di Aldo A. Mola
La Grande Guerra cominciò il
28 luglio 1914 come conflitto austro-serbo. In pochi giorni la conflagrazione
divenne europea, con ripercussioni negli imperi coloniali afro-asiatici. Le
potenze in lotta si scontrarono anche a migliaia di chilometri dal Vecchio
Continente (soprattutto in mare, come nella battaglia navale anglo-germanica
alle Falkland, l'8 dicembre), ma la guerra rimase tra europei: l'Intesa
anglo-franco-russa da una parte, gli Imperi centrali germanico e
austro-ungarico dall'altra. Gli Stati Uniti d'America il 4 agosto e la Cina due
giorni dopo si dichiararono neutrali. Il 23 agosto il Giappone aprì, sì, le
ostilità contro la Germania, ma le condusse solo nell'Estremo Oriente. Per un
paio d'anni la guerra rimase ferma in teatri circoscritti e venne condotta con
mezzi modesti, quasi rudimentali. I suoi nuovi protagonisti (la Turchia dal 1°
ottobre 1914, l'Italia dal 24 maggio 1915, la Romania dal 27 agosto, la
Bulgaria dall'11 ottobre...) gettarono nella fornace uomini e armi (fucili,
artiglieria, pochi carri, poche navi) ma non mutarono le dimensioni del
conflitto. Anche l'impiego dei gas asfissianti (Ypres, 22 aprile 1915) accrebbe
l'orrore, senza però determinare la svolta verso l'agognata vittoria campale
definitiva.
I tentativi anglo-francesi di
operazioni strategiche (l'attacco ai Dardanelli, lo sbarco a Salonicco,
l'eliminazione dei tedeschi dall'Africa sud-occidentale...) fallirono o vennero
bilanciati dalle iniziative degli avversari (lo sfondamento degli
austro-bulgari in Serbia nell'ottobre 1915, l'ascesa di Kemal Pascià a
salvatore della patria in Turchia, la travolgente avanzata tedesca in Romania).
In quei primi due anni la Grande Guerra europea causò un sacrificio di uomini e
risorse ingente ma inutile: le battaglie della Marna, di Verdun, della Somme,
dei laghi Masuri, l'avanzata russa in Galizia, quella tedesca in Polonia, le
“spallate” italiane sull'Isonzo, la spedizione punitiva austriaca nel Trentino,
la conquista italiana di Gorizia costarono milioni di morti per pochi
chilometri.
Nel 1917, invece, la guerra
divenne davvero mondiale. Nel dicembre 1916 gli Imperi Centrali avanzarono
proposte di pace. Da poco rieletto presidente degli Stati Uniti con la promessa
che l'America sarebbe rimasta estranea al conflitto, Woodrow Wilson auspicò una
composizione “senza vincitori”. Poi, però, il conflitto precipitò. A fine
gennaio i laburisti inglesi dichiararono che bisognava combattere fino
all'annientamento degli Imperi Centrali (Germania, Austria-Ungheria e loro
alleati), come del resto prevedeva l'Intesa: né armistizi, né paci separate.
Sotto tutela inglese dal 1641, nel febbraio 1917 il Portogallo entrò in guerra,
anche per difendere le sue colonie, insidiate dai tedeschi. I britannici fecero
ingresso in Baghdad, alimentando la rivolta degli arabi contro i turchi
iniziata sin dal maggio 1915.
A metà marzo del 1917 lo zar
di Russia Nicola II venne travolto dalla rivoluzione e abdicò. L'Impero cadde
nelle mani dell'inetto Kerenski, succubo dei franco-inglesi, che gli imposero
di proseguire la guerra. Intuitone il fallimento, il 6 aprile gli USA, già
massima potenza finanziaria e industriale del pianeta, dichiararono guerra
all'Impero di Germania. Sulla loro scia, a metà agosto del 1917 scesero in
campo a fianco dell'Intesa la Cina, la Liberia, il Siam, il Brasile. La
Germania scatenò la guerra sottomarina per impedire i rifornimenti ai suoi
nemici: un “blocco continentale” che fece impazzire i prezzi delle materie
prime, delle risorse alimentari e dei beni di consumo. Le conseguenze furono
drammatiche. I combattenti vissero le pagine peggiori del conflitto. Lo
dimostrano gli ammutinamenti in Francia e le condanne a morte di militari in
Italia (poche centinaia, con una punta nel luglio1917: episodi gravi ma quasi
irrilevanti rispetto a quanto accadde su altri fronti e allo “sciopero militare”
in Russia.
La situazione, tuttavia, non
fu migliore nelle città degli stati coinvolti nel conflitto, anche se situate a
centinaia di chilometri dal fronte. L'Italia patì razionamenti, freddo, fame,
un clima di guerra civile strisciante condotta dal “Fascio di difesa nazionale”
contro i presunti nemici interni: i cattolici, colpevolizzati perché papa
Benedetto XV il 1° agosto definì la guerra una “inutile strage”, i socialisti,
perché il deputato Claudio Treves intimò: “Non un altro inverno in trincea”, e
quanti si riconoscevano nel liberaldemocratico Giovanni Giolitti, da sempre
auspice di una composizione pattizia del conflitto e ora fermamente contrario
alla diplomazia segreta.
In tutte le guerre i
combattenti valutano le forze proprie e quelle dell'avversario, propongono tregue, armistizi e paci durevoli. Quando
divenne mondiale la guerra mutò volto. Divenne totalitaria. Ebbe per obiettivo
l'annientamento del nemico.
L'Italia, che il 25 agosto
1916 aveva dichiarato guerra alla Germania, visse la pagina peggiore con lo
sfondamento del suo fronte da parte degli austro-tedeschi il 24 ottobre 1917.
Dall'Isonzo l'esercito italiano arretrò al Piave. Quindici giorni terribili,
segnati non solo dalle perdite militari (quasi trecentomila prigionieri,
sbandati, armi e munizioni da fuoco e “da bocca” cadute in mano
nemica...), ma anche dalle nefandezze del nemico contro la popolazione civile:
una somma di crudeltà che portò la maggior parte dei suoi “popoli” (non tutti,
va detto in modo chiaro cent'anni dopo) a schierarsi compattamente per la
difesa dell'unico patrimonio irrinunciabile: l'Italia.
Quell'Italia aveva un unico
cardine: Vittorio Emanuele III. I governi passavano (Salandra, Boselli,
Orlando), il re era l'unico interlocutore per gli “alleati”: Francia, Gran
Bretagna e poi gli USA che solo l'8 dicembre 1917, due mesi dopo la vittoriosa
“battaglia d'arresto” sul Piave,
dichiararono guerra all'Impero d'Austria.
Entrata in guerra
malvolentieri e nel timore del peggio, per calcoli miopi di politica interna
più che in una visione di ampio respiro, l'Italia faticò. Con la battaglia di
Vittorio Veneto a fine ottobre 1918 travolse l'esercito austro-ungarico. A
vincere furono le Forze Armate, anzitutto l'Esercito, il popolo italiano
chiamato in massa alle armi, per anni inchiodato in condizioni disperate ma
deciso a battersi con la guida di generali che per visione strategica e
capacità di comando non erano secondi ai più famosi comandanti degli altri
eserciti in lotta. Il comandante supremo
Luigi Cadorna forgiò la macchina militare italiana malgrado il modesto sostegno
dei governi Salandra e Boselli. Luigi Capello ottenne successi. Emanuele
Filiberto, Duca d'Aosta, mostrò polso e meritò fama di guerriero invitto.
Subentrato a Cadorna dopo la ritirata al Piave, il napoletano Armando Diaz ne
continuò l'opera: fare della guerra sul fronte italiano la punta avanzata della
liberazione delle nazioni oppresse, in linea con il ruolo svolto dall'Italia
nella lotta per l'unificazione durante il Risorgimento: un caso unico nel secolo
XIX, grazie alla convergenza ideale e istituzionale tra pensiero di Mazzini,
azione di Garibaldi e rango di Vittorio Emanuele II, che si erse a sintesi del
processo storico. Nella documentata biografia di Armando Diaz (ed. Bastogi), il
generale Luigi Gratton ha pubblicato le lettere nelle quali il comandante
supremo descriveva alla moglie gli obiettivi politici della guerra italiana,
intesa come guerra di liberazione europea.
Nell'armistizio Diaz fece
inserire il diritto dell'Italia ad attraversare in armi l'Austria per attaccare
la Germania da sud, fronte sul quale i tedeschi non erano preparati a contenere
l'offensiva. Sconvolta da ammutinamenti e da scioperi, messa con le spalle al
muro dalla perentoria richiesta di consegnare ai vincitori il kaiser Guglielmo
II (che prudentemente riparò nei Paesi Bassi, come le monarchie baltiche), la
Germania sottoscrisse l'armistizio nella foresta di Compiègne e si avviò alla
pace umiliante di Versailles (28 giugno 1919), che la bollò quale responsabile
della guerra e le impose “riparazioni” dalle conseguenze economiche, civili e
morali devastanti: una pace cartaginese che alimentò l'odio e gettò i semi del
nazionalsocialismo e della seconda guerra mondiale.
Mentre i militari vinsero, il
governo sperperò il sacrificio della nazione con una condotta
politico-diplomatica incoerente, ferma all'arrangement di Londra del 26
aprile 1915, ignorato dal vero vincitore della guerra mondiale, gli USA di
Wilson che dal 18 gennaio 1918 aveva enunciato in 14 punti i capisaldi della
pace ventura: autodeterminazione dei popoli e libertà dei mari, una visione
planetaria lontanissima da quella paleo-imperialistica del ministro degli
Esteri italiano, Sidney Sonnino, in carica dal novembre 1914, ancora convinto
che l'Impero austro-ungarico sarebbe sopravvissuto alla catastrofe e che mirò
al dominio italiano sull'Adriatico in una concezione fatalmente antieuropea: un
obiettivo del tutto superiore alle risorse del Paese, in conflitto con la sua
tradizione liberale e poi frustrato con il Trattato di pace del 10 febbraio
1947 e dal Trattato di Osimo del 1975.
Nella primavera del 1915 il
re aveva subìto l'offensiva di minoranze rumorose (nazionalisti, repubblicani,
socialriformisti filofrancesi, i dannunziani e Benito Mussolini, movimentista prima
e dopo…) che intimavano “guerra o rivoluzione” e aveva optato per l'intervento.
Si allentò in tal modo il filo che aveva saldato la monarchia con i “moderati”,
pilastro portante della storia d'Italia. Ne approfittarono gli estremisti i
quali, per legittimarsi, si servirono anche dell'“Inchiesta su Caporetto” (*),
sconsideratamente avviata sin dal gennaio 1918. Questa alimentò la decennale
polemica contro i militari e causò l'indebolimento del Paese, rassegnato a
ruolo marginale e subalterno nel quadro politico planetario. Perciò un secolo
dopo l'ingresso in guerra, la Vittoria del IV novembre, festa delle Forze
Armate, merita memoria e attenta riflessione.
Aldo A. Mola
(*) Pubblicata nel 1919 e
ormai introvabile, l' Inchiesta è stata riproposta in edizione anastatica
dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito, dal Centro Giolitti di
Dronero-Cavour e dall'Associazione di Studi sul Saluzzese, con il sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Saluzzo.
da: "Il Giornale del Piemonte", 1 Novembre 2015
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