lunedì 21 settembre 2015

il Latino, Perchè?

di Alfonso Giordano

Viviamo in tempi in cui la generale insoddisfazione si manifesta brutalmente attraverso un’ansia spasmodica di correggere, di mettere in forse,di modificare, perfino  di dissacrare, quello che i nostri antenati hanno ritenuto sacro e inviolabile. In parte, certamente, codesta ansia affannosa di cambiamento può ritenersi giustificata, in quanto le passate esperienze ci hanno insegnato che certe esagerazioni sono state, purtroppo, produttive di negative esperienze e che i canoni un tempo indiscussi mostrano,alla luce di opportune rimeditazioni, più d’una crepa; e svelano, a ben guardare, squarci indubbi di fallacia e di errori addirittura palesi. Ma tutto ciò ci autorizza a questa indiscriminata levata di scudi, a questo insorgere sdegnoso nei confronti di un passato antico o recente che pure era stato acquisito non senza il crisma d’un dibattito serrato e insistito, che si era snodato attraverso diversi secoli? Questa è la domanda che ci dobbiamo porre di fronte ad un anfanare convulso e sempre più diffuso verso la mèta di contraddire in tanta parte ciò che i nostri avi hanno ritenuto per certo.
    Si tratta forse di un’abitudine tutta italiana di disprezzare il passato per cercare di coonestare il presente?  La risposta positiva potrebbe forse desumersi da un gustoso paragone dovuto alla penna di Giuseppe Giusti. Egli, con quell’arguzia tutta toscana che è facile cogliere quasi in ogni suo scritto, facendo riferimento al secolo in cui viveva, nuovo rispetto al precedente, e richiamando le critiche a quest’ultimo, ricorse all’immagine di un nano che era riuscito a salire sulle spalle di un gigante e da lì spropositava: «Hoibò, come sei piccino!»
    Innumerevoli sono i campi nei quali questo meccanismo isterico di reazione si manifesta: accennando a questioni drammaticamente in atto basti pensare al tentativo di innovare sul fondamento stesso del vincolo familiare allargando il concetto di matrimonio, quale certamente fu recepito dai costituenti nella Carta costituzionale, perché desunto dal lessico comune. Ma ritengo che un ricorrente e rilevante esempio, di origine probabilmente complessa, è rinvenibile nel ripetuto, virulento attacco contro lo studio del latino. Sia esso il frutto di un’antipatia nata da un’incompatibilità maturata sui banchi di scuola, oppure da una valutazione squisitamente pragmatica del concetto di cultura, assistiamo sgomenti al ricorrente conato di esautorazione dell’utilità di codesta lingua morta, giustificata osservando che la sua eliminazione permetterebbe l’approfondimento dei corsi di studio delle matematiche, delle scienze e delle lingue straniere. E’ noto che qualche tempo fa il padre di uno studente, il quale ultimo dichiarava di apprezzare in sommo grado lo studio del latino, ha scritto a Repubblica una lettera con la quale esprimeva la sua antitetica opinione rispetto al giudizio del figlio, giudicando il latino solo una lingua morta e disutile in un momento storico in cui lo studio di esso comportava la rinuncia a potenziare quello di altre branche del sapere, più utili – secondo il suo parere – nei tempi moderni. Naturalmente, quella lettera diede la stura a un dibattito in cui opposte schiere di contendenti, talvolta con dovizia di argomenti e osservazioni da entrambe le parti certamente degni di considerazione, hanno manifestato in favore o contro lo studio obbligatorio della lingua latina. Ed è singolare che a favore di quest’ultimo si siano pronunciate persone di alta cultura che apparterrebbero allo schieramento idealmente opposto, perché esponenti della scienza, come, ad esempio, lo scienziato Luca Cavalli Sforza. Quest’ultimo, nell’intervenire in difesa dello studio della lingua latina nel lontano 1933 (durante un primo tentativo di abolizione di tale studio, andato fortunatamente a male ) non nascose la sua iniziale antipatia verso la lingua degli antichi Romani provata ai tempi in cui anch’egli frequentava le scuole, ma dichiarò d’essersene pentito «perché convinto che, se aveva a suo tempo imparato a ragionare e a risolvere problemi difficili nel corso del ginnasio e del liceo, fu grazie all’esperienza di traduzione dal latino». Ma ancor più deciso e perentorio è stato l’intervento di un altro esponente della c.d. «altra cultura», il prof. Giorgio Israel, ordinario di Storia della matematica presso l’Università «La Sapienza» di Roma che nel suo blog ha scagliato sull’argomento un monito inequivocabile che non lascia alternative: «Se muore il liceo classico, muore il paese»! Affermazione che a prima vista può sembrare frutto di esagerazione, ma in realtà scava nel profondo della questione di cui ci stiamo occupando, indirizzandoci verso le radici della nostra cultura, che costituiscono la nostra essenza di vita e di civiltà.    Dobbiamo, peraltro, riconoscere che da un sommario bilancio dei pareri sul tema, mentre l’opinione negativa è supportata dal monotono ritornello dell’inutilità, quella positiva è ricca di ragioni e osservazioni che a me, francamente, sembrano tutt’altro che  destituite di fondamento e meritevoli, in ogni caso, d’una opportuna e approfondita meditazione. Come non ritenere calzanti i richiami al latino come «lingua madre» da cui derivò il nostro idioma che uno scrittore, purtroppo ormai quasi dimenticato, designò come gentile (e ciò non senza ragione, giacché la sostituzione delle o e delle e alle corrispondenti u e i della lingua di Virgilio e Orazio, ne addolcì e ne rese più sonoro l’accento, conservandone, peraltro nella lingua toscana, l’umbratile eco, con la diversa intonazione assunta dalle due vocali in corrispondenza del modello epònimo). E tale argomento porta seco inevitabilmente quello  del rispetto di una tradizione millenaria che non ha riguardato soltanto l’Italia, ma buona parte dell’Europa e che nei nostri confronti non può non esser ancóra rispettata da chi è consapevole della superba realtà rappresentata nel mondo dalla civiltà romana di cui la lingua fu esemplare espressione.  Civiltà, la cui grandezza non può essere offuscata dal ricordo di passate esagerazioni retoriche di un non lontano passato; ché anzi, proprio la scimmiottatura di cattivo gusto ( il c.d. Kitsch) è circostanza che fa risaltare la nobiltà dell’originale.
     Questo il significato profondo, a mio modesto avviso, della frase del prof. Giorgio Israel da cui abbiamo preso le mosse.
    2.- Del resto, come non tener conto del fatto che Il latino – con un fenomeno di certo sorprendente – fu lingua ancóra usata in Europa fino al secolo dei lumi ed è stata fino a poco tempo fa il mezzo di espressione ufficiale della Chiesa cattolica? E’ palese che ciò poté accadere solo   per le caratteristiche intrinseche dell’idioma. Sono state certamente queste che ne hanno favorito e determinato la sua non comune attiva longevità. Ritengo che esse possano condensarsi in poche battute: la sua incisività, la lapidaria concisione, l’armonica sonorità dei fonemi. Ecco perché tante frasi, tanti modi dire di carattere proverbiale, gnomico e moralistico, son diventati  patrimonio comune dei ben parlanti di ogni nazione. Non è negabile che uomini d’ogni razza e cultura sono stati e sono orgogliosi di arricchire la propria prosa col richiamo ad aforismi latini i quali condensano in poche, scultoree frasi, concetti che, per esprimerli altrimenti, occorrerebbe ricorrere a prolisse perifrasi. E limitandoci, poi, ai soli termini giuridici ricordo che mio padre, anch’egli magistrato pervenuto ai vertici della nostra carriera, durante il periodo dei miei studi di giurisprudenza, mi raccomandava di studiare sul Gianturco (volumetto delle Istituzioni di diritto privato, antesignano del Torrente, manuale anch’esso di grande chiarezza) perché sintetizzava le regole relative allo studio del negozio giuridico, ricorrendo a massime latine compendiose e illuminanti che facilitavano la comprensione e il ricordo del testo. Ma è di certo un comune sentire quello di provare nei confronti del latino un senso di reverenza e  di rispetto per chi ancóra faccia ricorso ad esso nell’esprimersi anche nella vita quotidiana. Ricordo un giorno che, essendomi recato all’aeroporto insieme con mio figlio per informarci su una valigia che non era pervenuta contemporaneamente al viaggiatore, partecipai ad una discussione col personale nella quale intervenne un signore che prese spunto da una frase latina adoprata dal mio figliolo (modus procedendi) per esprimere il proprio apprezzamento sull’eleganza verbale con la quale quest’ultimo aveva affrontato la contestazione nei confronti delle informazioni fornite dalla Compagnia aerea. Ripeté con compiacimento la frase latina e soggiunse: – Anche a me piace di tanto in tanto parlare forbito.
    Era dunque bastato l’uso di una locuzione – peraltro assai nota – per conferire a un discorso di una normale quotidianità il crisma dell’impronta culturale. Sicché, tra le diverse reazioni che il ricorso alla lingua in discorso può provocare, v’è anche quella prima descritta. Mentre di solito si accenna all’altra, antitetica, di intolleranza, di vera e propria antipatia verso di essa. Su codesta poggiano – com’è ben noto –   buona parte degli ostracismi di cui abbiam parlato. Tale sentimento di ostilità risulterebbe  ampiamente documentato da un sondaggio pubblicato sul Corriere della sera  da Gabriella Jacomella nel quotidiano del 13 maggio 2009, secondo il quale la maggior parte dei giovani preferisce l’inglese e l’informatica alla letteratura e alle lingue classiche.    Ma vivaddio, come può stupire un siffatto risultato quando da tutti i media,  in tutti i ritrovi, in buona parte delle manifestazioni artistiche, politiche e sociali, nelle più disparate indicazioni, perfino dall’intitolazione di un ministero spuntano termini anglosassoni, frasi inglesi volte a designare situazioni perfettamente e perspicuamente rese dalla nostra lingua parlata? Eppure si preferisce ricorrere alla lingua d’Albione, con espressioni talvolta ricercate che non sempre sono di comune comprensione. Una pioggia continua di anglicismi infesta la nostra vita quotidiana, la nostra penisola, e non esiste un ombrello capace di poterci  riparare. La verità è che il servilismo linguistico è stato in ogni tempo di moda in Italia come ebbi a scrivere in una nota di un mio lontano articolo giuridico. L’Italiano soffre, purtroppo, di un complesso d’inferiorità e crede di potersene liberare ricorrendo a terminologie straniere.
  3.-  In realtà ritengo che l’indicato sentimento d’avversione sia da attribuire storicamente  all’uso della lingua di Giulio Cesare da parte delle classi più colte o che tali volevano sembrare. Esso nasce dalla diffidenza che ispira chi parla in modo poco comprensibile ai più. Sicché, se può comprendersi la ribellione di Renzo nei confronti del latinorum di Don Abbondio, stante l’uso di quella lingua mal celava l’evidente tentativo di giustificare una sopraffazione e un’ingiustizia, non è men giustificabile quella nei confronti degli antichi medici che nascondevano la loro ignoranza sotto il velame di frasi latine, connesse o no, all’oggetto del discorso avviato in sede di controllo sanitario. A questo tipo, peraltro, appartiene l’antipatia che trova la sua genesi nella difficoltà di studiare, comprendere e amare la lingua di Cicerone. E sono convinto che tale sentimento costituisca la molla più pressante per la maggior parte di coloro i quali perseguono lo scopo di pervenire all’abolizione dello studio del latino, anche se si preferisce giustificarla motivando sulla necessità di venire incontro al desiderio della maggioranza dei discenti dei licei tanto classici quanto, soprattutto, scientifici.
    E’ il vessillo sbandierato dagli abolizionisti che tutti agitano con sicumera l’asserta volontà degli studenti di non voler studiare il latino. E’ chiaro che qualcosa di vero sussista in tale affermazione se risultano conformi a verità i sondaggi sopra richiamati.  Ma  allora dovremmo lasciare agli scolari la piena facoltà di gestire i programmi scolastici? E la tanto osannata matematica dai fautori della eliminazione della lingua latina, piacerebbe forse a tutti gli studenti, o una buona parte di essi ne preferirebbe  se non l’abolizione,  un’attenuazione piuttosto che un’amplificazione didattica?
    4.- E qui il discorso si fa, a mio modo di vedere, molto serio nonostante che la formulazione della richiamata osservazione si presterebbe anche a qualche facezia. La nostra epoca, a differenza della precedente, ha portato con sé anche un generalizzato buonismo che nella misura in cui era destinato a riparare l’eccessivo rigorismo antecedente è meritevole sotto questo profilo d’esser salutato con favore; ma, come tutte le reazioni ha la tendenza a strafare e a provocare più danni di quelli causati dalla precedente. Va, invece, considerato  che quando si tratta della programmazione di studi destinati ad educare la nostra gioventù allo scopo di assicurarci in avvenire un salutare ricambio della classe dirigente, la scuola deve rispondere a queste esigenze nel modo che è da ritenere il più formativo e il suo cómpito è palesemente molto importante. Ed è indubitabile che una buona preparazione dei singoli è la  condizione imprescindibile per conseguire un risultato di eccellenza. Ma la preparazione si ottiene con lo studio; e lo studio è sacrificio diuturno, è compressione e superamento di ogni stimolo contrario; è obbedienza ad un imperativo categorico che scaturisca da un giudizio proveniente da un piano superiore esterno, accettato, non supinamente, ma attraverso una sublimazione interiore, un travaglio interno di convinzione profonda, che ne riconosca l’utilità sociale, morale e culturale.  Ricordiamoci del Volli, fortissimamente volli di Vittorio Alfieri. Ora si è detto, senza téma di smentita, che il latino è lingua dall’impostazione assolutamente logica che procede attraverso una sorta di scandaglio grammaticale nell’analisi del periodo: soggetto,predicato verbale, complemento oggetto, complementi vari che sono resi evidenti dalle diverse desinenze.
    In definitiva,  un formidabile esempio d’ordine, di chiarezza, di precisione, di ragionata organizzazione.  Tutto ciò abitua a pensare, a ragionare, a superare gli agguati intellettuali frapposti dalle nostre incertezze concettuali. E, in fondo, anche produce una certa soddisfazione una volta che si riesca a superare l’ostacolo.
     Insomma –mette conto di ribadirlo– lo studio del latino è sotto diversi aspetti formativo. E più esso appare ostico a chi l’imprenda, giacché la grammatica, la sintassi costituiscono certamente ostacoli non facili per nessuno, più l’arricchimento culturale si manifesta come benefica conseguenza nei confronti di coloro che hanno avuto la sagacia e la tenacia di superarli con successo. Io credo che se vogliamo superare la crisi che attanaglia la nostra società, nella sua dirompente e complessa articolazione, dovremmo riflettere convenientemente sulla via da seguire e riconoscere che certe aperture devono esser obiettivamente riviste.
    5.- Ma c’è un’ultima notazione che a me preme tanto, perché fa parte del mio modo di pensare e di intendere la nostra esistenza di esseri pensanti e ragionanti: è quella che concerne la bellezza della lingua latina.  Una bellezza che nasce dall’armonia delle sue frasi, dalla sonorità dei vocaboli, dalla mirabile struttura dei periodi. Una bellezza di cui noi, destinati a vivere in un secolo schiavo delle macchine, in cui il brutto ci sovrasta e ci opprime in quasi ogni attività, abbiamo necessità per respirare aria più pura e per crederci creature degne della nostra tradizione di uomini creati dal soffio divino sul fango originario.  Sarebbe un errore funesto e, probabilmente irreparabile, eliminare o tutt’al più spezzare,  un’impostazione culturale che ci fu lasciata in eredità dai nostri padri i quali – è bene ricordarlo -  avevano ben la testa sulle spalle, come vorremmo tanto che avessero gli uomini di oggi.

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