si conformò ai tipi di una prosa ritmata, ma non poteva bastare
quello, l’umiltà del quotidiano e la prosaicità della resa a decretare la
nascita di una nuova poesia. Restavano i modelli letterari abusati, pur nella
sua aspirazione al loro ribaltamento.
Certamente
furono i contenuti a interessarlo, un mondo nuovo che il concetto altamente
eroico e sublime della poesia aveva trascurato, soprattutto disprezzato come
indegni di essere elevati a ritmo. Tuttavia se si considera tutta la tradizione
letteraria italiana c’era stata perenne questa aspirazione a rilevare il
poetico nella vita reale. Già Dante aveva manifestato questa scelta con la
qualità estetica della sua umile “comedia”, in opposizione all’eroico epico e
tragico. Invece il primo poeta lirico, Petrarca, aveva atteso l’alloro dalla
sua Affrica, considerando la lirica,
come vulgares res. Sempre tale
alternativa ossessionò la creazione italiana. Non mancò Manzoni di volgersi
agli umili, dopo la sua esperienza lirica e tragica dei grandi della storia. In
questa lettura della poetica romantica in Italia, il popolo come umile o la
società come eccezione alla norma, Pascoli, un professore di latino e greco,
passato alla cattedra di letteratura italiana, ritrovò la linea della
semplicità, spinto al quotidiano dall’esperienza della campagna elegiaca del
suo fanciullino, restato tale in margine alla tragedia familiare.
Gozzano
portò alle estreme conseguenze questa svolta poetica. Rimase sempre il verso
nella sua struttura dotta, in questa direzione non ci furono novità
eccezionali, quali quelle sbandierate dal futurismo e dai vari ismi fino alle
avanguardie. La veste estetica, scusate l’ardito pleonasmo, se estetica deriva
da estes, “veste”, l’ornamento rimase
identico. Cambiò la persona che l’indossava, donnette umili, simbolo di un
quotidiano che nulla aveva di eroico se non la propria misera esistenza
quotidiana, l’eccezionalità di questa umanità. Ed era ardito scegliere a
protagonisti di poesia quelle piccole donne, come le umili Agnese e Lucia, che rimangono
personaggi di romanzo, elevandole addirittura a soggetto di poesia. Alle Elettra
o Fedra o Ermengarda si sostituivano la Carlotta, la Felicità, etc.
Lo
straordinario dell’operazione stava nel fatto che all’estetica della raffinatezza
aristocratica si assumeva l’estetica delle piccole cose di pessimo gusto. Si
era pur sempre in un ambito di estetismo di contrapposizione. Di fronte alla
società delle passioni aristocratiche dannunziane si elevava in contraltare la
donna del popolo, con i suoi gusti e il vestire che imitava quello delle dame,
nella brama perenne di una elevazione sociale attraverso la moda, il galateo
spicciolo del modo di tenere la tazza del tè. Si elevava nell’imitazione
esteriore dei cappellini e delle gonne.
Eppure
egli stesso era consapevole del suo antiestetismo dell’estetismo, quando
prometteva a Felicita di volere rinnegare se stesso,
«Ed io non voglio più essere io!
Non più l'esteta gelido, il sofista,
ma vivere nel tuo borgo natio,
ma vivere alla piccola conquista
mercanteggiando placido, in oblio
come tuo padre, come il farmacista...
Ed io non voglio più essere io!».
E
ancora:
«M'apparisti
così come in un cantico
del Prati, lacrimante l'abbandono
per l'isole perdute nell'Atlantico;
ed io fui l'uomo d'altri tempi, un buono
sentimentale giovine romantico...
Quello che fingo d'essere e non sono!».
Nella
citazione dotta c’è la finzione di uomo scisso, ancora indeciso sulla strada da
imboccare, giunto all’ypsilon di Eracle. Invano, perché le radici sentimentali
erano profonde e consolidate, quei simboli poetici, quelle metafore erano
insite nella formazione, troppo scolastica, ancora fervida per farvi tabula rasa, quella cultura letteraria
impartitagli era troppo recente per essere cancellata di un colpo.
A
ciò gli mancarono gli anni. Poi Borgese coniò quell’ismo che lo etichettò per
sempre fra altri poeti mediocri, se si esclude Moretti, che nulla avevano a che
spartire con lui.
E
le tante formule ed estrapolazioni fuorvianti che ne hanno fatto il caso
letterario della “malinconia crespuscolare”, delle celebri «buone cose di
pessimo gusto». Fino a diventare un caso clinico, povero infelice per quella
frase maldestra, come nell’ultima seduta analitica della psicoterapeuta Gianna
Schelotto, Le rose che non colsi. Psicologia del rimpianto
(Mondadori, Milano, 2014).
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