di Luciano Garibaldi
In suo nome gli italiani andarono alle urne nel 1986. Il referendum, voluto dai Radicali, prevedeva la condanna dei giudici che, per incapacità o malafede, rovinano una persona. Esso fu vinto, anzi stravinto, con l’80 per cento dei voti. L’uomo in nome del quale gl’italiani avevano votato in massa era Enzo Tortora. Ma i risultati del referendum furono immediatamente vanificati grazie alla beffa della «legge Vassalli» (l’allora ministro della Giustizia, un socialista), autentica presa in giro degli italiani che avevano detto «sì» al referendum.
Gli italiani volevano, sic et simpliciter, che un giudice responsabile d’aver rovinato la vita d’un innocente per incapacità, disonestà, superficialità, pagasse di tasca propria. Ebbene, Vassalli, facendo finta di non aver capito ciò che voleva il popolo, preparò una legge che prevedeva la condanna esclusivamente di quei magistrati che avessero agito «con dolo o colpa grave»: due cose praticamente impossibili da dimostrare, anche perché un magistrato che agisse con dolo sarebbe un delinquente peggiore di qualsiasi delinquente, persino del peggiore dei mafiosi, mentre, purtroppo, per rovinare una persona, basta un imbecille pieno di sé. Ed è l’imbecille pieno di sé che la gente non tollerava nella funzione di giudice, è l’imbecille pieno di sé che la gente chiedeva a gran voce fosse privato dell’arma terribile della toga. Purtroppo, grazie ai cavilli di quella legge, nessun magistrato, nemmeno il più macroscopicamente imbecille e in malafede, paga oggi nulla per il suo comportamento.
Enzo Tortora morì a causa di alcuni magistrati di questa stoffa, oltreché per colpa della quasi totalità dei giornalisti italiani, schieratasi fin dal primo momento contro colui che era un loro collega. Eppure, chi è stato suo amico ed estimatore, come chi scrive queste note, sa che Enzo non si tirava mai indietro se c’era da battersi per una causa di giustizia. Per esempio, all’epoca del suo arresto, stava per metter mano ad un’indagine giornalistica sul linciaggio morale prima, e sull’assassinio poi, del commissario Luigi Calabresi, massacrato a Milano nel 1972 da fanatici dell’ultrasinistra. La persecuzione giudiziaria di cui cadde vittima lo distolse da questa ricerca, che toccherà poi al sottoscritto, dopo la sua morte, portare a termine.
Tutto ciò aiuta a capire quanto crudele sia stato, per lui, dover soccombere di fronte ad un’operazione di somma ingiustizia, somma proprio perché mascherata da giustizia e attuata da coloro che della giustizia avrebbero dovuto essere i custodi, anzi i sacerdoti: cioè i magistrati.
Tortora fu arrestato il 17 giugno 1983, mentre era all’apice del successo televisivo: la sua trasmissione del venerdì sera su Rai Due, «Portobello», vantava 28 milioni di telespettatori, un’audience mai più raggiunta da nessuno showman nel nostro Paese. Il suo arresto avvenne nel quadro del cosiddetto «maxiprocesso» alla camorra, un «maxiprocesso» nel quale furono tuttavia coinvolte soltanto alcune centinaia di figure di secondo piano, mentre i veri capi della malavita napoletana restavano al sicuro, e francamente non si è mai capito perché. Occorre premettere che Tortora, genovese ma di origini napoletane, detestava la camorra e in genere la malavita, e più volte ne aveva fatto oggetto di duri attacchi televisivi. Il suo coinvolgimento nella grande retata fu pertanto il risultato di un complotto nato nelle carceri ad opera di incalliti delinquenti come il pluriassassino Giovanni Pandico e il killer Pasquale Barra (aveva strangolato il boss Francis Turatello, squarciandogli poi il petto e mangiandogli il cuore), decisi a farla pagare cara a quel rappresentante del perbenismo borghese così severo nei loro confronti, ammesso che avessero agito di loro iniziativa e non imbeccati da qualcuno.
La cosa più incredibile è che le accuse lanciate contro Tortora e raccolte a verbale prima dai carabinieri e poi dalla Procura di Napoli, iniziarono nel marzo 1983, sicché la magistratura ebbe tutto il tempo per verificarle. Ma nessuna indagine bancaria fu fatta sui conti di Enzo, né il suo telefono fu posto sotto controllo, né egli venne mai pedinato. Al colonnello dei carabinieri Roberto Conforti e al procuratore di Napoli Francesco Cedrangolo bastarono quelle accuse basate sul nulla, che chiunque poteva inventare, per decidere di rovinare un galantuomo come Tortora. Il dottor Cedrangolo ricevette da chi scrive un accorato rapporto che lo metteva in guardia contro il terribile errore giudiziario che si stava commettendo: un rapporto che gli feci pervenire attraverso sua nuora, la mia amica e collega, oggi scomparsa, Francamaria Trapani, e al quale il procuratore non si degnò neppure di rispondere.
Dal momento dell’arresto, reso clamoroso dalla triste immagine televisiva di Tortora trascinato via dai carabinieri in manette, mandata in onda ben dieci volte dai telegiornali di quella TV di Stato al successo della quale Enzo aveva pure collaborato in maniera tanto determinante, l’operato degli inquirenti fu mirato, anziché a cercare prove e riscontri alle accuse, a raccogliere le più inverosimili chiamate di correo, inventate da paranoici, mitomani, criminali come Gianni Melluso, calunniatori di professione, ricercatori di occasioni autopubblicitarie come un pittore fallito di cui non ricordo il nome e che, sperando in una intervista con tanto di foto, venne a trovarmi nel mio ufficio di caporedattore al settimanale “Gente”, dal quale lo cacciai fuori a calci.
Bastava che uno di tali individui, dall’interno di un carcere, o dall’anonimato della sua squallida vita quotidiana, si presentasse agli uomini del colonnello Conforti e ai sostituti del dottor Cedrangolo, perché le sue parole venissero prese come oro colato, pur prive del benché minimo straccio di prova, e il personaggio in questione ottenesse immediatamente un trattamento di favore. Ormai quei Pm erano accecati dallo spasmodico sforzo di tenere in piedi la loro inchiesta, che sarebbe miseramente franata qualora si fosse scoperto il marchiano errore compiuto con Tortora. Si arrivò a contestare al famoso presentatore un numero di telefono trovato sull’agendina di un camorrista: senonché quel numero corrispondeva a un certo Enzo Tortòna. Tortòna, e non Tortora. E comunque, sarebbe bastato comporlo sulla tastiera telefonica, per capire che il famoso giornalista non c’entrava nulla. Ma, per non correre il rischio, quei magistrati indegni (come li definirà poi la sentenza d’appello) attesero ben otto mesi prima di decidersi a fare quella telefonata.
Uno scempio simile della giustizia e del diritto non sarebbe potuto avvenire senza la complicità di quasi tutti i giornalisti italiani, colpevolisti fin dall’inizio o per beceraggine, come l’editore e (per vile piaggeria) il direttore del settimanale del quale ero allora capo redattore, e dal quale rassegnai, sdegnato, le dimissioni, o semplicemente perché, in un’epoca in cui trionfava il sovversivismo di sinistra di marca radical-chic, Tortora, vecchio liberale, rigido conservatore di destra, stava antipatico a quei miserabili. I quali, alla notizia della condanna a 10 anni, arrivarono all’onta di brindare a champagne.
Né si può dimenticare la responsabilità morale dei liberali «ufficiali», da Zanone (l’affossatore del PLI: sua la frase suicida «Il PLI è un partito che si colloca a sinistra della DC») fino a Malagodi, suoi compagni di partito (Tortora era iscritto al PLI dall’immediato dopoguerra), che non mossero un dito per difenderlo, lasciandone l’incombenza a Marco Pannella e perdendo così un’occasione storica, non meno che quella, gravissima e inconcepibile, dell’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini, ch’ebbe a dichiarare: «Tortora si è difeso male», forse non dimentico di una trasmissione di Antenna Tre in cui Enzo, assieme a me, gli aveva rinfacciato una sua proverbiale battuta: «Le Brigate rosse sono nere». Miserie ch’ebbero il risultato di far risaltare il grande merito di Francesco Cossiga, il quale, salito al Quirinale nel 1985, convocò Enzo Tortora, nella sua veste formale di presidente del Partito Radicale, indifferente alla sua condizione di detenuto agli arresti domiciliari, trattandolo con un tale calore umano e una tale simpatia da non lasciare dubbi sul messaggio che aveva inteso lanciare a tutta l’opinione pubblica.
Tortora era uscito dal carcere il 17 gennaio 1984, profondamente piegato nello spirito e nel fisico. L’unico a porgergli una mano fu Marco Pannella, che gli offrì una candidatura alle imminenti elezioni del Parlamento europeo. Fu un successo travolgente. Tortora fu eletto con oltre 500.000 preferenze. Caso unico nella storia d’Italia del secondo dopoguerra. Un Pm napoletano, il dottor Diego Marmo, dichiarò: «E’ stato eletto con i voti della camorra», non tenendo conto del fatto che quelle preferenze il neo deputato le aveva ricevute al Nord.
Il processo ebbe inizio il 14 febbraio 1985 e andò avanti sette mesi, in un clima di autentico sopruso giudiziario nei confronti di Tortora. Tutte le eccezioni dei suoi difensori erano sistematicamente respinte. Neppure le tardive ritrattazioni dei pentiti, indotti a smentire ciò che avevano affermato in sede istruttoria perché mai abbastanza soddisfatti del trattamento di favore riservato ai calunniatori, furono prese in considerazione. Tortora «doveva» essere condannato. E fu condannato a 10 anni di reclusione, con una sentenza, emessa il 17 settembre 1985, nella quale Enzo veniva definito «un cinico mercante di morte».
Spogliatosi, come aveva solennemente promesso, dell’immunità parlamentare, con le dimissioni rassegnate a Strasburgo, Tortora fu rinchiuso agli arresti domiciliari. Ebbe finalmente giustizia nel settembre dell’anno seguente, il 1986, con la sentenza della Corte d’Appello di Napoli, che lo proscioglieva da qualsiasi accusa con la formula più ampia, e cioè «per non aver commesso il fatto». Sentenza poi confermata in Cassazione. Nel 1987 tornò in TV con «Portobello», ma ormai non era più il brillante e polemico «anchorman» di un tempo. Un velo di amarezza, un sorriso triste gli segnavano il volto.
Il cancro lo aggredì mentre stava lanciando «Giallo», la sua nuova trasmissione. Morì il 18 maggio 1988, all’età di 60 anni. Volle essere cremato, e volle che, assieme alle sue ceneri, fosse chiusa nell’urna una copia della «Storia della colonna infame» di Alessandro Manzoni. Non soltanto nessuno dei magistrati che lo perseguitarono, ma neppure i suoi calunniatori hanno pagato. Malgrado si tratti di rapinatori o pluriassassini, sono tutti in libertà.
Alcuni anni dopo la sua morte, la sua memoria fu ancora insozzata da una sentenza della magistratura. Gianni Melluso, in una intervista, lo aveva definito «mercante di morte». Ne era seguita una denuncia per calunnia presentata dalla figlia di Tortora. Ebbene, il procedimento fu archiviato il 14 ottobre 1990 dal giudice istruttore di Napoli. Secondo il decreto di archiviazione, «l’assoluzione di Tortora rappresenta soltanto la verità processuale e non anche la verità reale sul fatto storicamente verificatosi».
Richiamandosi a questa sentenza, mai appellata per totale e purtroppo comprensibile sfiducia nell’Ordine giudiziario, un qualsiasi azzeccagarbugli che vesta la toga del giudice è di fatto autorizzato a gettare fango sulla memoria di Enzo Tortora.
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