di Domenico Bonvegna
A cosa può servire raccontare la
vita e le opere di un uomo tutto di un pezzo come il commissario Luigi
Calabresi, martire negli anni di piombo. Ricordo che quando ero adolescente, in
tv e sui giornali del tempo appariva con maglioni dolcevita, le basette lunghe,
lo sguardo fiero e mediterraneo. E poi la sua “500”, le spranghe e le catene, i
poliziotti, i cortei, gli insulti, il linciaggio a mezzo stampa, l’assassinio.
Siamo negli anni del “68”, gli anni dell’ubriacatura ideologica,
della lotta politica che degradava nella lotta armata, nelle stragi. “Le
premesse di una stagione di contestazione e rivolta erano in
incubazione e che il 1968 portò alla luce segnando l’inizio di un periodo che
porterà negli anni successivi anche alla lotta armata con la creazione di
diversi gruppi e movimenti che si muoveranno all’interno della cosiddetta
“sinistra extra-parlamentare”. Scrive Enzo Peserico, uno
studioso milanese prematuramente scomparso, in “Gli anni del desiderio e
del piombo. Sessantotto, Terrorismo e Rivoluzione”, Sugarcoedizioni
(Milano 2008) “La preparazione e l’avvio della lotta al sistema
cominciò con l’occupazione di alcune università: in particolare a Trento,
presso la facoltà di sociologia nacque quella che sarà la “fucina della
rivoluzione” e questo grazie al contributo di studenti di area cattolica,
convinti che la sintesi tra cristianesimo e rivoluzione fosse che il Regno di
Dio doveva corrispondere al regno dell’uguaglianza teorizzato dal marxismo. Tra
questi studenti di formazione cattolica il più importante fu Renato Curcio, uno
dei fondatori delle Brigate Rosse. Questa “meglio gioventù” - o gioventù
bruciata - aprì lo scenario del terrorismo di sinistra in Italia ed è in questo
modo che cominciarono a muoversi gruppi e sigle nel contesto dello stesso
filone marxista-leninista. Comunque le BR costituiranno il “nucleo d’acciaio”
di rivoluzionari che spenderanno la propria vita per il successo della
Rivoluzione in perfetta sintonia con il ‘Che fare?’ di Lenin,
«in cui s’ipotizza [...] un gruppo di rivoluzionari di professione, che
consacrano la loro vita alla rivoluzione e che operano interpretando le istanze
del proletariato affinché esso prenda coscienza”.
In questo clima inacidito si erge
la figura di “un uomo che aveva il senso dello Stato, che credeva al decoro
delle istituzioni e alla dignità del suo ruolo, che aveva la responsabilità di
uomo d’ordine”. Luigi Calabresi, con un’espressione antica, demodè, si
definiva, “servitore dello Stato”, proprio in questo restò fedele
fino alla morte per solo 270mila lire mensili, uno stipendio medio per quei
tempi.
Il commissario Luigi Calabresi
era un fervente religioso, aveva scelto di lavorare nella polizia per
vocazione, non tanto per lo stipendio, poteva fare benissimo altri lavori
magari più remunerativi; nelle difficoltà, spesso ripeteva di essere nelle mani
di Dio. In una discussione registrata del 1964, rispondendo a delle domande,
aveva detto: “Se volessi intascare e magari spendere medaglie come questa
non andrei in polizia, dove si resta poveri. Non andrei coltivando ideali buffi
di onestà e di purezza. Purtroppo sono fatto in un certo modo, appartengo a un
gruppo neanche tanto scarso di giovani che vuole andare controcorrente (…) In
questo mondo neopagano, il cristiano continua a dare scandalo, perché il fine
che persegue, lo scopo che dà alla sua vita non coincide con quello dei più”.
Un libro racconta in maniera
dettagliata la vicenda Calabresi, “Gli anni spezzati. Il Commissario.
Luigi Calabresi”, di Luciano Garibaldi, Edizioni
Ares, Albatross Entertainment S.P.A (2013). Peraltro da questo
testo è tratta la fiction televisiva “Gli anni spezzati. Il
Commissario”, andata in onda su Rai 1 ai primi di gennaio di
quest’anno.
“Luciano Garibaldi –
scrive Marcello Veneziani nella prefazione – fu il primo
giornalista che riuscì a far parlare in un’intervista su “Gente” la vedova di
Luigi Calabresi, Gemma Capra(…)Garibaldi seguì negli anni la vicenda Calabresi
con passione civile e rigore di cronista, ne fece una battaglia di principio e
di verità storica. Anche grazie a testimonianze come la sua, a Calabresi fu
data dal presidente Ciampi, con trentadue anni di ritardo la medaglia d’oro al
valor civile. Un riconoscimento postumo, che si insinuava come una piccola
parentesi nel fiume di parole, interventi, pressioni per la grazia a Sofri e
Bompressi. Nell’immaginario collettivo del Paese, i martiri erano diventati
loro, non Calabresi”.
Veneziani evidenzia il grave
episodio degli 800 intellettuali che hanno firmato un manifesto pubblicato da
L’Espresso per delegittimare Calabresi. In pratica tutto l’establishment
culturale, accademico, editoriale e giornalistico italiano, tra questi Alberto
Moravia, Norberto Bobbio, Umberto Eco, Margherita Hack, nel manifesto-lettera,
Calabresi veniva definito “commissario torturatore” e “responsabile
della morte di Pinelli”. A tutti questi si aggiunse “(…)il Movimento
nazionale giornalisti democratici, sorto nei pensatoi controllati dai partiti comunista
e socialista, fonte inesauribile di autentica disinformazione e di
ricostruzioni arbitrarie dei fatti, basate sulle fantasie più assurde e
indimostrabili, vera sorgente alla quale si abbeveravano giornalisti che
scrivevano sui quotidiani e sui settimanali più diffusi”. Per
Garibaldi gli “Ottocento” sono i veri
mandanti (im)morali, dell’uccisione del commissario, come vengono
definiti in un capitolo del libro. Peraltro “costoro condannarono Calabresi
senza disporre di un benché minimo indizio, dopo che la magistratura lo aveva
prosciolto in un regolare processo, senza assolutamente chiedersi, prima di
firmare, chi veramente fosse l’uomo che accusavano di assassinio, che
indicavano – con l’autorevolezza dei loro nomi – al pubblico ludibrio e al linciaggio
dei fanatici dell’estrema sinistra”. Poi bisogna anche dire che le
istituzioni, come bene evidenzia la fiction televisiva, per certi versi hanno abbandonato al suo
destino il povero commissario. Pertanto si può senz’altro sostenere con
Garibaldi che “Lo Stato disertò. Gli “ottocento” firmarono. E, sulla base
di quelle firme, Lotta Continua uccise”.
Garibaldi racconta con passione,
attento anche ai dettagli e alle sfumature, documentando la vicenda Calabresi.
Ma soprattutto mostra con chiarezza la vera figura di Calabresi, la sua
vocazione, la sua professionalità, “una fedeltà non a una carta, ma a uno
stile, a una patria, a uno Stato. Che li mandava allo sbaraglio e poi si
dimenticava di loro; e ciononostante, i cavalieri come Calabresi partivano alla
carica”. Il libro inizia con una polemica nei confronti delle istituzioni
che non hanno fatto abbastanza per i tanti caduti sotto la violenza politica
negli anni di piombo, poliziotti, carabinieri, guardie carcerarie, che non
hanno ottenuto giustizia. “sono ricordati con memore gratitudine da tutto il
popolo italiano? Le loro famiglie hanno ricevuto sostegno che spettava loro? E
lo stesso Luigi Calabresi, nonostante la generosità del figlio Mario che, con
voce coraggiosa, scrivendo il libro “Spingendo la notte più in là. Storia
della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo”, edito da Mondadori
nel 2007(…) ha davvero ottenuto giustizia?” Difficile affermarlo – scrive
Garibaldi – se si pensa alle scritte ‘Calabresi Assassino’ comparse
sui muri di Torino dopo la nomina di Mario Calabresi a direttore de ‘La
Stampa’”.
Probabilmente per alcuni è un
passato che non vuole passare. Il commissario Calabresi fu assassinato da un
commando di “Lotta Continua”, organizzazione comunista, il 17 maggio
1972 in Via Cherubini, proprio sotto casa a Milano, fu la prima vittima degli
“anni di piombo”. Per questi rivoluzionari il commissario, era l’assassino di Giuseppe
Pinelli, arrestato e interrogato per la strage della bomba presso la Banca
Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano del 12
dicembre 1969. In occasione del trentennale della sua morte, nel corso di una
commemorazione, monsignor Francesco Salerno, segretario del Supremo Tribunale
della segreteria Apostolica, diede lettura di un messaggio fattogli pervenire
dal santo padre Giovanni Paolo II. Nel messaggio Papa Wojtyla definiva
Calabresi “generoso servitore dello Stato e fedele testimone del Vangelo”,
e ricordandone “la costante dedizione al proprio dovere pur fra gravi
difficoltà e incomprensioni”. Il Papa auspicava che il suo esempio potesse
diventare “uno stimolo per tutti ad anteporre sempre all’interesse privato
la causa del bene comune”. In conclusione Wojtyla assicurava per lui “particolari
preghiere e invocando da Dio Padre misericordioso sostegno per la sua famiglia”.
La vita di Calabresi rappresenta
una storia esemplare, tanto che il suo ex confessore e padre spirituale, don
Ennio Innocenti insieme all’organizzazione religiosa “Sacra Fraternitas
Aurigarum Urbis”, hanno avanzato la richiesta di un procedimento canonico
di verifica dell’eroismo delle virtù del commissario Calabresi in
considerazione della sua fede cristiana. Peraltro una proposta che ha trovato
consensi ad alti livelli ecclesiastici. Garibaldi riporta il giudizio del
cardinale Camillo Ruini: “Il suo sacrificio è degno della Chiesa di Roma,
nel cui seno egli è stato educato. La fama dell’eroismo cristiano di
lui, lungi dall’appannarsi in tutti questi anni, si è estesa e si è consolidata
con testimonianze, studi e ripetute argomentazioni di laici, di sacerdoti e di
Vescovi”.
Peraltro, qualche giorno dopo
l’assassinio del commissario, padre Virginio Rotondi, il fondatore del
movimento “Oasi”, al quale il giovane Calabresi aveva aderito, fa
una straordinaria testimonianza: “(…)E’
stato uno dei migliori giovani da me incontrati. Non l’ho mai sentito dire una
parola ostile contro qualcuno; e quando sorprendeva me a dirla, mi guardava con
aria di rimprovero. Nel vivo della polemica condotta contro di lui da una parte
della stampa che lo accusava di aver ucciso l’anarchico Giuseppe Pinelli dopo
la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, gli dissi più volte: ‘Ma
perché non vai, per esempio, alla redazione di qualche giornale cattolico a
farti conoscere personalmente, affinchè qualcuno prenda le tue difese e
proclami l’inattendibilità assoluta delle accuse mosse contro di te?. ‘Non ce
n’è bisogno’ mi rispose: ‘io sono tranquillo. Sono nelle mani di Dio. Faccio
il mio dovere’” E quando don Innocenti chiamandolo al telefono, lo
invitava ad essere prudente, tra l’altro, il commissario girava sempre
disarmato, perché non intendeva rispondere alla violenza con la violenza,
soprattutto quando si trattava di difendere la sua persona, gli disse: “Preferisco
affidarmi solo a Dio”.
Tra le tante testimonianze
interessanti, c’è quella di Achille Serra, che era allora giovane
collaboratore di Calabresi, successivamente diventerà questore di Milano,
prefetto di Roma e deputato in Parlamento. Il Serra ha sempre ammesso di aver
ricevuto gran parte della sua professionalità dal grande insegnamento di Luigi
Calabresi: “Era un uomo colto, allegro, molto religioso, altruista”.
Ancora dirà di lui: “(…)Rimasi affascinato dal suo modo di rapportarsi con i
suoi uomini e con gli interlocutori. Di lui mi colpirono il carisma
particolare, la voce bassa ma risoluta di chi non ha bisogno di urlare per
essere ascoltato (…)Con i manifestanti, poi, Calabresi cercava sempre di
instaurare un dialogo (…) Cercava di evitare sempre, finché possibile, lo
scontro. Mi sembrava un eroe, un modello da prendere come esempio, un uomo di
una umanità e di un coraggio come se ne vedono pochi. Concepiva la professione
con la consapevolezza di doversi confrontare con persone che, per quanto
colpevoli di azioni criminose, avevano comunque sempre una possibilità di
riscatto”. Soprattutto in questi tempi di decadimento dei valori
fondamentali, la figura di Calabresi potrebbe diventare “un punto di
riferimento e un modello di comportamento. La sua è stata una parabola di un
uomo che ha sacrificato la propria vita per difendere la società civile e il
sistema democratico, con coerenza e coraggio”.
Il libro di Garibaldi nelle
Appendice & Documenti oltre alla prima intervista di Gemma Calabresi,
pubblica l’articolo uscito su “La Nazione” che ha scritto Enzo
Tortora, amico di Calabresi, proprio il giorno dopo l’uccisone del
commissario. “Luigi Calabresi era un ragazzo di incredibile bontà, di un
rigore morale, di uno scrupolo e di una umanità che lo allontanavano le mille
miglia dal ruolo di ‘sbirro’ che certuni, per vile calcolo o per comoda
polemica, gli avevano appiccicato addosso(…)Quando una volta gli chiesi, nel
periodo più buio delle accuse, degli attacchi, degli insulti, come faceva a
resistere, senza mai un cedimento di nervi, senza uno scatto, a quell’autentico
linciaggio morale al quale era sottoposto, mi rispose sorridendo: ‘E’
semplice. Credo appunto in Dio. E credo nella mia buona fede. Non ho mai fatto
nulla di cui io possa vergognarmi. E non odio nemmeno i miei nemici. Ho
angoscia per loro, non odio. E’ una parola, ‘odio’, che non conosco”.
Come si può dedurre il
commissario è un santo, un eroe, un soldato cristiano, peraltro con queste
caratteristiche è stato descritto in un altro testo che negli anni scorsi ho
letto e recensito, “Luigi Calabresi. Un profilo per la storia”,
di Giordano Brunettin, pubblicato da Scuola d'Arte
"Beato Angelico"di Milano Sacra Fraternitas Aurigarum Urbis, Milano
- Roma 2008). "Luigi Calabresi ha vissuto in pieno le 'assurdità'
cristiane - scrive monsignor Angelo Comastri nella prefazione - non
si è preoccupato del potere ma del dovere, non si è preoccupato della carriera
ma della fedeltà alla coscienza, non ha cercato onori ma ha cercato di far
onore alla verità e all'onestà. Per questo è stato ucciso; e, dopo l'uccisione,
è stato più volte crocifisso da una campagna di menzogne che, finalmente, ora
si stanno sciogliendo come la nebbia al sole". Calabresi conoscendo
bene l’esortazione di Gesù: "Se qualcuno vuol venire dietro di me,
prenda la sua croce ogni giorno e mi segua"(Lc 9, 23), di fronte alle
alluvioni di ingiurie e minacce, confida solo in Dio.
Qualcuno gli suggerisce il trasferimento in qualche
altra città, ma lui risponde, che l'attacco è rivolto allo Stato non a me,
quindi, "lo Stato non può fuggire. Non voglio che domani a
qualcuno dei miei figli possano dire: tuo padre è fuggito".
Mario Càristo,
paragona la vicenda Calabresi a quella di don Andrea Santoro, il sacerdote
ucciso in Turchia, "entrambi rigorosi e pacifici testimoni di
Cristo in ambienti fortemente ostili e aggressivi, entrambi colpiti alle spalle
dall'odio cui essi contrapponevano la civiltà dell'amore". Sia per don
Santoro che per Calabresi era difficile stare in quegli ambienti, ma bisognava
stare era il Vangelo che l'imponeva.
Il
cardinale Fiorenzo Angelini definisce Calabresi una figura esemplare di
servitore dello Stato, di marito e di padre, di credente convinto e
credibile, e per chi non lo ha conosciuto, egli è un personaggio
che è doveroso scoprire nella sua straordinaria levatura morale e
spirituale.
Il libro di Brunettin, ha un particolare merito per il
cardinale, "presentare il Commissario Calabresi quale modello
ideale anche per le giovani generazioni, che oggi, travolte da un vortice di
informazioni approssimative che si riversano in tempo reale sugli schermi
informatici, sono costrette, loro malgrado, ad ignorare il passato, sia pur
recente, nel quale possono scoprire le radici di valori autentici degni di
essere abbracciati e vissuti fino all'eroismo". E in una stagione
di emergenza educativa come la nostra, mi sembra un
invito da prendere in considerazione.
E un altro
cardinale, Andrea Cordero L. di Montezemolo, dopo averlo indicato come esempio
eroico del compimento del dovere e come testimone del Vangelo, si augura che il
profilo fatto in questo libro, "venga letto da sempre più vaste
cerchie di giovani, specie se essi sono a servizio della Legge e dello Stato, a
dimostrazione dei perfetti fondamenti dell'educazione civile e delle ragioni
indefettibili della speranza cristiana in qualunque situazione
storica". Anche se bisogna obiettare che probabilmente un lavoro
del genere meritava essere pubblicato da case editrici più conosciute e
presenti nel grande mercato dell'editoria.
Qualche anno fa monsignor Giovanni D'Ascenzi
sollecitava di valutare tutti i documenti e verificare se siamo di fronte ad un
credente che ha vissuto la fede e l'amore del prossimo in maniera eroica e
quindi si augurava che l'autorità ecclesiastica avviasse un processo
canonico, perché sia riconosciuta l'eroicità delle virtù del
commissario di Polizia Luigi Calabresi.
Il professore Giuseppe Maria ha scritto che Calabresi
ha "vissuto la vita nella imitazione di Cristo (...)il mondo,
anche oggi, ha bisogno più di santi che di eroi. E Calabresi, uomo del nostro
tempo, ha vissuto come sacrificio la sua vita, che è appunto l'eroismo della
santità".
Pertanto mi sembra doveroso
ripensare la straordinaria figura del commissario Calabresi, per riflettere
sulla sua vita professionale, l'apostolato, la sua spiritualità ignaziana, la
vita matrimoniale, come ha affrontato le insidie del mondo.
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