mercoledì 21 ottobre 2015

Onora il Padre

di Alfonso Giordano

Una recente allocuzione di un noto uomo politico mi ha colpito per l’insistenza affettuosa con la quale ha rievocato la figura paterna, rammentando incontri, episodi e circostanze che avevano contraddistinto il suo rapporto filiale col padre in particolari momenti della loro esistenza. Un incipit certamente inconsueto da parte di chi faccia parte della folta schiera di coloro che aspirano a reggere le sorti di questa bella, ma sventurata Italia: il che forse indurrebbe a riconoscergli il merito di un’estrazione differente da quella di tanti altri suoi colleghi, sempre che di merito si tratti.
   Tuttavia, ciò che più mi ha interessato e che emergeva nettamente dalle sue parole, era il profondo rispetto manifestato nei confronti del proprio genitore, che andava ben oltre il naturale affetto, desumibile più che dalle espressioni verbali, dal tono della voce e perfino dallo sguardo perduto nelle lontananze di un passato che egli riviveva con patente nostalgia. Il ricordo, in tal guisa, costituiva, di per sé, un modo di onorare e ringraziare per ciò che aveva appreso e ricevuto, il proprio padre, l’espressione di un sentimento profondamente radicato nel suo animo, che trovava il suo manifestarsi nella rappresentazione di un passato riproducibile soltanto attraverso la memoria.   
    E a questo punto mi fu consentaneo pensare alla mutata dizione dell’art. 315 c.c. la cui intitolazione concerne i «doveri del figlio verso i genitori» che, nella versione originaria, ricalcava la dizione del comandamento cristiano «onora il padre e la madre» e che nella riforma del 1975 si è, per così dire, smagrito attribuendo al figlio soltanto il dovere del «rispetto» verso i genitori. E’ vero che, a tutta prima, poteva pur sembrare che la modifica non fosse assai lontana dalla versione precedente; sennonché, a ben riflettere e, a ben guardare, essa denunciava un diverso modo di pensare, e denunciava d’esser addirittura frutto di un’impronta culturale diversa.
    E’ di comune cognizione, anche senza esser giuristi, che la norma considerata appartiene a quel genere di comandi che, non prevedendo una sanzione, venivano definiti come norme imperfette. In realtà queste ultime forse non sono neppure norme giuridiche, ma soltanto esortazioni di carattere morale e sociale, precetti che stabiliscono un principio che viene lasciato, quanto alla sua effettiva efficacia, interamente alla discrezione di colui al quale esso venga indirizzato. E allora, qual era la necessità dell’intervento legislativo se non quella di far comprendere che i «doveri» del figlio nei confronti dei genitori dovevano esser considerati in modo differente dal passato, probabilmente considerato come più «progressista»?
    In ogni caso, sembrerebbe che il novello legislatore abbia voluto prender in considerazione le opinioni di coloro che, dissentendo dall’opinione che nei secoli precedenti era stata comune, ritengono non esservi motivo di sacralizzare le persone che ci hanno messo al mondo, stante il fatto che talvolta almeno uno di essi si è rivelato indegno del peculiare ossequio che tanto il comandamento cristiano quanto la norma civilistica modificata gli riconoscevano. Ma, metterebbe conto dì osservare in senso contrario, che le norme legislative sono destinate a disciplinare e, quindi a prendere in considerazione, la fattispecie generale del plerunque accidit e non quella originata da singole eccezioni.  Tanto più che – come già rilevato – il comando in esame è destinato a esser confinato nell’àmbito esiguo del caso sporadico.
    Per contro, quasi ogni giorno c’è dato di apprendere (anche se ciò non è destinato a far notizia) di una moltitudine di genitori che si sacrificano nei modi più diversi per i loro figli, ponendo quale supremo scopo della loro vita, il benessere della prole. E l’intervento generalizzato degli avi, essenziale – come si è dovuto spesso constatare – per sorreggere in questi tempi di crisi, una traballante impalcatura familiare, si pone sulla stessa linea e corrobora decisamente le nostre osservazioni. Certo, la riduzione della società naturale fondata sul matrimonio prevista dalla nostra Costituzione (art. 29) a un’espressione soltanto nucleare (vale a dire composta soltanto dai genitori e dai figli) a mio modo di vedere deve aver influito sull’indubbio decadimento della famiglia intesa come istituzione. Si convenga o no su tale osservazione, deve ritenersi per certo che la crisi della compagine familiare  è innegabile e che essa non è ricollegabile con la  riforma del diritto familiare che dopo lungaggini, tentennamenti e ripensamenti, fu portata a termine nel maggio de 1975. Tutto ciò ha spinto a proclamare addirittura la «morte» della famiglia con la stessa drammaticità con cui Nietzsche proclamò la morte di  Dio. Infatti, secondo codesta opinione l’assunzione da parte dello Stato delle principali funzioni che la famiglia storicamente svolgeva sarebbe venuta meno la stessa ragione della sua esistenza: donde la crisi che l’attanaglia. E’ chiaro che chi ragiona in codesti termini si limita a considerare solo gli aspetti funzionali ed economici dell’istituto familiare, accedendo a quella concezione che, influenzata dalla società del benessere, poggia soprattutto sull’aspetto edonistico, misconoscendo o addirittura ignorando, quanto in essa via per contro,di nobile e spirituale. Riprendendo, quindi, un discorso implicitamente avviato in precedenza, sarà forse il caso di ritrovare ulteriori cause al decadimento e alla crisi della famiglia al modo di interpretare la nostra stessa esistenza di uomini e il modus vivendi nella società che è ormai considerata un’espressione edonistica che privilegia il piacere, predica la filosofia del carpe diem, che rifugge dal sacrificio e celebra i fasti del materialismo. Quanto lontana questa concezione da quella vigente nell’antica Roma, la cui grandezza fu in gran parte dovuta alla ferrea organizzazione familiare! Quest’ultima non era concepita soltanto come un naturale rapporto di convivenza e un intreccio di obblighi reciproci, ma costituiva anche il più forte e saldo nucleo della religione romana. Gli storici hanno messo in luce quanto l’esistenza di questo elemento nella generale impalcatura dello Stato romano abbia favorito l’incredibile ascesa del popolo di Roma che ha asservito buona parte del mondo, lasciando tracce indelebili della propria grandezza. Ma la caratteristica peculiare della concezione familiare era costituito dalla sacralità del culto domestico che comprendeva non soltanto il capostipite ma riguardava i «domestici lari» come li chiamò Ugo Foscolo nei Sepolcri, cioè la venerazione dei componenti defunti della famiglia.      
     E a ben guardare, è riferibile, anche se alla lontana, a tale rituale religioso la credenza tuttora vigente nella tradizione siciliana che nella notte sul 2 novembre i parenti defunti tornino a visitare quelli ancóra viventi portando regali ai bambini che siano stati ben educati e obbedienti fra i quali i dolci chiamati della martorana.  Di certo, vivo è ancóra nella nostra isola il culto dei morti com’è testimoniato nel giorno consacrato al ricordo dei parenti scomparsi dal notevole afflusso dei siciliani nei cimiteri.
      E ciò credo avvalori l’interpretazione data in un libro edito nel dopoguerra, dal titolo L’isola appassionata, da uno scrittore cristiano, Bonaventura Tecchi, che aveva trascorso il periodo bellico nella seconda guerra mondiale proprio in terra di Sicilia nelle fila della censura di Stato, alla celebre frase di Goethe nell’Italienische Reise secondo cui «la Sicilia è la chiave per intendere l’Italia» in quanto culla degli affetti familiari, coacervo appassionato dei legami imposti dal sangue, dall’identico ceppo dell’albero della vita. E scorre certamente nelle nostre vene e riscalda i nostri cuori il grande, inesauribile affetto che ci lega a coloro che ci hanno messo al mondo. Sicché, sull’onda emotiva cagionata da tali presupposti, continueremo a onorare i nostri genitori, a dispetto di qualunque norma che non lo preveda.


                     Alfonso Giordano 

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