di Luca Fumagalli
Nella National Portrait Gallery di Londra vi è un quadro di Henry James Gunn (Conversation Piece, 1932) che rappresenta tre scrittori cattolici, due seduti a un tavolo, il terzo in piedi dietro di loro. La corpulenta figura sulla sinistra, curva a disegnare qualcosa su un foglio, è quella riconoscibilissima di Gilbert Keith Chesterton. Sulla destra, appoggiato al tavolo e intento a osservare l’amico al lavoro, siede invece Hilaire Belloc. Se questi due autori sono più o meno noti ai lettori appassionati di cose inglesi, non così l’uomo in piedi, un gentleman calvo, sigaretta in mano, i cui baffetti ben curati gli donano una certa aria signorile, accentuata dall’altezza. Si tratta di Maurice Baring, un brillante romanziere oggi dimenticato.
Il destino di Baring è quello che accomuna tanti uomini di lettere della prima metà del XX secolo, specie quelli che in vita godettero di un vasto consenso di pubblico e critica. Anche se il suo nome lo si può trovare citato nella corrispondenza di illustri conoscenti quali Evelyn Waugh, Lady Diana Cooper e Max Beerbohm, Baring rimane un personaggio marginale che, quando non completamente obliato, brilla più per la vicinanza ai protagonisti della vita culturale inglese del suo tempo che per meriti propri. Del resto anche in Italia, ad esclusione forse di qualche chincaglieria dei bei tempi andati, dei libri di Baring non vi è traccia in nessun catalogo. È un’ingiustizia a cui, si spera, il tempo clemente saprà porre rimedio.
Nato nel 1874 da una ricca famiglia di banchieri, al giovane Maurice furono concessi tutti i vantaggi di una condizione agiata, compresa la possibilità di frequentare le migliori scuole del paese. Dopo Eton andò a Cambridge, dove dimostrò una straordinaria attitudine per le lingue che lo portò a tentare la carriera diplomatica. Superò gli esami a Londra solo al terzo tentativo, interessato più che altro a godersi la vita mondana della capitale imperiale. Il teatro era la sua vera passione. Ammirava in particolare Sarah Bernhardt, la grande attrice che già aveva fatto innamorare Oscar Wilde. Per il resto era tutto feste e bisbocce. Problemi economici, d’altronde, non ce n’erano: il padre, Lord Revelstoke, era generoso con le sue mance, e anche quando più tardi venne a mancare, il fratello John, erede dell’impero bancario famigliare, gli garantì sempre un appannaggio mensile.
Per uno come Baring, animato da una fanciullezza dello spirito che lo rendeva leggero e solare, facile agli scherzi, il lavoro in diplomazia non era il più indicato. Dopo una breve parentesi a Parigi, Copenaghen e Roma, nel 1904 decise quindi di mollare tutto e di dedicare la sua esistenza interamente alla scrittura.
Quando giunse in Russia, impegnato come corrispondente al fronte durante il conflitto russo-giapponese, Baring si trovò immerso in un mondo vasto, misterioso, che subito lo attrasse e, alla lunga, lo conquistò. Imparò la lingua e iniziò a tradurre i classici di una letteratura che, all’epoca, era pressoché sconosciuta in Occidente. L’influenza di Anton Čechov riecheggia nello stile naturale dell’inglese, che tornò nella terra degli zar numerose volte, visitandola in lungo e in largo.
Nel frattempo, complice la ben nota affabilità, il cerchio delle amicizie di Baring in Inghilterra andava via via espandendosi. Nell’estate del 1908 insieme a Belloc e Raymond Asquith diede il via a un nuovo giornale, il «North Street Gazette», che purtroppo durò un solo numero. Dalle sue ceneri nacque l’«Eye Witness», una testata coraggiosa, votata al giornalismo d’inchiesta (più tardi mutò nome in «New Witness»). Alla direzione furono impegnati prima Belloc e poi Cecil Chesterton.
Tra i nuovi amici di Baring non poteva mancare G. K. Chesterton, un uomo di cui apprezzava soprattutto la grande onestà intellettuale. Con lui trascorse momenti indimenticabili. Il confronto tra i due, sempre profondo e sincero, era un alternarsi di birre e risate. Gli argomenti delle conversazioni spaziavano dall’arte alla politica, dalla letteratura alla religione, ed è certo che dietro la conversione di Baring al cattolicesimo, avvenuta nel 1909, tanto Chesterton quanto Belloc abbiano giocato un ruolo di primo piano.
Nei voluminosi quaderni che Baring compilò per tutta la vita con precisione maniacale – così come nell’autobiografia The Puppet Show of Memory (1922) – vi sono diversi appunti a proposito del suo ingresso nella Chiesa di Roma. In mezzo ai disegni, alle recensioni e alle fotografie che trovano spazio tra le pagine scarabocchiate d’inchiostro, molti passaggi ripercorrono le ragioni di un gesto che l’inglese non esitò a definire «l’unica azione di cui sicuramente non mi pentirò mai».
Fu solo al termine del primo conflitto mondiale che Baring poté finalmente affiancare alla carriera di giornalista e critico quella di scrittore. Nel complesso diede alle stampe qualcosa come cinquanta libri, tra romanzi, testi teatrali, volumi di poesie, saggi e racconti. Ogni sua pubblicazione venne generalmente accolta con favore e illustri contemporanei come mons. Ronald Knox e François Mauriac furono tra i più entusiasti ammiratori della sua opera. Solo Virginia Woolf accennò a qualche riserva, ma la sua opinione, per quanto profetica, rimase tuttavia isolata.
I romanzi di Baring, i più famosi dei quali sono C (1924), Cat’s Cradle (1925) e The Coat without Seam (1929), rivelano un approccio religioso alla vita che vira verso lo struggente, presentando storie d’amore infelici, con quel senso di lacrimae rerum che rende l’esistenza dei personaggi al limite dell’intollerabile. Le trame sono complicate e spesso sembrano non portare a nulla, mentre i protagonisti si muovono all’interno di una fitta rete di relazioni che ha la consistenza del sogno (al pari di ogni vana ambizione sociale e sentimentale, destinata a rimanere tale). L’imperfezione dell’uomo, con tutto quello che ne consegue di bene e di male, è la vera cifra distintiva dei suoi racconti, che Ethel Smyth, non a caso, giudicò alla stregua di lavori teologici. Per Chesterton, invece, i libri dell’amico rappresentavano un provvidenziale salto di qualità verso il realismo – nel senso più profondo e pieno del termine – purtroppo assente in molta letteratura cattolica coeva, ottusamente ancorata a un romanticismo che appariva ormai fuori luogo. Fu forse questo uno dei motivi per cui i suoi lavori vennero molto apprezzati anche in Francia.
Sfortunatamente la popolarità non tardò a presentare il conto a Baring: vittima del morbo di Parkinson, trascorse gli ultimi anni che gli restavano su questa terra, dal 1936 al 1945, nella quasi immobilità. Non avendo moglie, poté contare solo sull’aiuto degli amici che si fecero letteralmente in quattro per assisterlo. La compagnia del canarino Dempsey fu l’unica consolazione per un vecchio che vedeva intorno a sé l’amata Europa estinguersi tra le fiamme del secondo conflitto mondiale. Eppure non c’è da dubitare che la Fede bastò a garantire un lieto fine alla sua vita.
da: www.radiospada.org
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