venerdì 18 dicembre 2015

Giovanni Durando (1915-2000): un magistrato impeccabile

di Cristina Siccardi

Una personalità controcorrente, dal temperamento autorevole e determinato, inflessibile sui principi, subalpino nel suo porgersi e nella sua concretezza di intendimenti e di realizzazioni, uomo molto intelligente ed eclettico, che incarnò il concetto cristiano di famiglia patriarcale. Fu magistrato scomodo, insegnante e padre amato, giornalista politico (dal 1934 al 2000).
Molteplici le sue battaglie civili e di fede, diversi i risultati ottenuti, facendosi anche molti nemici: il suo sigillo era il motto latino «etiamsi omnes, ego non» («anche se tutti, io no», Mt 26, 33). Parliamo di Giovanni Durando (1915-2000). Nato a Torino cento anni fa, l’8 gennaio 1915, Giovanni Lodovico Durando, entra nel 1931 in Azione Cattolica e ne diventa dirigente. Cinque le lauree ottenute. Nel 1938 si laurea in Giurisprudenza all’Università di Torino con una tesi in Scienza delle Finanze discussa con Luigi Einaudi.
L’anno successivo discute ancora con Einaudi una tesi in Scienze Politiche (Storia delle dottrine economiche) e diventa assistente del futuro Presidente della Repubblica. Richiamato alle armi con lo scoppio della seconda Guerra mondiale, partecipa alle operazioni sul Fronte occidentale e quindi in Albania. Pur trovandosi in guerra, vince il concorso in Magistratura. Rientrato in Italia si laurea in Diritto canonico al Pontificio Ateneo Lateranense ed in Economia e Commercio all’Università di Trieste ed infine, nel 1944, prende la laurea in Filosofia all’Università torinese.
L’8 settembre 1943, giudice al Tribunale di Asti, aderì alla Resistenza collaborando con la Divisione monarchica «Asti». Fu membro del C.L.N. della Magistratura piemontese. Alla Liberazione fu nominato Pubblico Ministero presso la Corte d’Assise straordinaria di Torino dove cercò di evitare vendette e condanne politiche, e deplorando gli assassinii della guerra civile da parte di formazioni partigiane comuniste. Dopo il Referendum istituzionale del 2 giugno del 1946 non solo denunciò i brogli elettorali commessi dal PCI, spalleggiati dalla DC, ma sostenne l’irregolarità dello stesso avendo assunto il Governo i poteri del Re prima dei risultati definitivi. Nel 1948 conseguì la Libera docenza in Economia politica, docenza che esercitò presso la Facoltà di Giurisprudenza di Torino fino al 1969.
Fu monarchico come Giovannino Guareschi, il quale lo invitò nel 1954 a collaborare al settimanale anticomunista di satira politica «Candido», dove Durando tenne la rubrica «Dei Delitti e delle Pene». In occasione del celebre, penoso e doloroso processo a Guareschi stesso per la pubblicazione di alcune lettere attribuite a De Gasperi (su denuncia dello stesso Capo del Governo, il quale, in quei documenti del 1944 avrebbe chiesto agli Alleati anglo-americani di bombardare la periferia di Roma allo scopo di demoralizzare i collaborazionisti dei tedeschi), sostenne l’autenticità delle stesse, prendendo le difese del grande scrittore ed umorista anticomunista e cattolico.
E proprio sulle colonne di Candido del 1954 (n. 24) Giovanni Durando espresse un parere sull’ingiusta sentenza di condanna per diffamazione perpetrata ai danni del Direttore: «E quando mi sento spinto a dare un giudizio del giudizio, scopro questa strana cosa: che la sentenza, anziché colpirmi, come uomo e come cittadino, non mi fa male, non mi colpisce, non mi pesa, perché essa è forma senza materia, è priva di quella luce che può e deve accompagnare, nel modo più completo possibile, anche le decisioni umane, che si ricollegano a principi universali ed immutabili. Con questa sensazione ho finalmente capito Guareschi, in quel suo gesto di lasciar le cose così, senza protestare, senza appellare. Questa sentenza non può avergli fatto male, non può averlo colpito, perché non confortata dalla ricerca completa della verità. Ed ecco la coscienza, che s’innalza al di sopra della sentenza e al di sopra dei giudici terreni, per indicare all’uomo che le è soggetto la strada della libertà morale: della libertà dalle brutture d’una società in decadenza, dimentica delle leggi di Dio e della natura e assiepata di uomini assetati di potere, di beni, di invidia.Questo è il significato della sentenza che porta un uomo libero e semplice a San Vittore (San Francesco di Parma, ndr) per cercare nel silenzio d’una cella la vicinanza di Dio, ossia la perfetta giustizia e l’autentica socialità».
Durando fondò il settimanale La Voce della Giustizia, al quale collaborarono studiosi come Gioacchino Volpe, Niccolò Rodolico, Piero Operti; ma nel 1962, per effetto delle sue battaglie giornalistiche sgradite al Governo, fu costretto dal Consiglio Superiore della Magistratura a chiuderlo. La sua adesione all’istituzione monarchica e le sue prese di posizione “fuori dal coro”, contro il conformismo ideologico, espresse anche su diverse testate (Gazzetta del Popolo, Il Conciliatore, Il Borghese…), gli procurarono ostracismi ed invidie, che ebbero come conseguenza denunce e processi disciplinari, dai quali, però, uscì sempre assolto.
Fra i processi ricordiamo: quello per aver accusato gli attentatori di via Rasella di essere stati responsabili della rappresaglia tedesca delle fosse Ardeatine (Cfr. G. Saragat, Contro le provocazioni del processo Kappler i partigiani insorgono con sdegnate proteste in Mondo nuovo, 26 giugno 1948) e per essersi espresso in modo polemico contro le Forze Armate della Liberazione. Altra avventura giudiziaria venne innescata dal rabbino Elio Toaff, il quale lo denunciò per aver sostenuto sul bollettino dell’Unione Monarchica Italiana di Genova, Fedeltà Monarchica, l’accusa di deicidio contro gli ebrei, posizione tenuta dalla Chiesa cattolica fino al XX secolo.
Il magistrato professore e giornalista si schierò contro le derive della Democrazia Cristiana, opponendosi alle campagne legislative prima divorziste e poi abortiste. Assertore della famiglia naturale e cattolica, felicemente sposato con Flavia Bearzatto, dalla quale ebbe otto figli (Eugenio, Maria, Chiara, Vittorio, Germana, Pietro, Antonio, Umberto), sostenne con risolutezza l’enciclica Humanae vitae e, dunque, il valore della castità fra i coniugi perché «l’atto coniugale dev’essere sempre “aperto” alla vita […] A Torino, dove l’Arcivescovo Card. Pellegrino è notoriamente “progressista” (si fa chiamare Padre, anziché Eminenza, come comporta invece il suo titolo), la stampa diocesana può muoversi in direzione critica, anche su questo documento, per la protezione in tal senso da parte del Capo, che è addirittura orientato contro il celibato dei sacerdoti!» (autobiografia in sette volumi, stampata fuori commercio fra il 1993 e il 1994, dal titolo …Io no! Autobiografia di un italiano conservatore, con le vicende della politica dal 1945 al 1994 viste da destra e commentate da giornalisti dell’epoca, vol. VI, pp. 5414-5415).
Dopo la conclusione positiva dei vari processi, venne trasferito dal Tribunale di Asti a quello di Torino. Nel 1974 fu promosso consigliere di Cassazione e quindi Presidente di Sezione. Continuò a presiedere a Torino una Sezione della Commissione Tributaria, infine, andato in pensione, iniziò ad esercitare in qualità di avvocato della Sacra Rota, scontrandosi spesso, per il suo atteggiamento in difesa della tradizione, con varie autorità ecclesiastiche.
Fra le sue molteplici lotte in difesa dei principi, dei valori cristiani e dei riti cattolici (fu Presidente della sezione torinese Una voce per il mantenimento del latino nella liturgia), lumeggia quella della Santa Messa in rito tridentino, un problema che «mi sta molto a cuore e per cui mi batterò non per me stesso, ma per la sua fondamentale importanza nella vita della Chiesa. Invero si deve pregare nel medesimo modo con cui si crede. La Fede e la liturgia sono strettamente collegate, perché la liturgia deve esprimere il culto a Dio nel rispetto e in conformità alla dottrina; e la dottrina deve permeare di sé le forme con cui si rivolgeva Dio nel rendergli il culto dovuto. Questo è il significato del detto: “Lex orandi, Lex credendi; Lex credenti, Lex orandi» (Ivi, vol. VI, p. 5533).
Proprio per essere rimasto legato alla Messa di sempre, Giovanni Durando, vide con occhio benevolo e riconoscente l’opera di Monsignor Marcel Lefebvre. Molto interessante ciò che scrisse all’epoca risalente il 1977, identificando una voce sincera, priva di viltà e di interessi personali, distante dalla conformità alle linee moderniste, mondane e relativiste: «Tornando alla crisi postconciliare della Chiosa, le denunce relative fatte da Mons. Lefebvre non sono isolate. Mons. Arrigo Pintonello, già Arcivescovo castrense, cioè Ordinario Militare per l’Italia, quindi responsabile dell’assistenza spirituale alle Forze Armate […] denuncia pubblicamente in aprile sulla rivista “Seminari e Teologia”, la fiumana inarrestabile, l’infinita serie di errori e di deviazioni” con cui il progressismo ecclesiastico va infettando le strutture della Chiesa. La presa di posizione di Mons. Pintonello viene recepita da altri periodici, come la Rivista tradizionalista di Grottaferrata diretta da don Francesco Putti, SI SI, NO NO e il mensile CRISTIANITA’ dell’Associazione “Alleanza Cattolica”. […] Mons. Pintonello al riguardo identifica “tre nemici dell’abnorme situazione generale religiosa: una concezione falsa e mistificata della libertà, del dialogo e dell’ecumenismo”. Ed attacca giustamente questi errori “con speciale riferimento all’odierna formazione seminaristica”. È noto infatti in quale stato sono ridotti i seminari cattolici (laddove non sono ancora stati aboliti!) pressoché in tutto il mondo. Con l’eccezione forse unica dell’affollato Seminario tradizionale di ECONE diretto da Mons. Lefebvre, i Seminari cattolici sono spopolati e talora deserti, talora strasformati in scuole di eresia, quando non anche in luoghi di addestramento alla sovversione; senza dire dei casi in cui sono stati affittati a terzi o addirittura venduti (è il caso del Seminario teologico di Rivoli alle porte di Torino, che tanto era costato in ogni senso al compianto Card. Fossati, che lo fece costruire nell’anteguerra). Come sarà dunque la Chiesa di domani, oggi già disastrata, quando sarà diretta da un clero uscito dagli odierni Seminari, non solo scarsi, ma tanto infettati?».
L’autore, a questo punto, afferma che, secondo Monsignor Pintonello, la morale cattolica si è trasformata in molti casi in quella che il teologo Padre Cornelio Fabro, in quel tempo collaboratore de «L’Osservatore Romano», chiamava «pornoteologia», ossia «l’esaltazione cioè del libero amore, del libero aborto, della libera droga, della libera omosessualità, senza che mai l’Autorità ecclesiastica intervenga e condanni» e la traduzione pastorale di questa deviata concezione della libertà non è il giudizio secondo il diritto naturale e il diritto divino (coincidenti), ma il dialogo soggettivo umano, il quale diventa «pretestuoso espediente di ogni forma di contestazione, perdita della propria identità e specificità cristiano-cattolica, paurosa e progressiva dimissione confessionale, relativizzazione della verità e del suo possesso» (Ivi, vol. VII, p. 5941).
La moderna pastorale si è, pertanto, rivolta altrove, in uno stato di remissiva sudditanza, al fine di ottenere indicazioni di presunta verità nascosta nelle pieghe del mondo, in altre religioni, nella libertà confusa delle coscienze soggettive: il dialogo con chiunque, non inteso come presentazione all’altro delle proprie idee, ma come assorbimento costante e acritico delle idee altrui, ha fatto abbandonare, passo dopo passo, la fede e le sue ragioni.
Giovanni Durando, che non perse mai tempo nella sua vita, ha lasciato migliaia di pagine autobiografiche, intersecate da migliaia di pagine di articoli di giornale, una vera miniera per fare memoria storica attraverso documenti risalenti agli anni della secolarizzazione della nostra cristianità, siano essi di stampa laica o di stampa cattolica; ma anche attraverso i ricordi di chi ha compiuto e ha sostenuto delle battaglie non per essere egli vincitore, ma per porsi al servizio di Cristo Re, già Vincitore sulla Croce.

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