di Alfonso Giordano
Una recente allocuzione di un noto uomo politico mi ha
colpito per l’insistenza affettuosa con la quale ha rievocato la figura
paterna, rammentando incontri, episodi e circostanze che avevano
contraddistinto il suo rapporto filiale col padre in particolari momenti della
loro esistenza. Un incipit certamente
inconsueto da parte di chi faccia parte della folta schiera di coloro che
aspirano a reggere le sorti di questa bella, ma sventurata Italia: il che forse
indurrebbe a riconoscergli il merito di un’estrazione differente da quella di
tanti altri suoi colleghi, sempre che di merito si tratti.
Tuttavia, ciò che più mi ha interessato e
che emergeva nettamente dalle sue parole, era il profondo rispetto manifestato nei
confronti del proprio genitore, che andava ben oltre il naturale affetto, desumibile
più che dalle espressioni verbali, dal tono della voce e perfino dallo sguardo
perduto nelle lontananze di un passato che egli riviveva con patente nostalgia.
Il ricordo, in tal guisa, costituiva, di per sé, un modo di onorare e
ringraziare per ciò che aveva appreso e ricevuto, il proprio padre,
l’espressione di un sentimento profondamente radicato nel suo animo, che
trovava il suo manifestarsi nella rappresentazione di un passato riproducibile
soltanto attraverso la memoria.
E a questo punto mi fu consentaneo pensare alla
mutata dizione dell’art. 315 c.c. la cui intitolazione concerne i «doveri del figlio verso i genitori» che,
nella versione originaria, ricalcava la dizione del comandamento cristiano «onora il padre e la madre» e che nella
riforma del 1975 si è, per così dire, smagrito attribuendo al figlio soltanto
il dovere del «rispetto» verso i
genitori. E’ vero che, a tutta prima, poteva pur sembrare che la modifica non
fosse assai lontana dalla versione precedente; sennonché, a ben riflettere e, a
ben guardare, essa denunciava un diverso modo di pensare, e denunciava d’esser
addirittura frutto di un’impronta culturale diversa.
E’ di comune cognizione, anche senza esser giuristi,
che la norma considerata appartiene a quel genere di comandi che, non
prevedendo una sanzione, venivano definiti come norme imperfette. In realtà
queste ultime forse non sono neppure norme giuridiche, ma soltanto esortazioni
di carattere morale e sociale, precetti che stabiliscono un principio che viene
lasciato, quanto alla sua effettiva efficacia, interamente alla discrezione di
colui al quale esso venga indirizzato. E allora, qual era la necessità
dell’intervento legislativo se non quella di far comprendere che i «doveri» del
figlio nei confronti dei genitori dovevano esser considerati in modo differente
dal passato, probabilmente considerato come più «progressista»?
In ogni caso, sembrerebbe che il novello
legislatore abbia voluto prender in considerazione le opinioni di coloro che,
dissentendo dall’opinione che nei secoli precedenti era stata comune, ritengono
non esservi motivo di sacralizzare le persone che ci hanno messo al mondo, stante
il fatto che talvolta almeno uno di essi si è rivelato indegno del peculiare
ossequio che tanto il comandamento cristiano quanto la norma civilistica
modificata gli riconoscevano. Ma, metterebbe conto dì osservare in senso
contrario, che le norme legislative sono destinate a disciplinare e, quindi a
prendere in considerazione, la fattispecie generale del plerunque accidit e non quella originata da singole eccezioni. Tanto
più che – come già rilevato – il comando in esame è destinato a esser confinato
nell’àmbito esiguo del caso sporadico.
Per
contro, quasi ogni giorno c’è dato di apprendere (anche se ciò non è destinato
a far notizia) di una moltitudine di genitori che si sacrificano nei modi più
diversi per i loro figli, ponendo quale supremo scopo della loro vita, il
benessere della prole. E l’intervento generalizzato degli avi, essenziale –
come si è dovuto spesso constatare – per sorreggere in questi tempi di crisi,
una traballante impalcatura familiare, si pone sulla stessa linea e corrobora decisamente
le nostre osservazioni. Certo, la riduzione della società naturale fondata sul
matrimonio prevista dalla nostra Costituzione (art. 29) a un’espressione
soltanto nucleare (vale a dire composta soltanto dai genitori e dai figli) a
mio modo di vedere deve aver influito sull’indubbio decadimento della famiglia
intesa come istituzione. Si convenga o no su tale osservazione, deve ritenersi
per certo che la crisi della compagine familiare è innegabile e che essa non è ricollegabile
con la riforma del diritto familiare che
dopo lungaggini, tentennamenti e ripensamenti, fu portata a termine nel maggio
de 1975. Tutto ciò ha spinto a proclamare addirittura la «morte» della famiglia
con la stessa drammaticità con cui Nietzsche proclamò la morte di Dio. Infatti, secondo codesta opinione
l’assunzione da parte dello Stato delle principali funzioni che la famiglia
storicamente svolgeva sarebbe venuta meno la stessa ragione della sua
esistenza: donde la crisi che l’attanaglia. E’ chiaro che chi ragiona in
codesti termini si limita a considerare solo gli aspetti funzionali ed
economici dell’istituto familiare, accedendo a quella concezione che,
influenzata dalla società del benessere, poggia soprattutto sull’aspetto
edonistico, misconoscendo o addirittura ignorando, quanto in essa via per
contro,di nobile e spirituale. Riprendendo, quindi, un discorso implicitamente
avviato in precedenza, sarà forse il caso di ritrovare ulteriori cause al
decadimento e alla crisi della famiglia al modo di interpretare la nostra
stessa esistenza di uomini e il modus
vivendi nella società che è ormai considerata un’espressione edonistica che
privilegia il piacere, predica la filosofia del carpe diem, che rifugge dal sacrificio e celebra i fasti del
materialismo. Quanto lontana questa concezione da quella vigente nell’antica
Roma, la cui grandezza fu in gran parte dovuta alla ferrea organizzazione
familiare! Quest’ultima non era concepita soltanto come un naturale rapporto di
convivenza e un intreccio di obblighi reciproci, ma costituiva anche il più
forte e saldo nucleo della religione romana. Gli storici hanno messo in luce
quanto l’esistenza di questo elemento nella generale impalcatura dello Stato
romano abbia favorito l’incredibile ascesa del popolo di Roma che ha asservito
buona parte del mondo, lasciando tracce indelebili della propria grandezza. Ma
la caratteristica peculiare della concezione familiare era costituito dalla
sacralità del culto domestico che comprendeva non soltanto il capostipite ma
riguardava i «domestici lari» come li chiamò Ugo Foscolo nei Sepolcri, cioè la
venerazione dei componenti defunti della famiglia.
E a ben guardare, è riferibile, anche se
alla lontana, a tale rituale religioso la credenza tuttora vigente nella
tradizione siciliana che nella notte sul 2 novembre i parenti defunti tornino a
visitare quelli ancóra viventi portando regali ai bambini che siano stati ben educati
e obbedienti fra i quali i dolci chiamati della martorana. Di certo, vivo è
ancóra nella nostra isola il culto dei morti com’è testimoniato nel giorno
consacrato al ricordo dei parenti scomparsi dal notevole afflusso dei siciliani
nei cimiteri.
E ciò credo avvalori l’interpretazione
data in un libro edito nel dopoguerra, dal titolo L’isola appassionata, da uno scrittore cristiano, Bonaventura
Tecchi, che aveva trascorso il periodo bellico nella seconda guerra mondiale
proprio in terra di Sicilia nelle fila della censura di Stato, alla celebre
frase di Goethe nell’Italienische Reise secondo
cui «la Sicilia è la chiave per intendere l’Italia» in quanto culla degli
affetti familiari, coacervo appassionato dei legami imposti dal sangue,
dall’identico ceppo dell’albero della vita. E scorre certamente nelle nostre
vene e riscalda i nostri cuori il grande, inesauribile affetto che ci lega a coloro
che ci hanno messo al mondo. Sicché, sull’onda emotiva cagionata da tali
presupposti, continueremo a onorare i nostri genitori, a dispetto di qualunque
norma che non lo preveda.
Alfonso Giordano
Nessun commento:
Posta un commento