di P. Louis Boyer
La dottrina dell’atto e della potenza, coi princìpi e le applicazioni che ne derivano, costituisce la caratteristica e il fondamento della metafisica di Aristotele.
I. NOZIONI. – Le nozioni di atto e potenza sorgono dall’analisi fenomenologico-metafisica del movimento, inteso nel suo significato più ampio, come sinonimo di cambiamento o divenire. E’ questo, del cambiamento, un fatto di universale ed immediata evidenza empirica. L’essere che noi osserviamo ci si presenta, in tutti i momenti del suo sviluppo e della sua espansione, legato a un divenire molteplice e incessante per cui non è assolutamente identificabile con l’Essere uno, eterno, immobile, descritto da Parmenide. D’altra parte, ugualmente inconsistente di fronte alla ragione e all’esperienza era la posizione dì Eraclito, che, affermando il primato del movimento, nel puro divenire assorbiva anche l’essere: non è infatti concepibile il cambiamento se non in un soggetto che abbia una permanenza ontologica al di là delle sue successive perfettibilità. Occorre adunque riconoscere, con la positività del divenire, la realtà dell’essere.
Ora il divenire suppone, come suo principio e possibilità intrinseca, la potenza Si prenda l’esempio dell’artefice che scolpisce la statua: perché questo nascere, questo “divenire” della statua sia possibile, occorre anzitutto ci sia nell’artefice un potere reale, un principio dinamico che, messo in esercizio, trarrà all’essere la statua; è questa la potenza attiva. Inoltre anche nel marmo ci dev’essere una possibilità, un potere a divenire statua sotto lo scalpello dell’artista; è questa la potenza passiva. Entrambe, la potenza attiva e la passiva, costituiscono il “terminus a quo” del movimento che per esse si realizza, mentre trapassano all’atto: è in atto l’artefice quando esercita la sua arte, è in atto la statua quando è balzata fuori dalla possibilità, inerte per se stessa, del blocco di marmo. Così l’atto è la realtà o la perfezione, il fine e il termine del cambiamento; la potenza attiva ne è il principio dinamico; la potenza passiva è la capacità di passare all’atto; il movimento o cambiamento è il passaggio dalla potenza all’atto, o, meglio, l’ “atto dell’essere in potenza, in quanto è in potenza”. Atto e potenza sono, come si vede, nozioni prime e elementari che non ammettono definizioni propriamente dette, ma si impongono chiaramente al pensiero dall’analisi del divenire colto nell’esperienza.
Dai megarici in poi si è inclinato spesso a non riconoscere se non l’atto, e a negare l’esistenza della potenza. Ma è chiaro che un architetto, anche quando non sta costruendo, è diverso da chi ignora l’arte di fabbricare, ed è diverso proprio perché egli ha il potere di fabbricare bene; come un violinista non cessa di essere un artista, anche quando ha cessato di suonare. Vi è più: se tutto fosse atto, senza potenza, tutto starebbe fermo, non ci sarebbe più nessun movimento, nessun cambiamento, nessun progresso, nessuna evoluzione. Non sarebbe dunque sopprimere poco, il sopprimere la distinzione della potenza dall’atto (Aristotele, Metaph., IX, 3, 7).
II. PRINCIPI – I princìpi che scaturiscono dalle nozioni di atto e di potenza e che reggono tutto il campo dell’essere sono molteplici; eccone i principali.
1° L’atto e la potenza dividono l’ente: cioè, ogni ente è solo atto o è composto di potenza e di atto Poiché si parla di ente, infatti, si parla di una realtà che è, e che conseguentemente ha almeno la perfezione di essere : è dunque un atto Se ora quel medesimo ente rimane capace di progredire, di cambiare, di muoversi, si trova dunque in potenza al termine di quel progresso, di quel cambiamento o movimento qualsiasi: è dunque composto di atto e di potenza. Se l’atto fosse tutto attualità, sarebbe tutto perfezione, tutte le perfezioni, Dio; Dio solo è atto puro. Ogni altro ente è composto di atto e di potenza. Si può parlare di una potenza pura (così viene descritta la materia prima dagli scolastici), ma essa non è affermata come un ente, bensì come puro principio dell’ente materiale, insieme con l’atto specifico o forma (vedi).
2° La potenza e l’atto sono realmente distinti: infatti, se la potenza in un ente non si distinguesse realmente ma solo concettualmente dall’atto, quell’ente è realmente tutto atto e solo atto, e dunque realmente non ha un principio reale di cambiamento: sì ricadrebbe nell’errore dei megarici.
3° Connesso coi precedenti ed applicato poi in molti casi è il principio che l’atto, nell’ordine in cui è tale, non viene limitato o moltiplicato se non è ricevuto in una potenza reale, dimodoché nell’ordine in cui esso è puro, è infinito ed unico. Eccone la ragione: l’atto non si limita da se stesso, perché nel suo concetto non entra la limitazione Si pensi, ad es., la bellezza, e si supponga che ciò che è pensato in quel concetto venga realizzato separatamente, senza determinarsi in una cosa bella, ma rimanendo la bellezza stessa: è chiaro che la bellezza stessa è una sola, e che non è bella in certo grado, ma contiene in sé la fonte di tutti i gradi di bellezza. Per pensare la bellezza limitata o moltiplicata, occorre metterla in diversi soggetti, ì quali sono tante potenza reali a riceverla, e ricevendola a limitarla secondo la loro capacità.
Questa concezione è sostanzialmente quella che informa i dialoghi di Platone; nel Fedone dove egli dice che il bello è ciò per cui le cose belle sono belle o nel Simposio, dove, trascese le bellezze inferiori, egli parla di una bellezza che sta in sé e per se stessa, eternamente unita con sé sola, mentre le altre cose sono belle per partecipazione di essa; è la concezione implicita nella dottrina dell’atto puro di Aristotele e specialmente nella sua identificazione del primo Essere con l’atto d’intelligenza in sé sussistente (Metaph., 12, 7); è la concezione di s. Agostino quando afferma : “Si potueris sine illis quae participatione boni bona sunt, perspicere ipsum bonum cuius partecipatione bona sunt… perspexeris Deum” (De Trinitate, VIII, c. 3, n. 5), ossia: “Est itaque bonum solum simplex et ob hoc solum. incommutabile, quod est Deus. Ab hoc bono creata sunt omnia bona, sed non simplicia, et ab hoc mutabilia” (De Civitate Dei, XI, c. 10, n. 1); è quella che s. Tommaso così scolpisce : “Nullus actus invenitur finiri nisi per potentiam quae est eius receptiva ” (Compendium Theologiae, c. 18).
I due ultimi princìpi non sono però ammessi da tutti gli scolastici. Molti di essi – col Suarez – pensano che un atto possa esso stesso essere potenza relativamente ad un grado superiore del medesimo atto e che l’atto possa essere limitato senza entrare in composizione con una potenza reale distinta, bastando a tale sua limitazione il carattere di contingenza. Tra gli altri princìpi, citiamo ancora che l’atto è anteriore alla potenza; che l’atto e la potenza sono nello stesso genere; che da due enti in atto non può farsi un ente che sia uno: queste ed altre asserzioni sono richieste dalle stesse nozioni sopra esposte.
III. APPLICAZIONI. – I concetti di atto e di potenza sono utilizzati dagli scolastici in molte posizioni così filosofiche che teologiche. L’uso di essi però è diverso secondo che si ammette o che si rigetta il principio che l’atto non si limita e non si moltiplica se non è ricevuto in una potenza reale. Alla luce di questo principio difatti viene, tra le altre, illustrata la dottrina della creazione, dottrina che la filosofia antica forse ignorò, o tutt’al più appena intravide, e sulla quale gli scolastici fecero, dopo s. Agostino e s. Tommaso la più diretta e la più decisiva applicazione dei princìpi dell’atto e della potenza. Il passaggio dall’uno ai molti, la coesistenza dell’infinito o perfetto col finito, la possibilità di esseri contingenti diventano in qualche modo intelligibili. L’atto di essere è in Dio puro da ogni potenzialità, uno e perfetto, ma può venire comunicato ad esseri molteplici e limitati, secondo i diversi gradi di potenzialità che entreranno nella loro costituzione. E’ concepibile una gradazione ontologica, al vertice della quale sta l’atto puro, trascendente, infinitamente distinto dall’universo di cui è causa immobile; e a Lui subordinati, in scala discendente, a misura che hanno meno di atto e più di potenza, gli altri esseri, dallo spirito puro o angelo ai corpi inanimati. E’ la concezione platonica della partecipazione, ma chiarita e completata, come l’hanno permesso le analisi dei princìpi aristotelici e come l’ha suggerito o confermato la rivelazione cristiana.
Spiegata dalla teoria della potenza e atto è pure un’altra dottrina importante nella filosofia tomista: la distinzione reale tra l’essenza e l’esistenza negli esseri creati. L’esistenza essendo la suprema attualità, se il suo atto non venisse ricevuto in una potenza che lo limiti, sarebbe unico ed infinito; sarebbe lo stesso Essere assoluto e perfetto, Colui che è, Dio. Ogni essere limitato dunque è necessariamente composto dall’atto di essere e dalla potenza e capacità di essere che conviene alla sua natura, cioè è composto di essenza e di esistenza. Parimenti lo stesso principio conduce ad assegnare nel mondo dei corpi come principio d’individuazione quell’elemento dell’essenza che è la materia prima. Essendo i corpi moltiplicabili nella stessa specie, l’atto che dà la determinazione specifica, cioè la forma sostanziale, si trova moltiplicato ed in ciascuno dei molti in cui esiste viene limitato. E’ dunque necessario che esso attui una potenza od un soggetto potenziale, il quale lo limiti e ne permetta la moltiplicazione. Tale soggetto potenziale è nella filosofia aristotelico‑tomista la materia prima, la quale, ricevuta la quantità, si può dividere in molti soggetti potenziali di altrettante forme della medesima specie.
Altra conseguenza importante: la distinzione reale ammessa nella filosofia tomista tra l’anima e le sue facoltà. L’anima è in atto poiché è l’atto del corpo vivente. Se fosse identica alla sua facoltà, anche le facoltà sarebbero in atto. Ma una facoltà in atto sta nell’esercizio del suo agire. Ora l’esperienza dimostra che le nostre facoltà non sono sempre in atto ma che passano dalla potenza all’atto; sono dunque distinte dall’anima, la quale è sempre in atto. L’essere che è la sua facoltà è anche il suo atto, ed è atto puro.
La semplicità di Dio, malgrado l’unione in Lui di tutte le perfezioni, s’illumina alla considerazione delle esigenze dell’atto puro. Ciascuna perfezione deve trovarsi in Dio puramente atto: se non lo fosse, riterrebbe in sé quella potenza passiva che non può trovarsi in Dio, che è l’atto puro. Ma quello che è puramente atto non è altro che l’atto puro. Se dunque ciascuna perfezione s’identifica in Dio con l’atto puro, una perfezione s’identifica realmente con tutte le altre, e non entra nella natura divina, nell’ordine dell’assoluto, nessuna distinzione reale: Dio dunque è semplice.
Nel mistero dell’Incarnazione, molti teologi ritengono che l’assunzione della natura umana da parte della persona dei Verbo si spiega con l’attuazione di questa natura dall’Essere personale del Verbo o almeno che quest’attuazione segue necessariamente all’assunzione; e ciò, sia che l’attuazione introduca una qualunque realtà creata o che risulti soltanto dall’unione con l’atto increato. Questi esempi (altri potrebbero venire elencati) dimostrano di quante conseguenze e applicazioni siano fecondi, in filosofia e teologia, i princìpi circa la potenza e l’atto.
BIBLIOGRAFIA.: Aristotele, Metaph_ IX; s. Tommaso, in h. loc. id., De ente et essentia, cap.5; SuArez, DisPutat. Metaph. disp. 31, C 43; G. Mattiussi, Le XXIV tesi della filos. di s. Tommaso d’A. approvate dalla S. Congregazione degli studi. Roma 1917, Pp. 1-15; P. Descoqs, Essai critique sur l’hylémorphisme, Parigi 1924, pp. 124-70; G. Manser, Das Wesen des Thomismus, Friburgo in Br. 1931, 2. ed. 1935; L. Fuctscher, Akt und Potenz,Innsbruck 1933; I. Gredt, Doctrina thomistica de Potentia et actu vindicatur, in Acta Pont. Acad. Rom. S. Thomae, nuova serie, i (Torino 1939), pp. 33-49; C. Boyer, Valde ruditer argumentantur… ibid., pp. 129-38; A. Rozwadowski, Limitatio actus et Potentiae in doctrina s. Thomae, ibid., 6 (ivi 1946), pp. 87-102.
da: www.radiospada.org
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