di Luciano Garibaldi
Il 10 febbraio scorso, in occasione della celebrazione del “Giorno del Ricordo”, «Riscossa Cristiana» ha pubblicato l’ottimo articolo di Alfonso Indelicato dedicato al calvario degli italiani del confine orientale. Assieme alla puntuale ricostruzione storica di Indelicato, veniva riproposto anche l’articolo che dedicai un anno fa alla commemorazione dell’evento. Ciò non m’impedisce di tornare sull’argomento, soprattutto alla luce di numerosi episodi che rivelano come la triste vicenda delle foibe continui a dividere, anziché a unire, come dovrebbe, dopo così tanto tempo.
Infatti sono trascorsi ormai tredici anni da quando, nel 2004, fummo chiamati a celebrare il «Giorno del Ricordo», in memoria dei quasi ventimila nostri fratelli assassinati dagli jugoslavi comunisti di Tito, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, nelle ex province italiane della Venezia Giulia, dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia. La domanda che sorge spontanea è questa: come mai quella tragedia era stata confinata nel regno dell’oblio per quasi sessant’anni? Tanti, infatti, ne erano passati tra quel biennio 1945-46 che vide realizzarsi l’orrore delle foibe, e l’auspicato 2004, quando il Parlamento approvò la «legge Menia» (dal nome del deputato triestino Roberto Menia, che l’aveva proposta) sulla istituzione del «Giorno del Ricordo».
La risposta va ricercata in una sorta di tacita complicità, durata decenni, tra le forze politiche centriste e cattoliche da una parte, e quelle di estrema sinistra dall’altra, in primis il PCI (Partito Comunista Italiano) che aveva molte cose da nascondere.
Fu soltanto dopo il 1989 (crollo del muro di Berlino ed autoestinzione del comunismo sovietico), che nell’impenetrabile diga del silenzio incominciò ad aprirsi qualche crepa. Il 3 novembre 1991, l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga si recò in pellegrinaggio alla foiba di Basovizza e, in ginocchio, chiese perdono per un silenzio durato cinquant’anni. Poi arrivò la TV pubblica con la fiction «Il cuore nel pozzo» interpretata fra gli altri dal popolare attore Beppe Fiorello. Un altro presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, si era recato, in reverente omaggio ai Caduti, davanti al sacrario di Basovizza l’11 febbraio 1993. Così, a poco a poco, la coltre di silenzio che, per troppo tempo, era calata sulla tragedia delle terre orientali italiane, divenne sempre più sottile e finalmente tutti abbiamo potuto conoscere quante sofferenze dovettero subìre i nostri fratelli della Venezia Giulia, dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia.
Ma vediamo come e perché si verificò la tragedia delle foibe. L’Italia era entrata nel conflitto mondiale alleandosi con la Germania e dichiarando guerra il 10 giugno 1940 alla Francia e all’Inghilterra, poi agli Stati Uniti d’America il 7 dicembre 1941. Dopo tre anni di guerra, le cose si erano messe male per noi, e il regime fascista di Mussolini, che governava il Paese ormai da vent’anni, aveva decretato il proprio fallimento con la storica riunione del Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio 1943. Ne erano seguiti lo scioglimento del Partito fascista, la resa dell’8 settembre, lo sfaldamento delle nostre Forze Armate.
Nei Balcani, e particolarmente in Croazia e Slovenia, le due regioni balcaniche confinanti con l’Italia, il crollo dell’Esercito italiano aveva fatalmente coinvolto le due capitali, Zagabria (Croazia) e Lubiana (Slovenia). Qui avevano avuto il sopravvento le forze politiche comuniste guidate da Josip Broz, nome di battaglia «Tito», che avevano finalmente sconfitto gli odiati “ustascia” (i fascisti croati agli ordini del dittatore Ante Pavelic), e i non meno odiati “domobranzi”, che non erano fascisti, ma semplicemente ragazzi di leva sloveni, chiamati alle armi da Lubiana a partire dal 1940, allorché la Slovenia era stata incorporata nell’Italia divenendone provincia autonoma.
Tito e i suoi uomini, stella rossa sul berretto, fedelissimi di Mosca, odiavano a morte gli italiani e non avevano mai fatto mistero di volersi impadronire non solo della Dalmazia e della penisola d’Istria, ma di tutto il Veneto, fino all’Isonzo.
Fino alla fine di aprile 1945 erano stati tenuti a freno dai tedeschi che, con una ferocia eguale, se non superiore, alla loro, avevano dominato Serbia, Croazia e Slovenia con il pugno di ferro dei loro ben noti sistemi (stragi, rappresaglie dieci a uno, paesi incendiati e distrutti). Ma con il crollo del Terzo Reich, nulla ormai poteva più fermare gli uomini di Tito, irreggimentati nel IX Korpus, e la loro polizia segreta, l’OZNA (Odeljenje za Zaštitu NAroda, Dipartimento per la Sicurezza del Popolo). L’obiettivo era l’occupazione dei territori italiani.
Non avevano fatto i conti, però, con le truppe Alleate che avanzavano dal Sud della nostra penisola, dopo avere superato la Linea Gotica. La prima formazione alleata a liberare Venezia e poi Trieste fu la Divisione Neozelandese del generale Freyberg, l’eroe della battaglia di Cassino, appartenente all’Ottava Armata britannica. Fu una vera e propria gara di velocità. Gli jugoslavi erano favoriti dal fatto che le truppe tedesche si erano arrese in quasi tutta l’Istria e tenevano sotto controllo soltanto Trieste e la linea costiera, per cui gli jugoslavi poterono impadronirsi di Fiume e di tutta l’Istria interna, dando subito inizio alle feroci esecuzioni contro gli italiani. Ma non riuscirono ad assicurarsi la preda più ambita: la città, il porto e le fabbriche di Trieste. Infatti, la Divisione Neozelandese del generale Freyberg entrò nei sobborghi occidentali di Trieste nel tardo pomeriggio del 1° maggio ‘45, mentre la città era ancora formalmente in mano ai tedeschi che, asserragliati nella fortezza di San Giusto, si arresero a Freyberg il 2, impedendo in tal modo a Tito di sostenere che aveva «preso» Trieste. La rabbia degli uomini di Tito e dei loro complici comunisti italiani si scatenò allora contro persone inermi in una saga di sangue degna degli orrori rivoluzionari in Russia del periodo 1917-1919.
Fin dall’ottobre 1945 il premier italiano Alcide De Gasperi presentò agli Alleati «una lista di nomi di 2500 deportati dalle truppe jugoslave nella Venezia Giulia» ed indicò «in almeno 7500 il numero degli scomparsi». In realtà, il numero degli infoibati e dei massacrati nei Lager di Tito fu ben superiore a quello temuto da De Gasperi. Le uccisioni di italiani furono almeno ventimila.
Il dramma delle terre italiane dell’Est si concluse con la firma del trattato di pace il 10 febbraio 1947, a Parigi. Tradita e abbandonata anche dagli inglesi e dagli americani, i veri vincitori della Seconda Guerra Mondiale, l’Italia dovette rinunciare per sempre a Zara, alla Dalmazia, alle isole del Quarnaro, a Fiume, all’Istria, a parte della provincia di Gorizia, a tutte quelle regioni e province dalle quali gli italiani fuggivano a diecine di migliaia, abbandonando le loro case e ammassando sui carri trainati dai cavalli le poche masserizie che avevano potuto portare con sé.
Purtroppo, una delle cose più vergognose fu il comportamento dei ministri comunisti che facevano parte del governo De Gasperi. Un esempio per tutti: Emilio Sereni, che ricopriva la determinante carica di ministro per l’Assistenza post-bellica, e sul cui tavolo finivano tutti i rapporti con le domande di esodo e di assistenza provenienti da Pola, da Fiume, dall’Istria e dalla ex Dalmazia italiana, anziché farsene carico e rappresentare all’opinione pubblica la drammaticità della situazione (tra le domande ve ne erano non poche firmate da esponenti comunisti italiani rimasti dall’altra parte della linea Morgan, che tuttavia si sentivano prima di tutto italiani), minimizzò e falsificò i dati. Rifiutò di ammettere nuovi esuli nei campi profughi di Trieste con la scusa che non c’era più posto e, in una serie di relazioni a De Gasperi, parlò di «fratellanza italo-slovena e italo-croata», sostenne la necessità di scoraggiare le partenze e di costringere gli istriani a rimanere nelle loro terre, affermò che le notizie sulle foibe erano «propaganda reazionaria».
Il trattato di pace di Parigi regalò alla Jugoslavia l’Istria, Fiume, Zara e le isole dalmate, con il diritto a Belgrado di confiscare tutti i beni dei cittadini italiani, che sarebbero poi stati indennizzati dal governo di Roma. Ebbene – e questa è l’ingiustizia più grave, che perdura tutt’ora – i sopravvissuti, e i loro eredi, non hanno mai visto un centesimo. La stragrande maggioranza emigrò in varie parti del mondo cercando una nuova patria: chi in Sud America, chi in Australia, chi in Canada, chi negli Stati Uniti. Tantissimi riuscirono a sistemarsi faticosamente in Italia e oggi rappresentano una nobile comunità che continua a lottare perché almeno sia rispettata la verità storica. Cosa che purtroppo, anche in molti libri di storia per le scuole, non avviene.
E perché non avviene? Per quella tendenza che ha preso il nome di “giustificazionismo”. Ovvero: le stragi di italiani vi furono, sì; uomini, donne e vecchi gettati vivi a morire in foiba vi furono, sì. Ma si trattò di una ritorsione, di una vendetta per le atrocità che le popolazioni slave (croate e slovene) avrebbero subìto per mano degli italiani negli anni in cui questi dominavano le loro terre. Ebbene, mai una prova è stata portata a sostegno di questa tesi infamante e calunniosa. Non ci sono nomi, non ci sono fotografie, non ci sono documenti scritti. Soltanto invenzioni.
La numerosa serie di atti d’accusa preparata dalle polizie segrete comuniste che, in mancanza di prove reali e certe, le fabbricavano, fu una costante soprattutto nei Paesi dove, dopo la guerra, sopravvisse il regime comunista. Nelle aree comprese nella sfera sovietica (a cominciare dai Balcani), la legge e la giustizia venivano piegate agli scopi politici.
Alla tragedia delle foibe, l’autore, Luciano Garibaldi, giornalista e storico, ha dedicato, assieme alla professoressa Rossana Mondoni, tre libri per i tipi delle edizioni Solfanelli: «Venti di bufera sul confine orientale», «Nel nome di Norma», dedicato al ricordo di Norma Cossetto, la studentessa triestina tra le prime vittime della violenza rossa, e «Foibe, un conto aperto».
da: www.riscossacristiana.it
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