di Alfonso Giordano
Viviamo in tempi in
cui la generale insoddisfazione si manifesta brutalmente attraverso un’ansia
spasmodica di correggere, di mettere in forse,di modificare, perfino di dissacrare, quello che i nostri antenati
hanno ritenuto sacro e inviolabile. In parte, certamente, codesta ansia affannosa
di cambiamento può ritenersi giustificata, in quanto le passate esperienze ci
hanno insegnato che certe esagerazioni sono state, purtroppo, produttive di
negative esperienze e che i canoni un tempo indiscussi mostrano,alla luce di
opportune rimeditazioni, più d’una crepa; e svelano, a ben guardare, squarci
indubbi di fallacia e di errori addirittura palesi. Ma tutto ciò ci autorizza a
questa indiscriminata levata di scudi, a questo insorgere sdegnoso nei
confronti di un passato antico o recente che pure era stato acquisito non senza
il crisma d’un dibattito serrato e insistito, che si era snodato attraverso
diversi secoli? Questa è la domanda che ci dobbiamo porre di fronte ad un
anfanare convulso e sempre più diffuso verso la mèta di contraddire in tanta
parte ciò che i nostri avi hanno ritenuto per certo.
Si tratta forse di un’abitudine
tutta italiana di disprezzare il passato per cercare di coonestare il presente?
La risposta positiva potrebbe forse desumersi
da un gustoso paragone dovuto alla penna di Giuseppe Giusti. Egli, con
quell’arguzia tutta toscana che è facile cogliere quasi in ogni suo scritto, facendo
riferimento al secolo in cui viveva, nuovo rispetto al precedente, e
richiamando le critiche a quest’ultimo, ricorse all’immagine di un nano che era
riuscito a salire sulle spalle di un gigante e da lì spropositava: «Hoibò, come
sei piccino!»
Innumerevoli sono i campi nei quali questo
meccanismo isterico di reazione si manifesta: accennando a questioni
drammaticamente in atto basti pensare al tentativo di innovare sul fondamento stesso
del vincolo familiare allargando il concetto di matrimonio, quale certamente fu
recepito dai costituenti nella Carta costituzionale, perché desunto dal lessico
comune. Ma ritengo che un ricorrente e rilevante esempio, di origine probabilmente
complessa, è rinvenibile nel ripetuto, virulento attacco contro lo studio del
latino. Sia esso il frutto di un’antipatia nata da un’incompatibilità maturata
sui banchi di scuola, oppure da una valutazione squisitamente pragmatica del
concetto di cultura, assistiamo sgomenti al ricorrente conato di esautorazione
dell’utilità di codesta lingua morta, giustificata osservando che la sua eliminazione
permetterebbe l’approfondimento dei corsi di studio delle matematiche, delle
scienze e delle lingue straniere. E’ noto che qualche tempo fa il padre di uno
studente, il quale ultimo dichiarava di apprezzare in sommo grado lo studio del
latino, ha scritto a Repubblica una
lettera con la quale esprimeva la sua antitetica opinione rispetto al giudizio
del figlio, giudicando il latino solo una lingua morta e disutile in un momento
storico in cui lo studio di esso comportava la rinuncia a potenziare quello di
altre branche del sapere, più utili – secondo il suo parere – nei tempi
moderni. Naturalmente, quella lettera diede la stura a un dibattito in cui
opposte schiere di contendenti, talvolta con dovizia di argomenti e
osservazioni da entrambe le parti certamente degni di considerazione, hanno
manifestato in favore o contro lo studio obbligatorio della lingua latina. Ed è
singolare che a favore di quest’ultimo si siano pronunciate persone di alta
cultura che apparterrebbero allo schieramento idealmente opposto, perché
esponenti della scienza, come, ad esempio, lo scienziato Luca Cavalli Sforza.
Quest’ultimo, nell’intervenire in difesa dello studio della lingua latina nel lontano
1933 (durante un primo tentativo di abolizione di tale studio, andato
fortunatamente a male ) non nascose la sua iniziale antipatia verso la lingua
degli antichi Romani provata ai tempi in cui anch’egli frequentava le scuole,
ma dichiarò d’essersene pentito «perché convinto che, se aveva a suo tempo
imparato a ragionare e a risolvere problemi difficili nel corso del ginnasio e
del liceo, fu grazie all’esperienza
di traduzione dal latino». Ma ancor più deciso e perentorio è stato
l’intervento di un altro esponente della c.d. «altra cultura», il prof. Giorgio Israel, ordinario di Storia della
matematica presso l’Università «La Sapienza» di Roma che nel suo blog ha scagliato sull’argomento un
monito inequivocabile che non lascia alternative: «Se muore il liceo classico, muore il paese»! Affermazione che a
prima vista può sembrare frutto di esagerazione, ma in realtà scava nel
profondo della questione di cui ci stiamo occupando, indirizzandoci verso le
radici della nostra cultura, che costituiscono la nostra essenza di vita e di
civiltà. Dobbiamo, peraltro, riconoscere che da un
sommario bilancio dei pareri sul tema, mentre l’opinione negativa è supportata
dal monotono ritornello dell’inutilità, quella positiva è ricca di ragioni e
osservazioni che a me, francamente, sembrano tutt’altro che destituite di fondamento e meritevoli, in
ogni caso, d’una opportuna e approfondita meditazione. Come non ritenere
calzanti i richiami al latino come «lingua madre» da cui derivò il nostro
idioma che uno scrittore, purtroppo ormai quasi dimenticato, designò come gentile (e ciò non senza ragione,
giacché la sostituzione delle o e
delle e alle corrispondenti u e i
della lingua di Virgilio e Orazio, ne addolcì e ne rese più sonoro l’accento,
conservandone, peraltro nella lingua toscana, l’umbratile eco, con la diversa
intonazione assunta dalle due vocali in corrispondenza del modello epònimo). E
tale argomento porta seco inevitabilmente quello del rispetto di una tradizione millenaria che non
ha riguardato soltanto l’Italia, ma buona parte dell’Europa e che nei nostri
confronti non può non esser ancóra rispettata da chi è consapevole della superba
realtà rappresentata nel mondo dalla civiltà romana di cui la lingua fu
esemplare espressione. Civiltà, la cui
grandezza non può essere offuscata dal ricordo di passate esagerazioni
retoriche di un non lontano passato; ché anzi, proprio la scimmiottatura di
cattivo gusto ( il c.d. Kitsch) è
circostanza che fa risaltare la nobiltà dell’originale.
Questo il significato profondo, a mio
modesto avviso, della frase del prof. Giorgio Israel da cui abbiamo preso le
mosse.
2.- Del resto, come non tener
conto del fatto che Il latino – con un fenomeno di certo sorprendente – fu lingua
ancóra usata in Europa fino al secolo dei
lumi ed è stata fino a poco tempo fa il mezzo di espressione ufficiale della
Chiesa cattolica? E’ palese che ciò poté accadere solo per le
caratteristiche intrinseche dell’idioma. Sono state certamente queste che ne hanno
favorito e determinato la sua non comune attiva longevità. Ritengo che esse possano
condensarsi in poche battute: la sua incisività, la lapidaria concisione, l’armonica
sonorità dei fonemi. Ecco perché tante frasi, tanti modi dire di carattere
proverbiale, gnomico e moralistico, son diventati patrimonio comune dei ben parlanti di ogni nazione.
Non è negabile che uomini d’ogni razza e cultura sono stati e sono orgogliosi
di arricchire la propria prosa col richiamo ad aforismi latini i quali condensano
in poche, scultoree frasi, concetti che, per esprimerli altrimenti,
occorrerebbe ricorrere a prolisse perifrasi. E limitandoci, poi, ai soli termini
giuridici ricordo che mio padre, anch’egli magistrato pervenuto ai vertici
della nostra carriera, durante il periodo dei miei studi di giurisprudenza, mi
raccomandava di studiare sul Gianturco (volumetto delle Istituzioni di diritto
privato, antesignano del Torrente, manuale anch’esso di grande chiarezza)
perché sintetizzava le regole relative allo studio del negozio giuridico,
ricorrendo a massime latine compendiose e illuminanti che facilitavano la
comprensione e il ricordo del testo. Ma è di certo un comune sentire quello di
provare nei confronti del latino un senso di reverenza e di rispetto per chi ancóra faccia ricorso ad esso
nell’esprimersi anche nella vita quotidiana. Ricordo un giorno che, essendomi
recato all’aeroporto insieme con mio figlio per informarci su una valigia che
non era pervenuta contemporaneamente al viaggiatore, partecipai ad una
discussione col personale nella quale intervenne un signore che prese spunto da
una frase latina adoprata dal mio figliolo (modus
procedendi) per esprimere il proprio apprezzamento sull’eleganza verbale
con la quale quest’ultimo aveva affrontato la contestazione nei confronti delle
informazioni fornite dalla Compagnia aerea. Ripeté con compiacimento la frase
latina e soggiunse: – Anche a me piace di tanto in tanto parlare forbito.
Era dunque bastato l’uso di una locuzione – peraltro assai nota – per
conferire a un discorso di una normale quotidianità il crisma dell’impronta
culturale. Sicché, tra le diverse reazioni che il ricorso alla lingua in
discorso può provocare, v’è anche quella prima descritta. Mentre di solito si
accenna all’altra, antitetica, di intolleranza, di vera e propria antipatia verso
di essa. Su codesta poggiano – com’è ben noto –
buona parte degli ostracismi di
cui abbiam parlato. Tale sentimento di ostilità risulterebbe ampiamente documentato da un sondaggio
pubblicato sul Corriere della sera da Gabriella Jacomella nel quotidiano del 13
maggio 2009, secondo il quale la maggior parte dei giovani preferisce l’inglese
e l’informatica alla letteratura e alle lingue classiche. Ma vivaddio, come può stupire un siffatto
risultato quando da tutti i media, in tutti
i ritrovi, in buona parte delle manifestazioni artistiche, politiche e sociali,
nelle più disparate indicazioni, perfino dall’intitolazione di un ministero
spuntano termini anglosassoni, frasi inglesi volte a designare situazioni
perfettamente e perspicuamente rese dalla nostra lingua parlata? Eppure si
preferisce ricorrere alla lingua d’Albione, con espressioni talvolta ricercate
che non sempre sono di comune comprensione. Una pioggia continua di anglicismi
infesta la nostra vita quotidiana, la nostra penisola, e non esiste un ombrello
capace di poterci riparare. La verità è
che il servilismo linguistico è stato in ogni tempo di moda in Italia come ebbi
a scrivere in una nota di un mio lontano articolo giuridico. L’Italiano soffre,
purtroppo, di un complesso d’inferiorità e crede di potersene liberare
ricorrendo a terminologie straniere.
3.- In realtà ritengo che l’indicato
sentimento d’avversione sia da attribuire storicamente all’uso della lingua di Giulio Cesare da parte
delle classi più colte o che tali volevano sembrare. Esso nasce dalla
diffidenza che ispira chi parla in modo poco comprensibile ai più. Sicché, se
può comprendersi la ribellione di Renzo nei confronti del latinorum di Don Abbondio, stante l’uso di quella lingua mal celava
l’evidente tentativo di giustificare una sopraffazione e un’ingiustizia, non è
men giustificabile quella nei confronti degli antichi medici che nascondevano
la loro ignoranza sotto il velame di frasi latine, connesse o no, all’oggetto
del discorso avviato in sede di controllo sanitario. A questo tipo, peraltro,
appartiene l’antipatia che trova la sua genesi nella difficoltà di studiare,
comprendere e amare la lingua di Cicerone. E sono convinto che tale sentimento
costituisca la molla più pressante per la maggior parte di coloro i quali perseguono
lo scopo di pervenire all’abolizione dello studio del latino, anche se si preferisce
giustificarla motivando sulla necessità di venire incontro al desiderio della
maggioranza dei discenti dei licei tanto classici quanto, soprattutto,
scientifici.
E’ il vessillo sbandierato dagli abolizionisti che tutti agitano con
sicumera l’asserta volontà degli studenti di non voler studiare il latino. E’
chiaro che qualcosa di vero sussista in tale affermazione se risultano conformi
a verità i sondaggi sopra richiamati. Ma
allora dovremmo lasciare agli scolari la
piena facoltà di gestire i programmi scolastici? E la tanto osannata matematica
dai fautori della eliminazione della lingua latina, piacerebbe forse a tutti
gli studenti, o una buona parte di essi ne preferirebbe se non l’abolizione, un’attenuazione piuttosto che
un’amplificazione didattica?
4.- E qui il discorso si fa, a mio modo di vedere, molto serio
nonostante che la formulazione della richiamata osservazione si presterebbe
anche a qualche facezia. La nostra epoca, a differenza della precedente, ha
portato con sé anche un generalizzato buonismo che nella misura in cui era destinato
a riparare l’eccessivo rigorismo antecedente è meritevole sotto questo profilo
d’esser salutato con favore; ma, come tutte le reazioni ha la tendenza a
strafare e a provocare più danni di quelli causati dalla precedente. Va,
invece, considerato che quando si tratta
della programmazione di studi destinati ad educare la nostra gioventù allo
scopo di assicurarci in avvenire un salutare ricambio della classe dirigente, la
scuola deve rispondere a queste esigenze nel modo che è da ritenere il più
formativo e il suo cómpito è palesemente molto importante. Ed è indubitabile che una
buona preparazione dei singoli è la condizione
imprescindibile per conseguire un risultato di eccellenza. Ma la preparazione
si ottiene con lo studio; e lo studio è sacrificio diuturno, è compressione e
superamento di ogni stimolo contrario; è obbedienza ad un imperativo categorico
che scaturisca da un giudizio proveniente da un piano superiore esterno, accettato,
non supinamente, ma attraverso una sublimazione interiore, un travaglio interno
di convinzione profonda, che ne riconosca l’utilità sociale, morale e
culturale. Ricordiamoci del Volli, fortissimamente volli di Vittorio
Alfieri. Ora si è detto, senza téma di smentita, che il latino è lingua dall’impostazione
assolutamente logica che procede attraverso una sorta di scandaglio grammaticale
nell’analisi del periodo: soggetto,predicato verbale, complemento oggetto,
complementi vari che sono resi evidenti dalle diverse desinenze.
In definitiva, un formidabile esempio d’ordine, di chiarezza,
di precisione, di ragionata organizzazione. Tutto ciò abitua a pensare, a ragionare, a
superare gli agguati intellettuali frapposti dalle nostre incertezze
concettuali. E, in fondo, anche produce una certa soddisfazione una volta che
si riesca a superare l’ostacolo.
Insomma –mette conto di ribadirlo– lo studio del latino è sotto diversi
aspetti formativo. E più esso appare ostico a chi l’imprenda, giacché la grammatica,
la sintassi costituiscono certamente ostacoli non facili per nessuno, più
l’arricchimento culturale si manifesta come benefica conseguenza nei confronti
di coloro che hanno avuto la sagacia e la tenacia di superarli con successo. Io
credo che se vogliamo superare la crisi che attanaglia la nostra società, nella
sua dirompente e complessa articolazione, dovremmo riflettere convenientemente
sulla via da seguire e riconoscere che certe aperture devono esser
obiettivamente riviste.
5.- Ma c’è un’ultima notazione che a me preme tanto, perché fa parte del
mio modo di pensare e di intendere la nostra esistenza di esseri pensanti e
ragionanti: è quella che concerne la bellezza della lingua latina. Una bellezza che nasce dall’armonia delle sue
frasi, dalla sonorità dei vocaboli, dalla mirabile struttura dei periodi. Una
bellezza di cui noi, destinati a vivere in un secolo schiavo delle macchine, in
cui il brutto ci sovrasta e ci opprime in quasi ogni attività, abbiamo
necessità per respirare aria più pura e per crederci creature degne della
nostra tradizione di uomini creati dal soffio divino sul fango originario. Sarebbe un errore funesto e, probabilmente
irreparabile, eliminare o tutt’al più spezzare,
un’impostazione culturale che ci fu lasciata in eredità dai nostri padri
i quali – è bene ricordarlo - avevano
ben la testa sulle spalle, come vorremmo tanto che avessero gli uomini di oggi.
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