di Fabio Trevisan
Chesterton è stato spesso accusato di essere uno scrittore “divertente”. A questi detrattori infelici egli aveva risposto nel saggio“Eretici” del 1905: “Il contrario di “divertente” non è serio, ma “non divertente”! Egli cercava di mostrare come alla presunta “serietà” potesse accompagnarsi la gioia dell’essere cristiani: ilarità e serietà non si contrapponevano ma, un po’ paradossalmente, cooperavano al fine di annientare la superbia umana. L’uomo, in quanto peccatore, non poteva prendersi eccessivamente sul serio; non poteva, come nell’epoca moderna, credere troppo in se stesso.
Nel settimo capitolo di Eretici, “Omar e il sacro vino”, egli prendeva le distanze dalla filosofia del matematico e poeta persiano del XII secolo, Omar Khayam, che nelle Rubayat (le quartine poetiche) aveva apparentemente esaltato la potenza del vino: “Le libagioni di vino di Omar sono riprovevoli, non in quanto libagioni di vino ma in quanto libagioni terapeutiche”. Chesterton aggiungeva: “Sono le libagioni di un uomo che beve perché non è felice”. Qual era il rimprovero del grande scrittore londinese ? Perché era ritenuto così importante da dedicarci un intero capitolo, tralasciando ora il riferimento palese al romanzo L’osteria volante ?
Anche ai giorni nostri si sente sovente dire: “Si beve per dimenticare”. Ecco, per Chesterton era l’esatto contrario: il cristiano beveva per ricordare e per affermare la dignità dell’uomo. Ciò che Omar non poteva concepire era la sacralità del vino. Il mondo musulmano, che annienta l’uomo, distrugge anche il vino: “Il vino di Omar esclude l’universo, non lo rivela…Il più alto cristianesimo dissente con questo scetticismo, non certo perché nega l’esistenza di Dio, ma perché nega l’esistenza dell’uomo”. Il vino, sin dalla Sacra Scrittura, era stato considerato un alleato dell’uomo, però dell’uomo che aveva un cuore e che non disprezzava la regalità divina e l’umanità. C’era un’eterna gaiezza nella natura delle cose (create da Dio) che non doveva essere disprezzata: “Un uomo non può rallegrarsi di nulla, se non della natura delle cose; un uomo non può godere di nulla, se non della religione”.
Agli improvvidi fautori del tavolo del dialogo con chicchessia andrebbe ricordato che se fosse servito a quel tavolo il sacro vino (In vino veritas dicevano i Romani), tutte le questioni sollevate da Chesterton si sarebbero potuto rivelare ancora tutt’altro che superficiali. Chesterton rammentava a Omar ed agli scettici del carpe diem l’altezza del cattolicesimo: “Sull’eccelso altare del cristianesimo si leva un’altra figura, nella cui mano è un’altra coppa di vino: “Bevete”dice “perché l’intero mondo è rosso come questo vino, per il vermiglio dell’amore e della collera divina. Bevete, perché le trombe chiamano alla battaglia e questo è il bicchiere della staffa”.
La filosofia del vino di Omar era l’esatto opposto di quella cristiana, come affermava Chesterton: “Omar si dà al piacere perché la vita non è gioiosa; gozzoviglia perché non è lieto…beve perché non c’è nulla degno di fiducia, nulla degno di lotta”. Il calice di vino alzato da Omar contraddiceva palesemente il calice di vino alzato dal sacerdote cattolico.
Non era più lo stesso vino: stordente e inebriante come una trottola nella religione di Omar, divenuto invece sangue sacro di Cristo versato per tutti noi sulla Croce della redenzione: “Bevete, per questo mio sangue del nuovo testamento che è sparso per voi. Bevete, perché io so donde venite e perché. Bevete, perché io so quando ve ne andrete e dove”.
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