di Luca Fumagalli
La parabola esistenziale di Oscar Wilde fu caratterizzata da un drammatico funambolismo tra cielo e terra. Dandy e mondano, al contempo non smise mai di cercare quella scintilla di redenzione in grado di riscattare la fragile condizione umana. Trovò la tanto agognata consolazione solamente in punto di morte, quando finalmente, dopo numerosi tentativi abortiti, si convertì al cattolicesimo. Non sorprende dunque scovare nelle sue opere, anche le più “maledette”, dichiarazioni di simpatia nei confronti della Chiesa di Roma.
In questo brano, tratto da “Il ritratto di Dorian Gray”, Wilde parla della bellezza della liturgia latina. Al di là di una patina estetizzante, la descrizione che fa della Messa è una sinfonia del cuore e della mente:
«Una volta girò voce che si proponesse di passare al Cattolicesimo; e indubbiamente il rituale cattolico esercitava sempre su di lui una grande attrazione. Il sacrificio quotidiano, ben più terribile in realtà di tutti i sacrifici del mondo antico, lo commuoveva, sia per il superbo rifiuto della testimonianza dei sensi, che per la semplicità primitiva dei suoi elementi e per il “pathos” eterno della tragedia umana che tentava di simboleggiare. Gli piaceva inginocchiarsi sul freddo pavimento di marmo e seguire con lo sguardo il prete nei suoi rigidi paramenti a fiorami, mentre spostava lentamente con le mani bianche il velo del tabernacolo, oppure mentre elevava l’ostensorio ingemmato a forma di lanterna, con l’ostia sottile che, in certi momenti, si direbbe, è davvero il “panis caelestis”, il pane degli angeli, o mentre, indossando le vesti della Passione di Cristo, rompeva l’ostia dentro il calice o si batteva il petto per i propri peccati. I turiboli fumanti, che i fanciulli vestiti di trina e di scarlatto agitavano in aria simili a grandi fiori dorati, esercitavano su di lui un loro incanto sottile».
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