di Riccardo Rosati
Gli articoli raccolti in questo volume sono apparsi per la prima
volta sul Corriere della Sera tra il novembre 1951 e il marzo 1952,
periodo in cui Indro
Montanelli (1909 – 2001) soggiornò in Giappone, per osservarne
di persona le evoluzioni dopo la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale. Le
condizioni, quindi, di una Nazione occupata militarmente e reduce dai sei anni
della “Reggenza
MacArthur”, col generalissimo americano che, nella gestione
praticamente plenipotenziaria dell'Arcipelago, raramente evitò di palesare la
sua scarsa stima verso i sudditi del Sol Levante. A Montanelli, infatti, ciò
non sfugge e riporta con chiarezza come la cappa oltraggiosa imposta da Douglas MacArthur
cessi praticamente di esistere quando al suo posto subentra a capo dello SCAP (Supreme Commander for the Allied
Powers) il generale Matthew
Ridgway, un uomo mite e non prigioniero di quella
auto-idolatria che danneggerà successivamente la carriera del suo collega.
Pagina dopo pagina, il miglior giornalista italiano di sempre – insieme a quel
Mussolini che affascinò proprio il giovane Montanelli – coglie con occhio
acutissimo taluni aspetti essenziali di un Popolo che sperimenta per la prima
volta la democrazia e si avvia verso quella straordinaria espansione economica
che avrebbe di lì a poco minacciato il primato delle economie occidentali.
Giornalismo, ecco, questa è la parola chiave che
connota il libro, come spiega bene Vittorio
Zucconi nella Prefazione: “[...]
perché il segreto di questa forma di giornalismo non è la conoscenza, al
contrario è l'ignoranza del soggetto” (8). Zucconi non gode affatto
della nostra stima, eppure, nel presentare questi scritti di Montanelli, offre
alcune riflessioni di assoluta qualità; forse ciò è dovuto al fatto che
anch'egli è stato inviato in Giappone, però negli anni '80, dunque in un Paese
ormai totalmente capitalista e in parte alieno alla propria tradizione, a causa
della forte americanizzazione. Invero, le parole di Zucconi ci riportano alla
mente quelle di Italo
Calvino, il quale, col suo Collezione di sabbia (1984),
riuscì a toccare una delle massime vette nella narrazione del Giappone moderno.
Alla stessa stregua di Zucconi, anche nello scrittore ligure, l'“ignoranza” è
un paradossale valore:
“Nuovo nel paese, sono ancora nella fase in cui tutto quel che vedo ha un
valore proprio perché non so quale valore dargli”.
Certo, Calvino è stato uno dei prìncipi tra gli autori del XX
secolo, mentre Montanelli e Zucconi, con tutto il dovuto rispetto, sono dei
giornalisti e non degli intellettuali. Nondimeno, ne L’impero bonsai si
incontrano vari passaggi davvero sorprendenti per la loro comprensione della
cultura nipponica, tanto che in qualche caso ci siamo detti che, alla fine, Montanelli aveva “capito tutto”
o quasi; come quando cristallizza in poche parole un elemento assai complesso,
legato a quella raffinata composizione tutta giapponese di un'estetica fatta di
crudeltà: “Non si educa e
non ci si educa senza una buona dose di cattiveria, di spietata intransigenza.
Io non ho mai visto un popolo maleducato e crudele” (40). Inoltre,
se egli comprende con adeguata profondità l'eleganza dell'animo di questa
Nazione, non manca altresì di cogliere la rozzezza degli occupanti, di
quella America che Montanelli, benché da tempo convertito all'antifascismo, non
riusciva proprio ad apprezzarne qualsivoglia portato valoriale: “Ma è proprio, tutto questo, una
novità, la rivoluzionaria democratica novità che gli Americani pensano di avere
introdotta?” (46).
Tornando a Zucconi, costui confessa di provare una “rancorosa ammirazione”
(7) verso gli scritti del più blasonato e talentuoso cronista, il quale
affresca un ritratto del Giappone tramite una scrittura magari non bella,
eppure “calda”, partecipata. Questo reportage in forma di articoli
giornalistici permette di scoprire addirittura un rarissimo Montanelli
“affettuoso”, quando, ad esempio, parla di Shigeru Yoshida (1868 – 1977), Primo
Ministro giapponese (1946 – 1947 e 1948 –1954), nonché amante dell'Italia e di
Napoli in particolare.
L’impero bonsai si attesta quale una preziosa
testimonianza di un Paese invaso, vittima di umiliazioni, che però il
popolo giapponese affronta con sobrietà e dignità. Montanelli non fa mistero di
ritenere il “fascismo
giapponese” (definizione verso la quale nutriamo puntualmente
forti dubbi) un errore grave. Sia come sia, il suo spirito da anarchico
strutturato, quindi con una propensione talvolta reazionaria, spunta fuori con
prepotenza nella sua difesa di Tomoyuki
Yamashita (1885 – 1946), conosciuto anche come la “Tigre della
Malesia”, per via delle atrocità commesse dai suoi soldati a Manila, impiccato
come criminale di guerra, o almeno questa è stata la versione dei fatti
propagandata dagli “alleati”. Montanelli la pensa in tutt’altro modo, e lo si
vede quando riporta il dissenso della stampa, persino di quella statunitense,
per l'esecuzione di questo coraggioso e nobile ufficiale, passato alla storia
per la sua incredibile presa della “fortezza” britannica di Singapore: “Subito dopo la lettura del
verdetto, il mio collega Pat Robinson dell'International News Service mise ai
voti e pubblicò, […], il responso dei dodici corrispondenti americani, inglesi
e australiani che dopo aver seguito il processo dalla prima all'ultima seduta
si pronunciarono unanimemente contro la legalità della sentenza: lo dico con
una certa fierezza di giornalista” (28).
Dicevamo sopra che non abbiamo a che fare con un intellettuale.
Ragion per cui, tante sfumature della società dell'Arcipelago gli risultano
ostiche da afferrare. In primis, quelle riguardanti la più complessa
figura nella cultura giapponese, ovvero il suo sovrano (天皇, Tennō). Montanelli non riesce a carpirne l'essenza, il
motivo per cui un semplice essere umano possa diventare il simbolo di una
intera Nazione, parimenti a quello che per noi occidentali è la Bandiera.
Quello che, però, non gli sfugge è l'umiliante condizione dell'Imperatore dopo
la guerra: “[...] oggi il
centoventiquattresimo erede di una dinastia che dura ininterrottamente da
duemilaseicentoquattordici anni vive come un padre di famiglia della media
borghesia, senza sfarzo né seguito” (49). Allora, possiamo pensare,
leggendo questa sua cronaca in una terra così lontana geograficamente e non
solo, che quando Montanelli non riesce a comprendere, e questo avviene
abbastanza spesso, non smarrisce mai il rispetto, e anche in ciò egli ci
ricorda lo smarrimento provato sempre da Calvino in Giappone: “Così il tempio Manju-in, che un
incompetente come me giurerebbe che è zen e invece non lo è […]”.
In conclusione, sovente il Giappone si rivela capace di tirare
fuori il meglio di noi. La spiegazione fornita da Montanelli è che questo è
dovuto al fatto che si tratta di un “Paese serio”! La raccolta di articoli in
questione è una sorta di album di realtà nipponica, con delle
“istantanee” scattate dalla mente di un uomo che era capace di spiegare e,
talora, pure raccontare. La sua visione del Giappone non è elaborata, ma è
tanto vera, potentemente autentica nella sua ingenuità, come dice giustamente
ancora una volta Zucconi: “[...]
perché un giornalista non è mai un professore, se vuol chiamarsi tale, ma
sempre e soltanto uno studente sul filo della bocciatura” (15).
Montanelli e la sua penna arcigna ci mancano molto. La lettura di questo testo,
come abbiamo avuto modo di indicare, ci ha ricordato il viaggio nel Sol Levante
di Calvino. Da un lato un grandissimo giornalista, dall'altro uno dei massimi
scrittori della epoca moderna, entrambi accomunati dall'“umiltà” che ha fatto
nei secoli grande la odeporica
(la “Letteratura di Viaggio”) degli Italiani. Loro, i giapponesi sono quello
che sono, gente seria; noi, dal canto nostro, siamo quello che siamo, o
almeno eravamo fino a qualche tempo fa, il Popolo più intelligente del pianeta,
al punto che un “semplice” giornalista si dimostra capace di esprimere concetti
sul Giappone ben più profondi ed esatti di quelli di tanti accademici di scuola
anglosassone che vanno per la maggiore da decenni: “A meno che il mio errore non sia proprio questo; di
voler trovare una logica e dare una spiegazione a ciò che i Giapponesi fanno.
Che è anche questa, a pensarci bene, una spiegazione; e forse la sola che
valga” (51).
Indro Montanelli, L’impero bonsai. Cronaca di un
viaggio in Giappone 1951 – 1952, Rizzoli, Milano, 2007
*Un ringraziamento alla collega orientalista Annarita Mavelli,
che ha gentilmente portato il testo di Montanelli alla nostra attenzione
da: www.ordinefuturo.net
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