di Aldo A. Mola (*)
Ma che colore hanno gli
Italiani? E com'erano prima di indossare la “camicia nera”? Sulla lunga
distanza essi risultano un “caleidoscopio cromatico” secondo Maurizio Ridolfi,
autore di La politica dei colori. Emozioni e passioni nella storia d'Italia
dal Risorgimento al ventennio fascista (Le Monnier). La “roba” si cambia
alla svelta, la pelle no. Gli italiani l'hanno coriacea. Inspessita in millenni
di trionfi e di servitù. Un po' come quella degli inglesi, che (ma non tutti lo
sanno) sarebbero nostri “cugini”. Infatti, secondo Brunetto Latini (che nella Divina
Commedia il suo allievo Dante Alighieri mette all'inferno tra i
peccatori “contro natura”) il troiano Enea ebbe due figli: Silvio, che si
stanziò nel Lazio, e Bruto, che andò a dare nome alla Bretagna. Da lui discese
“il buon re Artù”, quello della Tavola Rotonda: dai commensali inquieti e a
gambe divaricate, sempre con un piede dentro e uno fuori dalla Vecchia Europa.
Neppure il fascismo fu
monocromatico. Il nero degli squadristi e poi della Milizia volontaria di
sicurezza nazionale venne ravvivato con distintivi luccicanti e con i colori
vividi delle sciarpe di Sansepolcrista, “Marcia su Roma” e altre benemerenze.
Poi nel partito entrarono, alla pari, le Camicie azzurro Savoia dei
Nazionalisti, affiancati dai “Sempre pronti” (decisi anche allo scontro fisico
coi fascisti). Non solo. Le grandi parate del ventennio, dall'Altare della
Patria in Roma ai Sacrari militari (Aquileia, Redipuglia...), non furono
affatto “in nero”. Ebbero i colori dell'Esercito, della Marina e, quando
assunse veste definitiva, dell'Aeronautica. Dominante rimase comunque il
tricolore adottato nel 1848 da Carlo Alberto di Savoia, re di Sardegna, e
difeso strenuamente da Vittorio Emanuele III contro i tentativi di Mussolini di
incastonare il fascio littorio accanto allo Scudo Sabaudo: un colpaccio che al
Duce riuscì per gli emblemi degli Enti locali, non per quello dello Stato.
D'altronde il Ventennio fu
monocorde solo nella fiaba schematica del regime che, invece, procedette a
zig-zag, cambiando decine di ministri nei posti chiave (Interno, Esteri, Guerra
e soprattutto Economia Nazionale) e oltre 160 sottosegretari di Stato. Il
liberismo originario di Alberto De Stefani non è la stessa cosa del
corporativismo; tra Alberto Beneduce (socialista, massone, ideatore e
presidente dell'IRI) e l'autarchia vi è un abisso incolmabile dal punto di vista
dottrinale e fattuale. Qual è dunque il nerbo dell'“Invenzione della
Patria” narrata da Fabio Finotti in Italia (Bompiani)? Secondo
lui la Patria “non è un'idea platonica e metastorica, e neppure un dato
naturale e immutabile dell'esistenza umana” ma “assume forme diverse a seconda
dei luoghi e dei periodi”. I patrioti fanno la Patria, ma la Patria non deve
dimenticarli. Se lo Stato ignora gli Statali si mette all'incanto, come accadde
all'imperatore romano Publio Elvio Pertinace: non pagò quanto aveva promesso ai
pretoriani che lo avevano eletto e ne
venne accoppato (193 d. Cr.).
Messa alle spalle la litania
di chi (come Emilio Gentile) da decenni ripete che dal 28 ottobre 1922 “fu subito regime”, si apprezzano
letture innovative. Mentre pullulano riedizioni di classici (è il caso del Mussolini
di Renzo De Felice curato da Francesco Perfetti per “Il Giornale”), Massimo
Luigi Salvadori propone Democrazia. Storia di un'idea tra mito e realtà (Donzelli),
Giuseppe Bedeschi perlustra la Storia del pensiero liberale (Rubbettino)
e Luciano Pellicani allarga l'orizzonte con L'Occidente e i suoi nemici (Rubbettino):
ripetizione dell'antico conflitto tra Sparta e Atene, tra un sistema ideologico
militare chiuso e la “democrazia” di Pericle, fondata sul culto della bellezza
e del pensiero. Bisogna ricordarsene mentre ancora una volta “Annibale è alle
porte”, come argomenta Maurizio Molinari, direttore di “La Stampa”, in Jihad
(Rizzoli).
Invero il “mondo” - che
sembra rimpicciolito dopo l'11 settembre 2001, con la crisi finanziaria esplosa
nel 2008 e il terrorismo politico-religioso dilagante - apparve nelle sue reali
dimensioni sin dalla Grande Guerra e dalle sue devastanti conseguenze. L'olocausto
armeno riproposto da Alberto Rosselli (ed. Mattioli 1885), già noto
nella sua raccapricciante realtà, fu messo tra parentesi perché subito scomodo,
come rimane l'ecatombe di tedeschi attuata nel 1945-1946 dall'Armata Rossa di
Stalin, sotto lo sguardo indifferente degli anglo-americani, i quali rimasero a
ciglio asciutto pure dinnanzi alla documentazione incontrovertibile di quanto
avveniva nei lager nazisti. A voltar pagina, a puntare verso un'Europa meno
accecata dall'odio mirarono invece uomini armati di fede e di pazienza, come
monsignor Agostino Casaroli, Appassionato tessitore di pace (Libreria
Editrice Vaticana), bene informato sulla tragedia della
“chiesa del silenzio” in quell'“Europa Orientale” che cominciava dal Veneto,
come documenta Luciano Monzali nel poderoso volume Gli italiani di Dalmazia
e le relazioni italo-iugoslave nel Novecento (Marsilio): una tragedia
precorsa dalla lugubre vicenda approfondita da Matteo Forte in Porzus e la
resistenza patriottica (Luni).
Le opere citate sono alcune
della falange di 220 volumi presentati all'edizione 2016 del Premio Acqui
Storia dallo stuolo di Case Editrici grandi, piccole e “di nicchia” (perciò
custodi di gioielli), antiche e recentissime. I numeri dei concorrenti e dei
loro editori sono un dato inoppugnabile. Quando, un decennio addietro, la sua
guida venne affidata a Carlo Sburlati, clinico e saggista poligrafo, alcuni
profeti di sventura ne vaticinarono l'irreversibile declino. Pier Angelo
Taverna, presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria, suo
principale sponsor, attese i fatti. E questi sono ostinati: gli aspiranti
all'inclusione nelle cinquine dei finalisti delle sue tre sezioni (scientifica,
divulgativa e romanzo storico: quest'ultima ideata da Sburlati) sono saliti dai
25-30 delle edizioni d'antan a un centinaio e ora superano appunto le
due centinaia: opere disparate e coraggiose, come l'intrigante saggio di
Luciano Canfora su Tucidide: la menzogna, la colpa, l'esilio, i 500
giorni di Napoleone dall'Elba a Sant'Elena
di Luigi Mascilli Migliorini (entrambi ed. Laterza) e le 1500 pagine di Enrica
Garzilli su L'Esploratore del Duce. Le avventure di Giuseppe Tucci e la
politica italiana in Oriente da Mussolini a Andreotti (Asiatica
Association).
A polemiche settarie hanno
risposto non solo le decisioni finali delle giurie, sempre serene e argomentate, come si addice al più
prestigioso premio storiografico italiano, ma anche i nomi degli storici
inclusi tra i Testimoni del Tempo o destinatari del Premio alla Carriera:
Roberto Vivarelli e Giuseppe Galasso, per stare alle ultime due edizioni. Un cammino,
il loro, calcato da studiosi dal passo cadenzato, come Gianni Marongiu, autore
del formidabile volume su La politica fiscale nell'età
giolittiana (Ed. Olschki), e Domenico Fisichella che, terminata la
trilogia sull'Italia dal “miracolo del Risorgimento” all'età liberale e a
quella tra dittatura e monarchia (l'età della Diarchia, ancora ignota ai più),
torna su Totalitarismo. Un regime del nostro
tempo (ed. Pagine), un'opera che fonde dottrina politica, pensiero
giuridico e storia per liberare dalle confusioni concettuali accumulate dal
secondo dopoguerra, quando (è il caso di dire) si fece di tutta l'erba un
fascio.
L'ampio ventaglio di
candidati al Premio aiuta a rispondere ai suggestivi quesiti di Maurizio
Ridolfi sul colore degli italiani. Sulla fine Settecento, per iniziativa di
Luigi Zamboni (che egli ricorda) e di Giò De Rolandis (che non cita) essi si
dettero la coccarda tricolore, ma (come dichiarò De Rolandis sotto tortura
pontificia), “per non fare la scimmia dei francesi”, sostituirono il blu della
bandiera straniera con il verde. E lì, va detto, cominciarono i guai perché (a
differenza di quanto scrive Ridolfi) il verde non è affatto un colore primario
ma nasce dalla mescolanza del blu (distintivo della monarchia) e del giallo
(proprio del papato). Nella Bologna del Cardinal Legato senza pensarci e certo
senza volerlo erano giù in nuce i Patti Lateranensi dell'11
febbraio 1929? Ridolfi addebita il “caleidoscopio cromatico” degli italiani al
continuo “scivolamento” di un colore dall'uno all'altro partito e/o movimento
o, aggiungiamo, semplicemente nell'“uso” e nell'abuso. Basti constatare che in
tempi andati ci si divideva in bianchi (o azzurri) e rossi, mentre ora, per
esempio, i colori del Partito democratico e di Forza Italia sono assolutamente
identici. Di lì l'“invenzione” di tinte non da corteo ma da processione, non da
comizio ma da merenda fuori porta, per una Patria scolorita e sciapa, malgrado
le calze verdi ora imposte alle donzelle dell'Alitalia, ex compagnia di
bandiera di un Paese che fu. Ora verde di rabbia più che di speranza.
(*)Vicepresidente vicario
(eletto) della Giuria del premio Acqui
Storia, sezione scientifica, Presieduta da Maurilio Guasco, questa è formata da
Marco Barberis, Massimo de Leonardis, Mauro Forno, Mola, Gianni Oliva, Giuseppe
Parlato, Francesco Perfetti e Gennaro Sangiuliano.
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