di Paolo Deotto
Sul Mattino di Padova di ieri, 8 ottobre, Silvia Quaranta espone le opinioni di Lerida Cisotto (presentata come una “autorità” nel mondo della scuola) in merito alla scuola parentale.
L’incipit è lapidario e contiene già tutto il programma: “Quando si decide di creare un gruppo ‘protetto’, il problema più significativo sta nella mancanza di un confronto”. Per ora la scuola parentale non viene tacciata di illegalità, visto che, come riconosce la Cisotto, la Costituzione riconosce che i genitori hanno “piena facoltà” di decidere sull’educazione da impartire ai figli. Grazie. Ma, si sa, la libertà è una cosa così importante che non la si può lasciare all’improvvisazione di famiglie che magari non dispongono della più profonda cultura pedagogica. Ergo, è opportuno riconoscere la libertà di educazione, ma subito dopo prescrivere come debba essere esercitata questa libertà.
L’iniziativa della scuola parentale pone quindi dei problemi di “opportunità”. È opportuno che i figli vengano educati in un “gruppo protetto”? No, ci spiega la Cisotto, perché – ipse dixit – “la crescita passa attraverso le scelte”.
Prima domanda (non da nulla) che viene spontanea: visto che per operare delle “scelte” bisogna pur disporre di un criterio di giudizio, chi fornisce tale criterio?
Se partiamo dal presupposto della inopportunità della scelta della scuola parentale, ossia di una scuola che si propone proprio di impartire agli alunni un’educazione, ossia si trasmettere loro dei valori, come potranno i giovani operare delle “scelte”? Solo in base all’istintivo criterio del “mi piace” oppure “non mi piace”?
La situazione si ingarbuglia viepiù quando si afferma che il confronto è un “dialogo con il diverso” (notare l’uso di due parole magiche) nel quale il bambino impara a “consolidare la propria identità e a riconoscere l’alterità”. Ne deriva inevitabilmente un’altra domanda: quale “identità” può consolidare il bambino al quale di fatto non è stata formata alcuna identità, visto che la scelta educativa è giudicata inopportuna?
Ma la signora Lerida Cisotto non è certo una sprovveduta, queste cose le sa benissimo. Tant’è che il “luogo” per eccellenza dell’educazione è individuato nella scuola, nella quale si dà per scontato che si trattino “con la dovuta delicatezza” alcuni “temi e aspetti”. Non si prende nemmeno in considerazione che certi “temi e aspetti”, proprio per la loro delicatezza, siano di esclusiva competenza della famiglia, perché da essi dipende la crescita morale e intellettuale del giovane. Sì, la famiglia è ammessa a partecipare “negoziando” (testuale) attività, progetti e percorsi didattici. Ma se si accetta che l’educazione possa essere il risultato di un negoziato, ecco che sorgono altri problemi:
- Come si può conciliare un modello educativo, quale che sia, con il risultato di una “negoziazione”? E’ un modello educativo che parte già zoppo, perché una negoziazione, per sua natura, comporta rinunce, in tutto o in parte, alle proprie pretese e/o accettazione, in tutto o in parte, delle pretese altrui.
- Se si afferma che tra scuola e famiglia deve avvenire una negoziazione, si dà per certo che la scuola sia comunque portatrice di una proposta educativa. Ma di quale tipo? Nella pratica, abbiamo ormai fin troppi esempi di insegnamenti inaccettabili già impartiti fin dalla scuola dell’infanzia, e che ora diverranno normali con la legge sulla “buona scuola”.
E finiamo inevitabilmente allo Stato onnipotente che comunque ha già stabilito a priori alcuni criteri educativi. Cosa potranno quindi “negoziare” le famiglie, resta un mistero, mentre non è per nulla misterioso l’intento “educativo” dello Stato, portatore della cultura del “confronto”, ma che già ha stabilito i confini di questo confronto, visto che comunque alcune tematiche, quelle che scaturiscono dalle parole magiche “diverso”, “genere”, “alterità”, eccetera, sono già definite ex lege.
Nulla nasce dal caso. Le famiglie che scelgono di costituire una scuola parentale, lo fanno perchè hanno chiaro il rischio a cui vanno incontro i loro figli, con un’educazione di regime che comunque li indottrina con disvalori. Sono famiglie che comunque non accettano il ruolo dello Stato – educatore, sia perché non è questo il ruolo dello Stato, sia perché si è già ben visto a cosa educa questo Stato.
Tutti i regimi hanno sempre avuto molto a cuore l’educazione della gioventù; il regime in cui viviamo non fa eccezione, salvo condire, per ragioni di marketing, l’aspirazione totalitaria al dominio completo sull’individuo con belle parole: “scelta” (che dà un’idea di libertà), “confronto” (che fa tanto democratico), e così via.
Del resto, se consideriamo in termini percentuali il fenomeno delle scuole parentali, i numeri sono talmente bassi che non dovrebbero in teoria costituire alcun problema. Invece sono sotto attacco, perché sono il segnale, pericolosissimo per chi aspira a creare la bella massa informe e obbediente, che esistono famiglie attente e disposte ad agire, spesso con fatica, pur di salvare i loro figli. Sono la dimostrazione pratica che “si può fare”. Ergo, sono da bloccare subito. Per ora, con modi soft; in futuro, vedremo. Il regime totalitario ha sempre e solo un intento: quello di autoconservarsi, se necessario distruggendo i sudditi. Sudditi, non più cittadini.
Nessun commento:
Posta un commento