di Fabio Trevisan
Secondo Etienne Gilson (1884-1978), grande studioso francese di filosofia e storia medievale, il saggio di Chesterton su San Tommaso d’Aquino era senza possibilità di paragone il miglior libro mai scritto su San Tommaso. Nulla di meno del genio può rendere ragione di tale risultato. Quest’opera chestertoniana matura del 1933 è infatti, soprattutto nella seconda parte, stupefacente e filosoficamente molto profonda, come si evince anche da questo breve stralcio: “San Tommaso sostiene che in qualsiasi momento una comune cosa è qualcosa; ma non tutto ciò che potrebbe essere. C’è una pienezza dell’essere, in cui essa potrebbe essere tutto ciò che può essere”. Il sano realismo tomistico coincideva, per Chesterton, nell’esaltazione dell’essere e nell’affermazione risoluta di una prodigiosa filosofia permanente solida e oggettiva.
Era la filosofia del senso comune, come brillantemente il pensatore di Beaconsfield sottolineava: “Da quando nel sedicesimo secolo ha avuto inizio il mondo moderno, nessun sistema filosofico è venuto a coincidere con il senso di realtà dell’uomo qualsiasi; con ciò che gli uomini comuni lasciati a se stessi, chiamerebbero realtà”. Cosa rimproverava lo scrittore inglese, sulle orme dell’Aquinate, al mondo moderno? L’aver abbandonato il credo e il dogma, proponendo una religione alternativa dell’intuizione e del sentimento: “Fu il rigido credo a resistere all’assalto del sentimento suicida…A tenere il pensiero in contatto con un pensiero più sano e più umanistico fu semplicemente e unicamente il dogma”.
Con l’eresia di Martin Lutero il pensiero aveva lasciato posto definitivamente, secondo le testuali parole di Chesterton, alla suggestione. Alle derive, appunto, suggestive ed esilaranti (nel senso peggiore del termine) delle filosofie moderne, lo scrittore londinese contrapponeva con vigore ed umoristicamente la filosofia perenne tomistica: “La filosofia si San Tommaso è fondata sull’universale comune convinzione che le uova sono uova. L’hegeliano potrà dire che l’uovo è in realtà una gallina, poiché è parte dell’incessante processo del divenire; il berkeleiano potrà sostenere che un uovo in camicia esiste solo come esiste un sogno; il pragmatista potrà credere che otterremo il massimo dalle uova strapazzate dimenticando il fatto che sono state uova, e ricordando soltanto lo strapazzamento. Ma nessun discepolo di San Tommaso avrà bisogno di rimescolarsi il cervello allo scopo di ben rimescolare le uova o di andarsi a mettere in una particolare angolatura per guardare le uova; di guardare le uova di traverso o di strizzare l’occhio così da vedere una nuova semplificazione delle uova. Il tomista sta alla luce del sole della confraternita umana, nella comune consapevolezza che le uova non sono galline né sogni né meri assunti pratici, ma cose attestate dall’autorità dei sensi, che viene da Dio”.
Credo che l’esempio di Chesterton possa aiutarci a capire, anche ai nostri giorni, quale tipo di battaglia si debba intraprendere. Egli coniugava ortodossia e umorismo cristiano, miscelando intelligentemente provocazione e sorpresa in quella sintesi mirabolante chiamata “paradosso”. Con un gioco di parole molto serio egli definiva in questo modo l’importanza del dogma e dell’ortodossia: “Insegui il dosso (nel significato di doxa=opinione), persegui il dosso affinché il dosso sia ortodosso”. Egli non tralasciava nulla di intentato per favorire la conversione dell’uomo e credeva che la filosofia di San Tommaso sarebbe stata la garanzia permanente della sanità mentale. Chesterton era consapevole che il crollo, prima ancora che essere di carattere morale, aveva a che fare con il pensiero, con l’ortodossia.
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