di Maria Patrizia Allotta
Che Leopardi sia uno dei massimi esponenti della letteratura internazionale nessuno potrebbe metterlo in discussione, che sia anche filosofo, invece, è stato ed è a tuttora motivo di accesi dibattiti.
Infatti, relativamente alla dimensione
filosofica rintracciabile nell’opera leopardiana non tutti i critici sono
d’accordo, tanto che si potrebbe parlare di due tendenze sostanzialmente
opposte: da un lato ritroviamo il vecchio filone della cultura laicista
italiana che intravede un senso filosofico scarsamente significativo e,
comunque, poco profondo, originale, costruttivo; dall’altro, invece,
rintracciamo valutazioni estremamente positive circa il filosofare leopardiano.
Infatti
- sebbene la qualifica di ‘filosofo’ gli sia stata attribuita già in vita dalla
cerchia degli amici che conoscevano bene alcune sue opere e sia stata
variamente espressa in alcune pagine dello stesso Leopardi dove ricorre
l’espressione «il mio sistema filosofico» e nonostante lo stesso Giordani
nel Proemio al terzo volume dell’edizione postuma delle
sue Opere lo ricordi come «sommo filosofo» - per Francesco De Sanctis, solo per fare qualche
esempio, la creazione lirica, è l’unica produzione genuina e
sinceramente autentica del Leopardi, modesta e artefatta appare, invece, quella
filosofica; così pure per Benedetto Croce il quale aggiunge, tra l’altro, che la
poesia del recanatese pur oscillando tra filosofia e letteratura, non riuscì
mai, a tenere la rotta dell’autentico logos.
Per
Giovanni Gentile, all’opposto, soprattutto nelle Operette morali, Leopardi appare come valido e interessante filosofo,
così come per Adriano Tilgher il
quale sostiene che proprio nello Zibaldone
esiste una filosofia che certamente non è né sistematica, né elaborata, né
procede per astrazioni, ma fortemente immediata, comunicativa, costruttiva.
Nel dopoguerra si assiste ad una sostanziale
rivalutazione della filosofia leopardiana, grazie prevalentemente agli apporti della
critica storicistico-marxiana, la quale mette in risalto la produzione
posteriore al ’30, rinforzando la pregevolezza del poeta impegnato e
progressivo contro quello isolato e solitario dell’idillio.
In tal senso saggi interessantissimi sono quelli scritti da
Cesare Luperini Leopardi
progressivo; da Walter Binni La nuova poetica
leopardiana; da Sebastiano Timpanaro Alcune
osservazioni sul pensiero di Leopardi e da Carlo
Muscetta Schizzi, studi e letture, contributi questi ora menzionati, contrassegnati da una
decisa matrice ideologica, che individua nel Leopardi un pensiero fortemente concettuale,
che non solo non è da ostacolo alla sua poesia, ma piuttosto è il suo vitale
nutrimento, pensiero concettuale, tanto profondo, che può essere elevato al
rango di filosofia.
Interessanti
anche gli studi condotti da Emanuele Severino - non storicista né marxista - il
quale magistralmente ha saputo mettere in luce notevoli elementi comuni tra il
pensiero del nostro poeta a quello di altri indiscussi grandi filosofi europei,
evidenziando che se è vero che la riflessione filosofica non prevede scomparti
predeterminati ma piuttosto una straordinaria espressione dello spirito umano
dai confini mai fissi, allora possiamo sostenere con estrema serenità che
Leopardi è un grande filosofo perché ha fatto della semplice parola verbo di
speculazione.
Quindi, mentre per alcuni studiosi Leopardi
- pur possedendo le attitudini e gli strumenti culturali, le competenze e le
abilità - non può essere considerato filosofo per il fatto che la sua volontà
di speculazione è alterata già in potenza - sollecitato da motivi biografici e
storico-culturali - avendo assunto sin dall’inizio un atteggiamento valutativo
ostile nei confronti dell’esistenza e dei valori più alti e nobili che questa
manifesta, valori molto spesso considerati alla stregua di miti o peggio
inutili illusioni, per altri, Leopardi è un autentico esistenzialista capace di
affrontare soprattutto questioni legate alle tematiche di ordine
pratico-morale, quali per esempio, l’indagine sulle ragioni prime e la cause
ultime della vita, il senso dell’esistenza, se è possibile raggiungere la
felicità, quali sono i veri valori esistenziali, se dopo la morte ci attende
qualcosa o ci aspetterà il nulla eterno.
E soprattutto lo Zidaldone - che riconduce direttamente a pensieri sull’anima, sulla
metafisica, sulla religione, sulla natura, sulla morale, sulla scienza, la conoscenza, il linguaggio,
sui problemi antropologici, sociali e politici, sull’universo definito da Lui
stesso “un bruscolo in metafisica” - ben potrebbe configurarsi come vero
trattato filosofico, pur non essendoci una struttura portante sistematica e
organica, come d’altronde in molti altri intellettuali più comunemente definiti
filosofi.
Né si
può negare che manchi a Leopardi lo stile filosofico e la forma e la sostanza
del filosofare, tanto che alcune sue pagine, specie quelle relative alla Teoria del piacere, sono di tale
inclemenza e concretezza che sembrano stilate dalla penna di Hume, Leibiniz,
Locke.
E in effetti, molte pagine scritte dal
Leopardi, potrebbero sembrare poco inerenti agli sviluppi della filosofia del
XIX secolo, solo ad una lettura fugace e poco attenta, o a chi non ha avuto la
fortuna di studiare la storia del pensiero dalle origini ad oggi, perché, in
realtà, la sua speculazione non solo riprende tematiche e problematiche
tipicamente tradizionali, ma si apre verso nuovi orizzonti meditativi che
saranno motivo di dissertazione dei filosofi a lui contemporanei o successivi
quali, per esempio, Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger.
Per
esempio, disseminati nei vari scritti, si celano magistralmente nozioni
basilari appartenenti alla storia della filosofia greca, tra cui anche i
concetti di “materia” e di “natura” che inevitabilmente riconduce al termine ellenico
“physis” e al suo “divenire”, concetto quest’ultimo molto radicato nel nostro poeta
il quale molto prima di Nietzsche, quasi sottovoce, sommessamente, cautamente, ritorna
ai greci e rientra appieno nella trattazione del pensiero Occidentale.
Infatti, nel nostro Giacomo è da notare il
nucleo concettuale legato al “divenire” e al “nulla”, nucleo sviluppato poi, in
modo pregevole, dal soprannominato pensatore tedesco, secondo il quale il
“suddetto carattere transeunte degli enti ne presuppone uno di incondizionata
innocenza: il realizzarsi delle cose e la loro distruzione è puro fatto, puro accanimento senza perché, il gioco della natura che non può essere vinto da alcuna arte dei (…)
mortali. E accanto a questa evidenza inoppugnabile, ossia all’argomento del “divenire”,
e come conseguenza di essa, sta quella per cui tutto è nulla: tutte le cose
dell’esistenza provengono dal nulla e ad esse fanno ritorno e quindi, per via
del loro essere nulla, passato e futuro sono nulla, un solido nulla.
Esso stesso è principio di ogni essere,
dunque, e perciò - esattamente come nel Leopardi il quale nelle Operette morali scrive testualmente:
Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obiettivo il morire.
Non potendo morire quel che non era, perciò dal nulla scaturiscono le cose che
sono. (…) tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta, e
un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso - non si
può porre alcuna verità incontrovertibile e assoluta, nessun principio di
conoscenza, nessuna verità”. (E. Severino).
E sempre sulla scia dei probabili
insegnamenti del Leopardi, Nietzsche dirà che le illusioni dell’arte sono la
condizione unica ed essenziale della sopravvivenza: “il vero mondo, egli
scrive, è falso, crudele, contraddittorio! e noi abbiamo bisogno della menzogna
per vincere questa verità, cioè per vivere. L’uomo deve essere per natura un
mentitore, deve essere prima di tutto un artista”, un fingitore per dirla come Pessoa.
Però, mentre Nietzsche aggiungerà che al di
sopra dell’uomo, che è destinato all’annichilamento, è possibile l’esistenza
del “superuomo”, ossia di chi, valicando la natura di essere umano, esulta
della totalità della vita, Leopardi, nel
suo “pensiero eternamente in movimento”, che certamente muta a seconda dei
periodi e delle vicissitudini provate, dà vita all’etica della solidarietà - che sarà il tema centrale della Ginestra
- etica concepita come puro estremo messaggio filosofico da inviare a tutti
gli uomini di buona volontà, messaggio che auspica l’alleanza fra gli esseri
umani, come dire, una social catena capace di unire, in un
unico abbraccio, i mortali affinché sia possibile fronteggiare l’empia natura, l’infelicità, il dolore e soprattutto la noia.
Concetti, quest’ultimi che lo
avvicinano straordinariamente a un altro grande filosofo quale è Schopenhauer
secondo cui se per caso cessa il dolore, non subentra affatto il piacere, ma
qualcosa di peggio, ovvero la “noia”.
Il dolore, infatti, non esclude che l’uomo cerchi e speri di affrontarlo,
mentre la noia è angoscia e disperazione. E allora, per Schopenhauer così come per Leopardi, la vita
oscilla inesorabilmente come un pendolo tra il dolore e la noia, in un eterno
meriggio privo di tramonto ristoratore dove, comunque, non c’è spazio per la
felicità che è intesa come semplice assenza momentanea dell’affanno.
Ma, a questa visione esistenziale certamente amara si contrappone la
sopracitata etica della solidarietà,
ovvero la necessità di un’autentica solidarietà umana di fronte al destino,
etica la cui prima espressione filosofica la rintracciamo già nel 1827, (prima ancora che nella Ginestra) nel Dialogo di Plotino e di Porfirio, basato sulla tematica relativa
al suicidio e volto a specificare le ragioni che lo disapprovano come possibile
soluzione al dramma esistenziale.
Scrive Leopardi: "Viviamo,
Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte
che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene
attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando
mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica
della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà,
allora non ci dorremo: e anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci
conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi
molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora".
Citazione questa che ci aiuta, comunque, non
solo a sminuire la visione nichilistica leopardiana che appare oggi, più che
mai, infondato luogo comune, insicuro stereotipo e inconsistente cliché, ma a
lottare contro l’accusa di misantropia rendendogli difficile il titolo di
filosofo.
Infatti, senza bisogno di ricorrere alla critica, in una famosa pagina dello Zibaldone, lo stesso Leopardi dissipa con forza i sospetti di nichilismo e misantropia di cui era fatto oggetto il suo pensiero, così scrivendo: "La mia filosofia non solo non è conducente alla misantropia, come può parere a chi la guarda superficialmente, e come molti l’accusano; ma di sua natura esclude la misantropia, di sua natura tende a sanare, a spegnere quel mal umore, quell’odio, non sistematico, ma pur vero odio, che tanti e tanti, i quali non sono filosofi, e non vorrebbero esser chiamati né creduti misantropi, portano però cordialmente ai loro simili (…). La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all’origine vera dei mali dei viventi."
Ma non è tutto. Nella dialettica leopardiana
negare la sua religione è negare la sua stessa poesia, che è preghiera cui
nessuno risponde, ricerca senza alcun risultato, accusa che precipita nel vuoto
e che pure misteriosamente risorge.
Il rifiuto del poeta di credere - per dirla
alla maniera di Divo Barsotti originale esegeta nel nostro Giacomo - è
provocazione a Dio perché si riveli.
Difatti,
di fronte alle illusioni di questa vita, la sua filosofia diviene sì angoscia,
smarrimento e solitudine, ma anche commovente trattazione teologica, epifania, emozionante
testimonianza religiosa, dove per religione non si intende un inutile complesso
di credenze e di pratiche relative alle cose sacre, ma piuttosto sentimento
naturale, intenso, intimo, ineluttabile, che “induce l’uomo a superare la
dimensione del sensibile e del temporale e percepire l’esistenza di una realtà
superiore per trovare in essa la risposta ai più radicati dilemmi dell’animo
umano: senso della vita e della morte, bisogno di verità e di amore, ansia di
purezza e d’infinito” (D. Barsotti).
E in effetti, il suo vero credo, la sua
profonda testimonianza per una ricerca di perfezione, il suo senso di purezza e
d’infinito è quello dell’esserci - proprio alla maniera di Heidegger - lasciando un segno, un’impronta, un’orma,
attraverso le scelte, le possibilità dei rapporti, la progettazione, la
trascendenza, i necessari dubbi.
Mi piace
concludere citando alcuni frasi e
aforismi leopardiani che ci fanno intendere, da soli e senza bisogno di alcun commento,
la grande autenticamente dimensione filosofica di Giacomo Leopardi:
…calpesto la vigliaccheria degli uomini,
rifiuto ogni consolazione e ogni inganno puerile e ho il coraggio di sostenere
la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita,
non dissimularmi nessuna parte dell’infelicità umana, ed accettare tutte le
conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera…
***
Io non mi sottometto alla mia
infelicità, né piego il capo al destino, e vengo seco a patti, come fanno gli altri uomini […]. Né
in questo desiderio la ricordanza dei sogni della prima età, e il pensiero
d'esser vissuto invano, mi turbano più, come solevano.
Se ottengo la morte morrò così
tranquillo e così contento, come se mai null'altro avessi sperato né desiderato
al mondo.
***
Sono convinto che anche nell'ultimo
istante della nostra vita abbiamo la possibilità di cambiare il nostro destino.
***
Tutto è follia fuorché il folleggiare.
Tutto è degno di riso fuorché il ridersi di tutto.
-
***
Chi ha il coraggio di ridere è padrone
del mondo.
***
Io non ho bisogno di stima, né di
gloria, né di altre cose simili;
ma ho bisogno d'amore.
***
I momenti migliori dell’amore sono
quelli di una quieta e dolce malinconia,
dove tu piangi e non sai di che…
***
Il desiderio che ha l’uomo di amare è
infinito perché
l’amore, anche profondo o disperato, è sempre dolcissimo.
l’amore, anche profondo o disperato, è sempre dolcissimo.
Allora, alla luce dei
frammenti, probabilmente la filosofia leopardiana manca di organicità e
sistematicità, certamente è influenzata dal suo dolore e dalla sua sofferenza,
ma sono proprio dolore e sofferenza che, anziché subordinare negativamente il
suo pensiero (come vorrebbero gli idealisti e i romantici) faranno sì che egli indaghi
intensamente e sentitamente sui problemi esistenziali della vita per mezzo della
parola lirica, della poesia, del canto che rimangono autentico mezzo di
rinascita, di resurrezione, di epifania.
Restiamo convinti, dunque, che quello del Leopardi
rimane, un “pensiero poetante”, o anche una “poesia filosofeggiante” di
eccezionale valore, così come di eccezionale valore è egli stesso, “Il giovane
favoloso” (così come lo definisce Mario Martone nel suo recente film) capace di
entusiasmare lo spirito e accarezzare dolcemente ogni cuore in ricerca.
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