domenica 11 ottobre 2015

La nozione di rivoluzione in uno storico contemporaneo

di Paolo Prodi 

Anche nella storiografia, non solo nella cronaca politica, il termine «rivoluzione» è stato spesso e viene ancora usato in modo equivoco. Non abbiamo ancora abbandonato una visione legata alle ideologie del secolo scorso che sostanzialmente identifica la rivoluzione con i sommovimenti violenti legati alla nazione e alle guerre di classe. L’uso del termine «rivoluzione» per l’età moderna e contemporanea è stato sempre legato — anche presso gli oppositori — alla visione marxista del passaggio dal modo di produzione feudale a quello industrial-capitalistico: sia a destra, sia a sinistra essa viene vista come costruzione di un nuovo ordine alternativo, social-comunista o social-nazionalista, ai regimi liberal-democratici nati da più antiche rivoluzioni borghesi del secolo XVIII quale quella americana o quella francese. Ogni rivoluzione […] ha una sua «ragione» che mira al ripristino di un assetto politico precedente che si pensa sia andato perduto o alla costruzione di un nuovo assetto della politica e della società. Essa non equivale a rivolta o ribellione ma ne è per certi versi l’opposto, anche se l’elemento di violenza può essere comune: rivolte, ribellioni (tumulti, moti, insurrezioni, colpi di Stato) ci sono stati sempre in tutte le civiltà e in tutti i tempi, ma nulla hanno a che fare con il concetto di «rivoluzione», il quale implica un progetto, anche se ideologico o utopico, di una nuova società.
Nell’intellettualità europea del secolo XX dapprima ha prevalso un uso equivoco del concetto di «rivoluzione» legato all’età dei totalitarismi: rivoluzione come lotta radicale alla società borghese, sia nelle avanguardie fasciste di destra, sia negli schieramenti social-comunisti, con il supporto delle ideologie idealista o marxista oppure in dialettica con esse. Solo negli Stati Uniti, soprattutto per merito dell’emigrazione intellettuale europea fuggita dagli orrori del nazismo, si è sviluppata un’idea più complessa di «rivoluzione», particolarmente nella riflessione sulla Rivoluzione americana vista non come un preludio alla successiva Rivoluzione francese ma in opposizione o in alternativa a questa. è del 1938 la pubblicazione di un’opera fondamentale di un intellettuale tedesco, ebreo convertito al cristianesimo, Eugen Rosenstock-Huessy, fuggito negli Stati Uniti già nel 1933 all’avvento al potere di Hitler: Out of Revolution. Autobiography of Western Man, opera mai tradotta e nemmeno conosciuta dalla storiografia ufficiale italiana del dopoguerra, nei decenni in cui essa era imbozzolata nelle controversie fra la cultura idealistica e quella marxista-gramsciana. Rosenstock — iso lato nel suo tempo ma di un’attualità sconcertante — ha per primo intravisto, più da lontano e più nel lungo periodo, la componente rivoluzionaria come caratteristica peculiare e continua dell’Occidente: un processo continuo, durato nove secoli, in cui l’uomo europeo si forma nella separazione e nella dialettica fra potere religioso e potere secolare. L’identità fra potere politico e potere sacrale si è rotta con la rivoluzione di Gregorio VII, con la lotta tra papato e impero nel secolo XI, e questa tensione è continuata sino alla prima guerra mondiale e alla Rivoluzione russa del 1917. Senza questa visione di lungo periodo è impossibile comprendere la più tarda e celebre opera Sulla rivoluzione di Hannah Arendt che riscuoterà un notevole successo — anche se in modo bivalente — nel tornante del 1968 e della rivoluzione culturale cinese, quando le antiche ideologie cominciarono a incrinarsi: dal problema della rivoluzione e dei totalitarismi come avvenimenti politici al problema del male nella storia come problema antropologico.
La storiografia posteriore al 1989 e alla crisi delle ideologie, più che riflettere sul problema concettuale generale della rivoluzione ha accertato con interessanti ricerche empiriche che non è esistito nella storia moderna un confine preciso fra ribellioni e rivoluzioni (dalle guerre dei contadini del primo Cinquecento alla rivolta napoletana di Masaniello del 1647 ecc.); è stata la manualistica tradizionale a classificare, nelle sue semplificazioni scolastiche in bianco e nero, come rivolte o rivoluzioni i movimenti capaci di tradurre le insofferenze sociali in violenze collettive contro i detentori del potere e in diritto di resistenza: rivolte in quanto basate sul richiamo a denunce profetiche, utopie, promesse di nuovi paradisi terrestri, a perdute o immaginarie tradizioni di giustizia e libertà; rivoluzioni come proposte di un nuovo progetto di società.
La storiografia più alla moda sembra però ancora limitarsi, pur accettando la differenza tra rivoluzioni, colpi di stato e ribellioni, a un’esposizione puramente fenomenologica mettendo in fila i rovesciamenti violenti dei sistemi politici avvenuti nel corso della storia ed elencando le diverse tipologie in cui essi possono essere classificati. […] Di fronte a queste visioni onnicomprensive in cui tutti i gatti sono bigi la storiografia italiana recente più avvertita e più attenta ai problemi di metodo ha quindi abbandonato il concetto stesso di «rivoluzione» per mettere al centro della discussione il problema della «transizione» come definizione di epoche assiali e di passaggio, con momenti di accelerazione e di rallentamento nello sviluppo della modernità.
Lo storicismo romantico ha già dimostrato che il pensiero cristiano, da Agostino in poi, aveva mutato sostanzialmente il significato di questo termine da descrizione di un moto ripetitivo degli astri, nella natura e nella società, a un moto lineare, innovativo, come cammino dell’umanità verso la salvezza e la redenzione, tramutato poi, nelle filosofie post-cristiane, nel mito del progresso. Nei grandi dizionari di latino classico e medievale non troviamo però la parola revolutio: soltanto termini come stasis e kìnesis per indicare il moto alternato di quiete e movimento (o rivolgimento) nella natura e nella città. Come è noto, fu Niccolò Copernico a introdurlo nel 1543 intitolando il suo trattato sul movimento dei pianeti intorno al sole De revolutionibus orbium coelestium e questo termine si è diffuso al di là delle scienze della natura nell’Inghilterra del secolo XVII per indicare un mutamento, un cambio di regime. E la nuova visione del mondo che si afferma con l’umanesimo che, riprendendo il pensiero politico classico, collega questo concetto di rivoluzione alla visione delle lotte per il potere (sono state richiamate anche da molti recenti autori le pagine di Aristotele e di Polibio) come moto circolare in base al quale le società come gli astri ritornano al punto di partenza attraverso il susseguirsi di rivoluzioni quando il sistema dominante si corrompe: dalla monarchia abbiamo il passaggio violento alla tirannide, da questa all’oligarchia e alla democrazia, in ordine diverso o inverso ma sempre in qualche modo con la restaurazione di ciò che era stato o si pensava fosse stato all’inizio. Con il passaggio dall’umanesimo al Seicento, con la rivoluzione scientifica, la parola revolutio acquista un significato ben più ampio rispetto al puro ritorno degli astri (o di qualsiasi altro ente) al punto di partenza al termine di un ciclo astronomico, per acquisire il significato diverso di mutamento di paradigma: mutamento che avviene nella storia politico-sociale così come nella storia della scienza quando cambiano i nostri parametri di misura della realtà dal punto di vista antropologico, sociale, politico, economico: quando mutano i paradigmi con cui leggiamo la realtà e ci proponiamo di cambiarla.



(da Il tramonto della rivoluzione, il Mulino, Bologna 2015, pp. 12-19)

venerdì 9 ottobre 2015

Sermonti, lo scienziato senza "anello mancante"

di Andrea Bartelloni

«Vi siete mai soffermati a vedere i gabbiani sospesi nel vento? Se tutti gli esseri della terra scomparissero e restassero solo i gabbiani, e magari i pesciolini per la loro alimentazione, pensate forse che dai gabbiani, col passare di milioni di anni, rinascerebbero gli animali che popolano la terra,e, anche l’uomo e forse persino le rane, farfalle e pesciolini. E seppure i gabbiani scomparissero, vi riesce d’immaginare che i pesciolini del mare, per graduali trasformazioni, darebbero origine, alla fine dei tempi, a nuovi gabbiani o comunque a qualche nuovo genere di uccello marino capace di librarsi nell’aria?». Con queste parole inizia Le forme della vita (Armando editore, 1981) il lavoro che forse riassume più di qualsiasi altro il pensiero e lo spirito che pervade tutte le riflessioni di Giuseppe Sermonti grande personaggio della scena scientifica italiana che il prossimo 4 ottobre compirà 90 anni. 
Nato a Roma nel 1925 si laurea in Agraria all’Università di Pisa e poi in Biologia, è un pioniere nellagenetica dei microorganismi industriali produttori di antibiotici. Genetista dal 1950 presso l’Istituto Superiore di Sanità in Roma, ha fondato la genetica dei microrganismi e ha presieduto la International Commission for Genetics of Industrial Microorganisms. Nel 1964 arriva alla cattedra di Genetica prima a Palermo e poi a Perugia e nel 1970-71 presiede l’Associazione Genetica Italiana. Nel 1980 è eletto alla vicepresidenza del XIV Congresso Internazionale di Genetica a Mosca. Lo stesso anno è chiamato alla direzione della Rivista di Biologia (fondata nel 1919) succedendo ad Aldo Spirito. In quel periodo prende forma la sua critica all’Evoluzionismo darwiniano e con la pubblicazione di Dopo Darwin, critica all’Evoluzionismo (con Roberto Fondi) inizia lo scontro con l’establishment scientifico e culturale italiano e, con questo, l’isolamento dal mondo accademico ufficiale. Nel 1982 è invitato dall’Accademia Pontificia a partecipare a un gruppo di lavoro sull’Evoluzione dei Primati e, quattro anni dopo fonda, a Osaka, il Gruppo per lo Studio della Struttura Dinamica. I suoi studi e le sue ricerche lo portano ad uscire dalla scienza destinata esclusivamente a fini utilitaristici così da indagare e scoprire leggi naturali, tecniche e chimiche nelle fiabe. 
Ma il più grande pregio di Sermonti è stato quello di aver fatto riscoprire la bellezza, l’armonia nellanatura attraverso l’osservazione di cose incredibili che grazie ai suoi scritti riusciamo a percepire con nuova meraviglia e gusto: un fiore, un uccello, una conchiglia, un gabbiano che si libra nel vento. Il pettazzurro, ad esempio, che «dà il meglio delle sue doti canore quando se ne sta solo, tranquillo, in pace, nel suo cespuglio. Quando “poeta tra sé e sé”, ha commentato Konrad Lorenz. Quando recita il “Te Deum”». Nel 2004 Sermonti riceve il Premio per la Cultura della vice-presidenza del Consiglio per le sue ricerche e critiche scientifiche. 
Sermonti è uno scienziato scomodo e si scontra col mondo accademico già dal 1971 quando esce IlCrepuscolo dello Scientismo (Rusconi ed.) con la dura critica ai biologi di volere innovare, migliorare l’uomo. E Sermonti vedeva lontano e l’attualità gli ha dato ragione: una rivoluzione bio-tecnologica sta travolgendo tutto e tutti, la procreazione è diventata un fatto quasi da laboratorio, si selezionano gli embrioni, si scelgono le caratteristiche genetiche, le banche dello sperma e degli ovuli sono una realtà consolidata e siamo agli uteri, per ora naturali, in affitto. «Non siamo caduti tra le braccia di Gog e Magog: vi siamo “progrediti”» (Theodore Rosszac, 1982) e questa citazione, che compare nell’ultima edizione del Crepuscolo (Nova scripta, 2002), chiarisce l’idea che Sermonti ha del progresso, o meglio, della visione ottimistica che ritiene una «abdicazione della ragione, cioè della capacità di prevedere che finisce con lo snaturare il progresso» e gli ultimi anni ci hanno fatto entrare violentemente in contatto con le crisi che stiamo attraversando. Come ricordava Sermonti: «molte cose perfettamente possibili non si realizzano, molti popoli continuano a soffrire la fame, i denti dell’uomo civile sono sempre cariati, le guerre del Medio e dell’Estremo Oriente non finiscono mai, l’acqua potabile non cessa di diminuire, e si è ormai rinunciato a cercare la cura per il raffreddore». 
Ma lo scrittore Sermonti si dedica anche a narrare i drammi nella scienza attraverso la narrazione delle storie dei protagonisti che li hanno vissuti. In una forma originale, quella delle commedie da tavolo (Scienziati nella tempesta, Di Rienzo editore, 2002), con le quali descrive i drammi di Gregor Mendel con la riscoperta postuma e il tentativo di Hugo De Vries di appropriarsi delle sue scoperte, William Harvey e la disputa sulla circolazione sanguigna, Ignazio Filippo Semmelweis incompreso scopritore delle cause delle infezioni puerperali che si darà la morte per dimostrare la ragione delle sue teorie, Paul Kammerer, suicida a causa della sconfessione delle sue teorie sull’eredità dei caratteri acquisiti, J. Robert Oppenheimer, protagonista del “Progetto Manhattan” col quale la fisica si rende conto che può distruggere il mondo, Pavel Florenskij, Pope, filosofo e matematico internato nelle isole Solovski dove morirà fucilato, e infine Charles Darwin distorto, emendato, usato dai neo-darwinisti tanto che lo stesso naturalista inglese non si riconosce più. Drammi veri e propri che insegnano che le grandi scoperte «nascono spesso tra errori, contese, sconfessioni, che talvolta provocano la prematura fine del protagonista, prima che la sua idea si sia affermata»
La sterminata produzione di Sermonti è anche ricca di articoli comparsi su molti quotidiani, il Tempo,Roma, Il Giornale, il Foglio e i suoi editoriali nella Rivista di Biologia, riuniti e pubblicati da Lindau (2010). «La semiscienza è un despota come fino ad oggi non ve ne sono stati. Un despota che ha i suoi sacerdoti e i suoi schiavi, un despota dinanzi al quale tutti si sono inchinati con amore e con una superstizione fino ad ora inconcepibile,dinanzi al quale la stessa scienza trema e gli indulge vergognosamente» (Fedor Dostoevskij, I Demoni). Caro professor Sermonti, un grazie e tanti cari auguri a lei, a un vero scienziato libero.
da: "www.lanuovabq.it

mercoledì 7 ottobre 2015

Riparto da “La roccia”

di Domenico Bonvegna

Mi è già capitato altre volte, a settembre quando inizia la scuola, la mia piacevole e faticosa attività di giornalista freelance subisce qualche contraccolpo, si presentano varie tentazioni, prima fra tutte quella di lasciar perdere, con la solita frase che risuona nell’orecchio: “chi te lo fa fare”. Quest’anno però l’arrivo del nuovo numero de “La Roccia”, e la sua veloce lettura, mi ha trasformato, rinvigorito, ricaricato, per continuare quell’umile opera di testimonianza missionaria a cui ciascun credente è chiamato a fare, ognuno secondo i propri talenti.
Ricomincio a scrivere presentando questa rivista, nata a gennaio di quest’anno, edita dalla casa editrice Shalomsrl. Esce ogni due mesi, nata per “seguire il Papa sempre”, infatti in ogni copertina primeggia una immagine di papa Francesco, ma soprattutto è una rivista per dare una spinta alla Nuova Evangelizzazione. E’ diretta da Marco Invernizzi, che oltre ad essere un esponente di punta di Alleanza Cattolica, è collaboratore dagli anni 90 della battagliera Radio Maria.
Ma c’era bisogno di un’altra rivista cattolica? Certamente si, se intende seguire, come ha scritto nel 1° numero il direttore Invernizzi, il Magistero non di un Papa, ma del Papa, cercando di incarnarlo nelle scelte di apostolato, nei criteri e nelle valutazioni che sono all’origine delle nostre azioni. Questo comporta di seguire, di leggere i suoi interventi, encicliche, discorsi, omelie e catechesi. Mi pare che “La Roccia”, sta adempiendo nel migliore dei modi a questo compito.
Nella storia della Chiesa, soprattutto degli ultimi due secoli, dopo l’esplosione delle ideologie, il laico cattolico ha avuto spesso bisogno di una bussola, di un punto di riferimento, di un giornale, di libri per poter difendersi meglio dagli attacchi più o meno violenti delle ideologie che via via si sono presentati nella storia. La storia del movimento cattolico italiano è piena di iniziative culturali, penso a don Davide Albertario a don Giacomo Margotti, che alla fine dell’Ottocento hanno fondato battagliere pubblicazioni, ma anche a don Giacomo Alberionecon la sua vasta opera della famiglia Paolina. Pertanto anche nel nostro tempo servono riviste, pubblicazioni per “evangelizzare la cultura” come auspicava il beato Paolo VI.
La Roccia, è arrivata alla quinta uscita, nell’ultimo numero di settembre-ottobre oltre al consueto editoriale del direttore si possono leggere interessanti e documentati articoli di sicura dottrina, scritti in maniera agevole da collaboratori attenti e preparati.
La Roccia è un ottimo strumento per i laici cattoliciper essere “testimoni di una Chiesa che ‘esce da se stessa’. Papa Francesco seguendo il costante Magistero dei suoi predecessori, “ha sempre insistito nei sui interventi per promuovere una Chiesa missionaria, - scrive Invernizzi nell’editoriale - orientata a evangelizzare le periferie, non soltanto quelle geografiche dove vivono i poveri della terra, ma anche quelle esistenziali, frutto del peccato, del dolore, dell’ignoranza e dell’assenza della fede, dell’ingiustizia”. Invernizzi, biasima i frequenti brontolii, le polemiche, gli scontri fra scuole diverse, di queste settimane e mesi che circolano nel mondo cattolico.Tuttavia “è come se, davanti a un mondo di evangelizzare e ricostruire, ci si perdesse nelle miserie umane, che pure ci sono e ci sono sempre state, anche perché non ogni diversità di opinione è un’eresia e la Chiesa, felicemente, non è una caserma”. Pertanto secondo il direttore della rivista ai cattolici di oggi manca quello “zelo apostolico, - di cui parlò il cardinale Bergoglio -, il desiderio di evangelizzare a 360 gradi, senza pregiudizi ideologici. Dobbiamo parlare a chiunque, non soltanto a quelli che sono più in sintonia con la nostra impostazione culturale”.Invernizzi ritorna sulla grande importanza della manifestazione per la famiglia del 20 giugno a Roma. Qui “finalmente il laicato cattolico in autonomia, e senza il permesso previo di alcun vescovo ‘vescovo pilota’ hanno promosso una grande manifestazione pubblica per affermare la bellezza della famiglia…”.
A questo proposito il nuovo numero evidenzia l’intervista al promotore dell’iniziativa, il neurochirurgo bresciano professor Massimo Gandolfini, presidente nazionale del Comitato “Difendiamo i Nostri Figli”. Un evento organizzato in soli 18 giorni, senza sovvenzioni o sponsor, senza nessuna collaborazione dei mass-media che non hanno voluto diffondere la notizia dell’evento e soprattutto senza nessun bisogno di “vescovi pilota”. Si perché i laici come sancì il Vaticano II, hanno un ruolo fondamentale nell’evangelizzazione della società e poi ancora ribadito da san Giovanni Paolo II con la Christifideles laici, infine per ultimo il santo padre Francesco. Certo i laici si devono muovere in autonomia, ma che non significa “distacco” dai pastori, hanno sempre bisogno della “chiarezza dottrinale magisteriale, strumento indispensabile perché si formino ‘coscienze rette’ e non autoreferenziali, ove si può dire tutto e il contrario di tutto”.
Il professore Gandolfini risponde a quelli che hanno criticato l’importante evento, a quelli che hanno detto che non c’è bisogno della piazza, che è meglio la testimonianza personale e che non bisogna contrapporsi al Governo alzando muri. O a quelli che sostengono che è più importante il lavoro culturale-formativo. Per Gandolfini, sono tutte polemiche artificiose, perché già molte associazioni, i promotori stessi, questo lavoro l’hanno sempre fatto. Per esempio Alleanza Cattolicache fa parte del Comitato organizzatore, nei suoi oltre quarant’anni di attività si è mossa sempre nell’ambito culturale e sociale. Poi per quanto riguarda l’alzare i muri e urlare, non siamo noi a farlo, piuttosto è la militanza omosessualista a farlo che ha reagito come sempre scompostamente alle nostre prese di posizione contro l’ideologia del gender e il ddlCirinnà.
Segnalo altri interessanti interventi presenti nella rivista, in particolare quello dell’economista Ettore Gotti Tedeschi, già presidente dello Ior, conosciuto per avere contribuito in modo importante a diffondere l’idea che l’inverno demografico, cioè il fatto che in Italia dagli anni ’70 nascano sempre meno bambini, non sia una delle tante problematiche che affliggono il Bel Paese, ma sia la questione che ha originato la crisi economica che stiamo vivendo e dalla quale non si riesce a uscire, volendo negarne le vere origini.
Nelle prime pagine de La Roccia possiamo leggere due interventi sull’imminente Sinodo sulla Famiglia. Lo sottoscrivono Andrea Morigi e Massimo Introvigne. Il primo segnala che continuano le pressioni dei mezzi di comunicazione per creare l’idea di un “Sinodo parallelo”, diverso da quello reale. Così come avvenne per il Concilio Vaticano II, per Morigi, “si vuole proporre un Sinodo diverso da quello dei documenti: il primo progressista, aperto, rivoluzionario, contrapposto al secondo, oscurantista e retrogrado”. Mentre Introvigne, vede una vera e propria “intossicazione” dei documenti, dei testi del Sinodo, da parte dei mass-media. Si assiste a una “forzatura dei testi, facendogli affermare quello che si desidera, a prescindere dal reale contenuto. Oppure tacendo quanto vi è scritto chiaramente”. Ci sono titoli sparati in prima pagina su come il Sinodo si appresterebbe a rivoluzionare la dottrina della Chiesa in tema di famiglia, ammettendo il divorzio e aprendo perfino alle unioni omosessuali. Del resto avviene la stessa cosa ai vari documenti della Chiesa, “ci sono addirittura pontificati presentati secondo una classificazione maliziosa”, scrive Introvigne.Quel che è grave che anche molti cattolici bevono con entusiasmo questa alterazione della verità.
Infine su La Roccia possiamo trovare altri e ben scritti articoli, che certamente aiutano chi vuole essere un vero apostolo della nuova evangelizzazione.

Presentazione del libro "Quei dolori ideali"

Venerdì 9 ottobre  alle ore 17.30
Galleria d’Arte Studio 71
Via Vincenzo Fuxa, 9 - 90143 Palermo
presentazione del volume di Aldo Gerbino


Quei dolori ideali 
150 ed oltre: d’una Italia Unita.
Voci dalla Sicilia

incontri a cura di Vinny Scorsone

Interventi di:
Gonzalo Alvarez García,
Tommaso Romano
Antologia di Letture a cura di Anna Sica
con il violino di Sergio Mirabella

SalvatoreSciascia Editore


martedì 6 ottobre 2015

Gilbert K. Chesterton: grandezza e attualità di uno scrittore cattolico

di Fabio Trevisan

Nel terzo capitolo del saggio: “Ciò che non va nel mondo” del 1910, Chesterton descriveva le caratteristiche della neo-ipocrisia: “L’ipocrita di oggi è una persona i cui scopi sono in tutto e per tutto religiosi, ma finge che siano mondani e pratici”. Si sente dire spesso, anche oggi, che è necessario adattarsi alle nuove esigenze; si ripete con insistenza che bisogna accompagnare, mettersi in cammino con l’altro; insomma, si finge che gli scopi siano mondani e pratici, esattamente come li descriveva il grande scrittore inglese. La dottrina e la teologia tutt’al più possono intervenire dopo, quando e come verranno definite dalla “neo-ipocrisia”, esattamente come più di un secolo fa paventava Chesterton: “La teologia è semplicemente nascosta come un peccato”. Riprendendo l’illuminante frase iniziale in grassetto, si vorrebbe ridicolmente proporre una bella passeggiata in alta montagna, sull’orlo di un precipizio, quando c’è la nebbia! Chesterton riprendeva questa pazzesca immagine per illustrare le condizioni della neo-ipocrisia: “Questa parabola è perfetta per descrivere gli effetti della nostra moderna vaghezza, che perde e allontana gli esseri umani come in una nebbia”.
Proprio perché vaga e indistinta come la nebbia, la neo-ipocrisia non poteva raggiungere la persona umana, la quale se ne stava tranquillamente e giustamente lontana, preferendo un cammino più sicuro e salubre in una bella giornata di sole. Per Chesterton la sana dottrina (l’ortodossia) illuminava i passi dell’uomo e si contrapponeva alla vaghezza di quello che chiamava il “pregiudizio della neo-ipocrisia”: “Vi sono persone che non amano il termine “dogma”. Fortunatamente, sono libere e dispongono di un’alternativa. La mente umana conosce due cose, e solo due: il dogma e il pregiudizio. Il Medioevo fu un’età razionale, un’epoca di dottrina. La nostra epoca, al massimo, è un’epoca poetica, un’età di pregiudizio. Una dottrina rappresenta un punto definito, un pregiudizio è una direzione”.
Chesterton aveva definito già nel 1905, con il saggio Eretici, riprendendo e sviluppando in senso proprio il linguaggio aristotelico-tomistico, che cos’era l’uomo, l’essenza della persona: “L’uomo è un animale che produce dogmi, ovvero la sua mente è fatta per raggiungere delle conclusioni…”. Pertanto l’epoca moderna, contrassegnata dal pregiudizio, formulava un giudizio prima di conoscere esattamente come stavano le cose. Chesterton avversava questo fariseo “dogmatismo degli antidogmatici” e osteggiava i pericoli delle nebbie a-dottrinali: “L’argomento con il quale si giustificava la nostra vaghezza priva di fede era che essa, se non altro, ci salvava dal fanatismo. Invece non fa nemmeno questo. Al contrario, crea e alimenta il fanatismo con una forza del tutto particolare”.
Il pregiudizio tipico della modernità produceva così l’irrazionalità e l’intolleranza. Che cosa poteva porre freno ai pregiudizi dell’uomo moderno ed ai pericoli del suo fanatismo? Chesterton non aveva ambiguità nel proporre la corretta via d’uscita: “Se non disponiamo degli insegnamenti di qualche uomo divino, tutti gli abusi possono essere giustificati, perché l’evoluzione può trasformarli in usi…l’unica risposta efficace a questi argomenti moderni, che rendono plausibile e giustificano l’oppressione, è ribadire che esiste un ideale umano permanente che non deve essere alterato e distrutto”. Non era quindi la dottrina, replicava il grande saggista di Beaconsfield, la causa dei nostri guai ma, al contrario, lo era la “neo-ipocrisia” di un’età piena di pregiudizi: “La dottrina, dunque, non è causa di dissidi. Anzi, una dottrina può costituire da sola un rimedio contro i dissidi”.
Credo che non ci sia bisogno di sottolineare l’incredibile “attualità” di un pensatore cattolico come Gilbert Keith Chesterton o di vederne rafforzata sempre più la devastante neo-ipocrisia che tanto temeva.

da: Riscossa Cristiana, 1 ottobre 2015