di Lorenza Perfori
Negli ultimi decenni il politically correct ha provveduto a tirare a lucido una serie di vecchie parole, sostituendo il linguaggio antiquato con una nuova terminologia scintillante e rassicurante. La correttezza politica ha, altresì, trovato un fertile terreno nell’incontro tra biologia umana e diritti, legando i due in un robusto sodalizio. Qui si è sviluppata una strategia culturale all’avanguardia, volta a manipolare la percezione pubblica sulle grandi questioni della vita, sia cambiando nome alla realtà, sia rovesciando il significato delle parole.
Che il linguaggio cambi, con l’evolversi della società e della cultura, è un dato di fatto, ciò non vuol dire che le parole ammodernate possano chiarire meglio il senso delle cose, anzi, spesso è vero il contrario. Succede, infatti, che i nuovi termini più che chiarire, oscurino; più che evidenziare, nascondino; più che mostrare la verità, perpetuino la menzogna. Prendiamo, per esempio, l’aborto, tramutatosi nel più rassicurante “Interruzione volontaria di gravidanza” e poi, nel più asettico “Ivg”. Per cui, oggi, non si dice più “ho abortito”, troppo desueto; ma, “ho fatto una Ivg”. E tutti sono subito più tranquilli.
“Ivg” si dice, ma la realtà che sta dietro alla sigla rimane comunque, dolorosamente e drammaticamente, l’uccisione volontaria del proprio figlio. Il cuore della donna lo sa che è così, che quello è un figlio. Anche la scienza lo dice. Una volta che i patrimoni genetici del padre e della madre si sono fusi insieme con la fecondazione, se ne origina uno nuovo, unico e irripetibile. Dopo appena qualche ora dall’unione dello spermatozoo con l’ovulo, il patrimonio genetico del figlio concepito è già scritto. E se esistesse un programma in grado di tradurre in immagini il genoma, potremmo vederne i tratti somatici, i lineamenti del volto, colore degli occhi, dei capelli… e tutto il resto.
Ma le parole dicono no, che non è così. Quello è solo un “grumo di cellule”, “non ha ancora attività cerebrale”, e allora se lo elimino non faccio niente di male, come fosse toglier via un brufoletto. Con una asettica “Ivg” il cuore è acquietato e il “brufoletto” eliminato.
Eppure i conti non tornano. Non tornano perché per un brufoletto non serve andare in ospedale, entrare in sala operatoria e sottoporsi ad anestesia. E nemmeno ingurgitare un veleno. I conti non tornano, perché se è solo un “grumo” insignificante, per quale motivo prendersi tanto disturbo per eliminarlo, se è “niente”, che problemi crea? Che fastidio dà il “niente”? Lo si può anche lasciare lì dov’è, il “grumo cellulare”, prima o poi si riassorbirà da solo…
“Ivg” si dice, per silenziare il cuore… temporaneamente, giusto il tempo che tutto finisca, il prima possibile… Non basterà una vita intera per zittire quello stesso cuore quando l’anestesia lessicale avrà perso il suo effetto, quel cuore che la terminologia disinfettata, o menzognera, non ha tacitato affatto.
Un altro esempio lo troviamo quando l’attenzione si sposta sull’argomento “immigrati”. Sono anni, ormai, che “negro” non si dice più, è offensivo – ci dicono – il termine esatto è “uomo di colore”. Nemmeno “zingaro” si può dire più, meglio “rom”, anzi no, meglio dire “migrante” così nessuno si offende.
Bene, gli “uomini di colore” e i “migranti” sono certamente grati per la nuova terminologia più rispettosa, peccato, però, che questo restyling non abbia per nulla fermato il disprezzo nei loro confronti e gli episodi di razzismo o indifferenza.
Come si vede il discorso ritorna lì, al cuore. Le parole lucidate non cambiano i cuori. Chi disprezza i “negri”, disprezza anche gli “uomini di colore” e chi ama il prossimo continua ad amarlo anche se non ha aggiornato il vocabolario.
E allora, quello che conta, non sono le parole nuove, né quelle corrette, ma i fatti giusti. Le parole lucidate agiscono solo in superficie, non penetrano in profondità, non cambiano le cose, non modificano anche il cuore e, a volte, sono una maschera che nasconde la verità. E allora, ben vengano i nuovi termini, ma assicuriamoci di accompagnarli alla carità… e alla verità, affinché la denominazione ineccepibile non sia un comodo alibi per nascondere il cuore o per fare tutto quello che pare e piace.
A fare un elenco spiritoso di alcuni vecchi termini rimessi a nuovo, ci ha pensato lo scrittore Alessandro Pronzato in un libro, di qualche anno fa, dal titolo: Alla ricerca delle Virtù perdute (Gribaudi, 3a ed., Sett. 2000, pp. 161-167).
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