di Paolo Prodi
Anche nella storiografia, non solo nella cronaca politica, il termine «rivoluzione» è stato spesso e viene ancora usato in modo equivoco. Non abbiamo ancora abbandonato una visione legata alle ideologie del secolo scorso che sostanzialmente identifica la rivoluzione con i sommovimenti violenti legati alla nazione e alle guerre di classe. L’uso del termine «rivoluzione» per l’età moderna e contemporanea è stato sempre legato — anche presso gli oppositori — alla visione marxista del passaggio dal modo di produzione feudale a quello industrial-capitalistico: sia a destra, sia a sinistra essa viene vista come costruzione di un nuovo ordine alternativo, social-comunista o social-nazionalista, ai regimi liberal-democratici nati da più antiche rivoluzioni borghesi del secolo XVIII quale quella americana o quella francese. Ogni rivoluzione […] ha una sua «ragione» che mira al ripristino di un assetto politico precedente che si pensa sia andato perduto o alla costruzione di un nuovo assetto della politica e della società. Essa non equivale a rivolta o ribellione ma ne è per certi versi l’opposto, anche se l’elemento di violenza può essere comune: rivolte, ribellioni (tumulti, moti, insurrezioni, colpi di Stato) ci sono stati sempre in tutte le civiltà e in tutti i tempi, ma nulla hanno a che fare con il concetto di «rivoluzione», il quale implica un progetto, anche se ideologico o utopico, di una nuova società.
Nell’intellettualità europea del secolo XX dapprima ha prevalso un uso equivoco del concetto di «rivoluzione» legato all’età dei totalitarismi: rivoluzione come lotta radicale alla società borghese, sia nelle avanguardie fasciste di destra, sia negli schieramenti social-comunisti, con il supporto delle ideologie idealista o marxista oppure in dialettica con esse. Solo negli Stati Uniti, soprattutto per merito dell’emigrazione intellettuale europea fuggita dagli orrori del nazismo, si è sviluppata un’idea più complessa di «rivoluzione», particolarmente nella riflessione sulla Rivoluzione americana vista non come un preludio alla successiva Rivoluzione francese ma in opposizione o in alternativa a questa. è del 1938 la pubblicazione di un’opera fondamentale di un intellettuale tedesco, ebreo convertito al cristianesimo, Eugen Rosenstock-Huessy, fuggito negli Stati Uniti già nel 1933 all’avvento al potere di Hitler: Out of Revolution. Autobiography of Western Man, opera mai tradotta e nemmeno conosciuta dalla storiografia ufficiale italiana del dopoguerra, nei decenni in cui essa era imbozzolata nelle controversie fra la cultura idealistica e quella marxista-gramsciana. Rosenstock — iso lato nel suo tempo ma di un’attualità sconcertante — ha per primo intravisto, più da lontano e più nel lungo periodo, la componente rivoluzionaria come caratteristica peculiare e continua dell’Occidente: un processo continuo, durato nove secoli, in cui l’uomo europeo si forma nella separazione e nella dialettica fra potere religioso e potere secolare. L’identità fra potere politico e potere sacrale si è rotta con la rivoluzione di Gregorio VII, con la lotta tra papato e impero nel secolo XI, e questa tensione è continuata sino alla prima guerra mondiale e alla Rivoluzione russa del 1917. Senza questa visione di lungo periodo è impossibile comprendere la più tarda e celebre opera Sulla rivoluzione di Hannah Arendt che riscuoterà un notevole successo — anche se in modo bivalente — nel tornante del 1968 e della rivoluzione culturale cinese, quando le antiche ideologie cominciarono a incrinarsi: dal problema della rivoluzione e dei totalitarismi come avvenimenti politici al problema del male nella storia come problema antropologico.
La storiografia posteriore al 1989 e alla crisi delle ideologie, più che riflettere sul problema concettuale generale della rivoluzione ha accertato con interessanti ricerche empiriche che non è esistito nella storia moderna un confine preciso fra ribellioni e rivoluzioni (dalle guerre dei contadini del primo Cinquecento alla rivolta napoletana di Masaniello del 1647 ecc.); è stata la manualistica tradizionale a classificare, nelle sue semplificazioni scolastiche in bianco e nero, come rivolte o rivoluzioni i movimenti capaci di tradurre le insofferenze sociali in violenze collettive contro i detentori del potere e in diritto di resistenza: rivolte in quanto basate sul richiamo a denunce profetiche, utopie, promesse di nuovi paradisi terrestri, a perdute o immaginarie tradizioni di giustizia e libertà; rivoluzioni come proposte di un nuovo progetto di società.
La storiografia più alla moda sembra però ancora limitarsi, pur accettando la differenza tra rivoluzioni, colpi di stato e ribellioni, a un’esposizione puramente fenomenologica mettendo in fila i rovesciamenti violenti dei sistemi politici avvenuti nel corso della storia ed elencando le diverse tipologie in cui essi possono essere classificati. […] Di fronte a queste visioni onnicomprensive in cui tutti i gatti sono bigi la storiografia italiana recente più avvertita e più attenta ai problemi di metodo ha quindi abbandonato il concetto stesso di «rivoluzione» per mettere al centro della discussione il problema della «transizione» come definizione di epoche assiali e di passaggio, con momenti di accelerazione e di rallentamento nello sviluppo della modernità.
Lo storicismo romantico ha già dimostrato che il pensiero cristiano, da Agostino in poi, aveva mutato sostanzialmente il significato di questo termine da descrizione di un moto ripetitivo degli astri, nella natura e nella società, a un moto lineare, innovativo, come cammino dell’umanità verso la salvezza e la redenzione, tramutato poi, nelle filosofie post-cristiane, nel mito del progresso. Nei grandi dizionari di latino classico e medievale non troviamo però la parola revolutio: soltanto termini come stasis e kìnesis per indicare il moto alternato di quiete e movimento (o rivolgimento) nella natura e nella città. Come è noto, fu Niccolò Copernico a introdurlo nel 1543 intitolando il suo trattato sul movimento dei pianeti intorno al sole De revolutionibus orbium coelestium e questo termine si è diffuso al di là delle scienze della natura nell’Inghilterra del secolo XVII per indicare un mutamento, un cambio di regime. E la nuova visione del mondo che si afferma con l’umanesimo che, riprendendo il pensiero politico classico, collega questo concetto di rivoluzione alla visione delle lotte per il potere (sono state richiamate anche da molti recenti autori le pagine di Aristotele e di Polibio) come moto circolare in base al quale le società come gli astri ritornano al punto di partenza attraverso il susseguirsi di rivoluzioni quando il sistema dominante si corrompe: dalla monarchia abbiamo il passaggio violento alla tirannide, da questa all’oligarchia e alla democrazia, in ordine diverso o inverso ma sempre in qualche modo con la restaurazione di ciò che era stato o si pensava fosse stato all’inizio. Con il passaggio dall’umanesimo al Seicento, con la rivoluzione scientifica, la parola revolutio acquista un significato ben più ampio rispetto al puro ritorno degli astri (o di qualsiasi altro ente) al punto di partenza al termine di un ciclo astronomico, per acquisire il significato diverso di mutamento di paradigma: mutamento che avviene nella storia politico-sociale così come nella storia della scienza quando cambiano i nostri parametri di misura della realtà dal punto di vista antropologico, sociale, politico, economico: quando mutano i paradigmi con cui leggiamo la realtà e ci proponiamo di cambiarla.
(da Il tramonto della rivoluzione, il Mulino, Bologna 2015, pp. 12-19)
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