Non sono molte le frasi di Caravaggio riportate dai documenti o dai libri, così come non è stata ritrovata nessuna lettera e, a parte qualche firma in calce a qualche raro documento, neppure una nota o un semplice appunto a margine di qualche testo.
È noto inoltre che non sono stati trovati disegni.
Caravaggio non disegnava. Quindi nessun interesse per l’inchiostro e tanto meno per la matita.
Nei suoi quadri le indagini radiografiche non hanno rivelato disegni preparatori. Soltanto qualche leggero segno di riferimento lasciato dalla punta di legno del pennello.
Il pennello sì, ma niente penna e niente matita. Solo pennello.
Evidentemente era quindi il pennello, l’unico mezzo con il quale Caravaggio intendeva comunicare. Le sue opere dovevano essere i soli documenti di sua mano, utili a svelare le sue «parole».
Un percorso però difficile perché si trattava di un linguaggio non facilmente accessibile, e non solo per i suoi contemporanei.
Se a Roma era conosciuto come «primus in Urbe pictor», lo era soltanto per il suo scopritore e mecenate, il cardinale Francesco Bourbon del Monte e la sua cerchia di relazioni: Scipione Borghese, Federico Borromeo, Pietro Aldobrandini, Ottavio Costa, Giovanni Battista e Ciriaco Mattei, Vincenzo Giustiniani, Maffeo Barberini, Alessandro Vittrici, Costanzo Patrizi, Guido Odescalchi, Ferdinando de’ Medici.
Tutti personaggi appartenenti ad un èlite che possedeva, oltre la sensibilità necessaria per apprezzare nelle opere la qualità dei risultati tecnici di un discorso profondamente innovativo, anche gli strumenti culturali per poter riconoscere i significati nascosti dietro l’apparente evidenza delle immagini.
Cioè quelle «parole» che gli meriteranno appunto il titolo di «primus in Urbe pictor», ma che non gli verrà pubblicamente riconosciuto nei grandi quadri a committenza pubblica che infatti sarà costretto a ridipingere o a realizzarne una seconda versione da esporre.
Nella cappella del cardinale Tiberio Cerasi La vocazione di Saulo e nella cappella del cardinale Matteo Contarelli Il martirio di Matteo e San Matteo e l’angelo. La morte della Madonna per Santa Maria la Scala e La Madonna del serpe per la basilica di San Pietro vengono rifiutate. Come La Madonna dei pellegrini, anche altre opere pubbliche vengono drasticamente contestate.
Quindi durante un soggiorno definitivo durato, in modo documentato, quasi un decennio, con eccezione de La Madonna del serpe peraltro respinta, le commissioni pubbliche a Roma si riducono ad un arco di tempo della durata di poco più di due anni. Le sue «parole» non vengono capite. Purtroppo vengono fraintese, equivocate.
Così non succederà però a Napoli e a Malta.
In Sicilia poi sarà addirittura libero di decidere il soggetto, come nel caso documentato dellaResurrezione di Lazzaro o anche del Seppellimento di santa Lucia, che se l’incuria umana non avesse fatto tragicamente appassire anche quest’opera, riducendola nelle attuali condizioni, se ne riconoscerebbe inequivocabilmente uno dei capolavori assoluti.
Incomprensione per Caravaggio che durerà ancora per lungo tempo, infatti i secoli successivi, anteponendogli Guido Reni, lo ridurranno a poco più che «pittore di genere».
Solo negli gli anni Cinquanta del secolo scorso inizierà con Roberto Longhi uno studio più attento delle sue opere e con Maurizio Calvesi anche la lettura di quei significati comprensibili fino allora esclusivamente dal suo mecenate e dall’élite culturale romana.
Ma ancora oggi non tutto è svelato. C’è ancora da capire. E non si dovrebbero più definire «stravaganze del pittore», come è stato fatto in passato, quanto invece non si è ancora riusciti a comprendere.
Opere per cui, solo per cominciare ad intenderle, sono stati necessari più di tre secoli.
Un personaggio quindi che non doveva trovarsi molto a suo agio nell’epoca in cui viveva e dovrebbe finalmente e decisamente uscire dallo stereotipo dell’«artisticamente dotato, ma stravagante, violento e quindi ignorante».
Dalla lettura di quei «documenti» che sono per esempio le opere siciliane si rileva tra l’altro la sua sensibilità e l’attenzione per la storia dell’Isola. Questo interesse si legge nelle tracce lasciate per la lettura di una contestualità volutamente non individuabile in modo palese.
Ma finalmente si sta già cominciando a parlare della cultura di Caravaggio.
Il ritrovamento di tracce di sali di mercurio nei suoi quadri, grazie a Roberta Lapucci, ci svelano un Caravaggio addirittura «protofotografo» e spiegano l’inutilità dei disegni preparatori. Un Caravaggio insomma che aveva ripreso e applicato in pratica gli studi di Leonardo da Vinci.
Ma allora il suo carattere irascibile e impetuoso non sarà stato forse condizionato proprio dal sentirsi incompreso di un artista che era avanti di tre secoli rispetto ai suoi contemporanei?
Le parole di Caravaggio verbalizzate dai documenti giudiziari sono solo la testimonianza di una realtà quasi esclusivamente romana, nella quale si trovava a vivere un giovane spericolato e intraprendente.
La Roma del suo tempo, il fitto intreccio di strade la notte dove i ladri la facevano da padroni. Campo Marzio, il quartiere a sud del porto di Ripetta, tra le chiese di Sant’Agostino e San Luigi dei Francesi, la Minerva e il Corso.
Caravaggio doveva non solo destreggiarsi ma anche farsi rispettare in un contesto che non era frequentato solo da prostitute e da balordi, ma prevalentemente da delinquenti.
Roma della Controriforma pullulava infatti di sfaccendati malviventi, ladri e assassini. E quindi per farsi rispettare in un ambiente violento, oltre a girare armato di spada e pugnale bisognava mettere in mostra forza e carattere. Le offese andavano vendicate in modo energico e qualche volta anche a prezzo della vita.
Spada e pugnale che però Caravaggio, dopo aver ucciso Ranuccio Tomassoni, sarà costretto a portare sempre anche durante la sua fuga a Napoli, Malta e in Sicilia perché essere condannati al «bando capitale», significava che chiunque avrebbe potuto giustiziarlo e portare la sua testa a Roma.
Dai documenti romani si rileva però che i personaggi solitamente frequentati che lo accompagnavano, Prospero Orsi e Costantino Spada, un pittore e un mercante di quadri, erano certamente incensurati ed i suoi due più grandi amici, il lombardo Onorio Longhi e il siciliano Mario Minniti, per quanto della sua stessa tempra, non erano assolutamente gente di malaffare.
L’architetto Onorio Longhi, figlio di Martino apparteneva ad una gloriosa famiglia di architetti di Viggiù da molti anni attivi a Roma e il giovanissimo pittore siracusano Mario Minniti discendeva da una nobile famiglia di Noto.
In questi verbali romani si rileva anche la capacità di Caravaggio di saper convivere con questa realtà difficile, e la lealtà nel rifiutarsi di far nomi per non coinvolgere nessuno, amici o nemici che fossero. E questo anche in occasione della testimonianza resa davanti al Tribunale dell’Inqui-sizione maltese.
Trovarlo continuamente implicato in violente baruffe, alcune volte condannato e più di una volta con tragiche conseguenze per la sua stessa esistenza, non induce a sospettare che le deposizioni rilasciate davanti al giudice, a parte una naturale reticenza, possano essere il risultato di particolari calcolate «strategie».
La morte di Ranuccio Tomassoni che gli procurerà appunto il «bando capitale» oltre l’estenuante ed angosciosa fuga che durerà per il resto della sua vita, e la partecipazione al raid notturno maltese che vanificherà in un attimo il risultato di un anno di impegnativo lavoro con lo scopo di ottenere finalmente la grazia dal papa, sono le prove infatti della sua incontrollabile istintività e della sua totale mancanza di ipocrisia.
Per quanto purtroppo in minor numero, la altre parole di Caravaggio, cioè quelle pronunciate al di fuori dei tribunali e riportate testualmente dai testi coevi o dalla tradizione verbale, ci mostrano invece il personaggio in tutta la sua autentica sensibilità, lo stesso che troviamo nelle «parole» che ci ha lasciate scritte col pennello nelle sue opere.
Ironico nel chiamare “Monsignor insalata” lo spilorcio padrone di casa che gli propinava quotidianamente sempre e solo questo alimento vegetariano; pronto nel cogliere un aspetto originale e poetico della cultura popolare siciliana davanti ad una statua di Antonello Gagini; incuriosito dai fenomeni di fisica nel definire Orecchio di Dionisio la latomia siracusana che da allora porterà sempre questo nome; ammirato davanti a un quadro d’altare, oggi purtroppo perduto, del pittore contemporaneo Filippo Paladini; sconfortato e quasi presago della fine imminente nel rispondere al suo accompagnatore che, per segnarsi in una chiesa di Messina, gli offriva l’acqua benedetta.
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